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Poema Pedagogico
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E-book1.113 pagine16 ore

Poema Pedagogico

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Educatori per un mondo nuovo
In questo Poema è raccontata la storia vera, bella ed avvincente di una colonia di recupero per ragazzi sbandati e di uomo che facendo leva solo sulla sua ferma
convinzione, riguadagna alla vita quei giovani ormai ritenuti perduti per la società.
Il suo impegno riguarda la natura umana e la sue possibilità di essere buona o cattiva a seconda del volgere non di quello che veniva definito Fato, ma dell’azione e della volontà di chi ha responsabilità nello svelare il potenziale positivo che gli eventi possono aver nascosto nell’uomo.
L’azione del Poema si svolge in Ucraina, una delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, a pochi anni dalla Rivoluzione di Ottobre.
Makarenko, convinto comunista, sente che è necessario recuperare alla Patria Sovietica quel patrimonio che ne rappresenta il futuro e si dedica a questa impresa con completa dedizione.
Egli vuole educare la gioventù, non solo, ma ha anche un obiettivo e un traguardo preciso: la creazione dell’uomo nuovo sovietico che deve essere onesto, onorato, lavoratore ed inserito pienamente nel collettivo della società comunista, pronto ad ubbidire ma anche a comandare e ad assumere le responsabilità necessarie all’avanzata di tutta la collettività, impegnando le sue qualità personali solo per realizzare questo avanzamento e non per suo tornaconto.
Il Poema descrive questa impresa.
L’azione di Makarenko si concretizza in una colonia, la Colonia Gor’kij, dove accoglie ragazzi inviategli dalle Autorità o presentatesi spontaneamente. Dopo una fase iniziale di organizzazione in cui stabilisce una disciplina accettata dai colonisti e li avvia al lavoro agricolo, crea i reparti, nuclei di giovani specializzati in lavori particolari, che affida alla responsabilità dei comandanti.
Già il titolo con la definizione dell’opera come “Poema” ci indica che Makarenko tratterà l’argomento con il respiro e la grandiosità di un grande affresco i cui personaggi descrivono una avventura che ha le caratteristiche del poema epico, cavalleresco, storico, ma essenzialmente e profondamente pedagogico.
Makarenko è indiscutibilmente epico e, come altri grandi educatori come don Milani o Alexander Neil, sono dei sognatori con i piedi per terra, perché hanno Fede e ripongono fiducia nei loro Credi. Sono uomini di Fede, assertori del messaggio originale nelle sue essenziali applicazioni. Ed è inevitabile che si scontrino con la Fede diventata burocrazia, che tenta di cancellarli per far salve le ragioni di stato, salvo poi riabilitarli, quando si ritiene che non potranno più fare danno alla istituzionalizzazione della Fede.
La lezione che lasciano questi uomini profetici, coraggiosi, giusti e limpidi è semplice e complessa allo stesso tempo.
Chiunque abbia buon senso e un poco di amore può dare tanto a chi ne ha bisogno, ma allo stesso tempo l’amore non basta, serve anche una visione pratica, educativamente fondata, determinata e lungimirante ed una sopportazione da eroi.
LinguaItaliano
Data di uscita7 mar 2019
ISBN9788833260549
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    Anteprima del libro

    Poema Pedagogico - Anton S. Makarenko

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    Anton S. Makarenko

    Poema pedagogico

    I grandi dell’educazione

    KKIEN Publishing International

    info@kkienpublishing.it

    www.kkienpublishing.it

    Titolo originale: Pedagogičeskaia poema, 1935

    Traduzione dal russo di Gregorio Solina.

    Prima edizione digitale: 2019

    ISBN 9788833260549

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    Table Of Contents

    Parte prima

    Conversazione con il direttore dell’Ufficio provinciale per l’istruzione popolare

    Inizio inglorioso della Colonia Gor’kij

    Bisogni elementari

    Un’operazione di carattere interno

    Affari di importanza statale

    La conquista del serbatoio

    Uno più uno meno…

    Carattere e cultura

    «Ci sono ancora dei cavalieri in Ucraina»

    «Gli eroi dell’educazione sociale»

    Il trionfo della seminatrice

    Bratčenko e il commissario distrettuale per l’alimentazione

    Osadčij

    Il calamaio della pace

    «Il nostro è il più bello»

    Hafersuppe

    La punizione di Šarin

    L’«alleanza» con i contadini

    Il gioco delle penitenze

    A proposito di ciò che è vivo e ciò che è morto

    Vecchi scorbutici

    Un’amputazione

    Sementi selezionate

    Il tormento di Semën

    Pedagogia del comandante

    I mostri della seconda colonia

    La conquista della gioventù comunista - Il Komsomol

    Comincia la fanfara

    Parte seconda

    Una brocca di latte

    Otčenaš

    Le dominanti

    Il teatro

    Educazione da kulak

    Le frecce di Cupido

    L’arrivo dei complementi

    Il nono il decimo reparto

    Il quarto reparto misto

    Matrimonio

    Lirica

    Autunno

    Smorfie d’amore e di poesia

    Non guaire!

    Gente difficile

    Zaporož’e

    Come bisogna contare

    Esplorazione di guerra

    Parte terza

    I chiodi

    Il reparto misto d’avanguardia

    Vita abitudinaria

    «Tutto va bene»

    Idillio

    Cinque giorni

    Il trecentosettantatrè bis

    Gopak

    Trasfigurazione

    Alle pendici dell’Olimpo

    Il primo covone

    La vita continua

    «Aiutate il ragazzo»

    Ricompense

    Epilogo

    ANTON S. MAKARENKO - L’UOMO COLLETTIVO{ img2.png }

    Cesare Scurati

    Alcuni anni fa, uno studioso italiano si chiedeva se era ancora il caso di prestare attenzione al pensiero ed all’opera di un autore come Makarenko, e rispondeva positivamente per almeno tre motivi: in primo luogo, perché lo scrittore ucraino «è venuto ad incarnare, a buon diritto o meno, il tipo di educazione non solo sovietica, ma, per molti, addirittura marxistica»; secondariamente, «per tentare una chiarificazione ed un accostamento alle differenti interpretazioni che ne sono date»; in terzo luogo, infine, «perché ci introduce in una tipica visione della realtà educativa»{1}.

    Il pedagogista sovietico

    L’universo ideale di Makarenko si definisce in un ambito che stabilisce i suoi confini di determinazione fra una serie di opposizioni polemiche ed una adesione vitale irrinunciabile.

    Vediamone i contenuti ed il significato.

    Le opposizioni sono sostanzialmente tre: alla pedagogia ‘accademica’, alla visione spontaneistica dello sviluppo, ed alla pretesa della scienza positiva del bambino (‘pedologia’) di fornire orientamenti del tutto sufficienti alla pratica educativa.

    Ovviamente, le opposizioni si sostanziano nel segno di un’adesione incrollabile ad una prospettiva pedagogica propria ed originale, che trae la sua ispirazione dalla linea marxista-sovietica e si corrobora nel fuoco di una più che impegnativa serie di scontri con la pratica educativa più esposta e rischiosa.

    Noi crediamo che tutte le implicazioni che era possibile trarre, sul terreno pedagogico, dalla posizione marx-leninista, Makarenko le abbia certamente individuate con la chiarezza di un animo convinto e la disponibilità di un temperamento entusiasta e realizzatore:

    l’intima e profonda saldatura fra teoria e prassi, assolutamente indispensabile e fondamentale sul piano sia della teoresi che della prassi, la necessità di una adesione a fondo alle situazioni edi un impegno diretto in esse per capirne la reale natura e saperne delineare le strategie più adatte di intervento. Contro i soloni dell’Olimpopedagogico, allora, viene facile a Makarenko di dire: «nelle mie mani non avevo alcuna scienza, nessuna teoria, e [... ] la teoria bisognava estrarla da tutta la somma dei fenomeni reali che si svolgevano sotto i miei occhi, [... ] mi occorrevano non formule libresche, ma un’analisi immediata ed un’azione immediata»{2};

    la costitutiva analogia- per non dire piena identità - che accomuna ratto politico all’atto pedagogico in quanto eventi appartenenti entrambi alla sfera della trasformazionalità radicale.Non c’è niente, sia in un campo che nell’altro, da ‘rispettare’ e ‘autenticare’ in una sua presunta perfezione data, non c’è niente che si possa ritenere normativamente intrinseco alla natura individuale, non c’è niente che la scienza mi possa indicare come assolutamente incontrovertibile sul piano tecnico-normativo (ecco il senso delle opposizioni alla teoria spontaneistico-rousseauiana dello sviluppo ed alla ‘pedologia’ di stampo positivistico), perché, invece, ogni atto ed intervento è fondamentalmente, sostanzialmente, intrinsecamente, un atto ed un intervento di ‘recupero’ da una alienazione e da una estrinsecazione profonda dell’uomo da se stesso (così come della società dalla sua vera funzione). Non si tratta di inverare, ma di ‘inventare’; non c’è da affidarsi ad alcun sviluppo autonomo delle potenzialità innate, ma soltanto da ‘correggere’ ciò che l’ordine borghese e la società tecnologica hanno prodotto.

    Non esiste un essere da scoprire e contemplare, ma soltanto un uomo nuovo da creare.

    L’illusione psicologica o organicistica si svelano per quelle che sono: illusioni appunto atte a mascherare una volontà di non trasformazione e di conservazione, quindi di difesa di un uomo che è ‘vecchio’ e va cambiato. Pertanto, in Makarenko l’animus pedagogico si pone come animus produttivo, industrialmente fabbricatore, rivolto all’azione educativa, sia in senso teoretico generale («quanto più ci pensavo, tanto più trovavo delle somiglianze fra i processi dell’educazione e i soliti processi della produzione materiale»){3} sia che operativo specifico (lavoro con soggetti diffìcili, delinquenti precoci da recuperare), nel suo aspetto di tecnicità effettuativi.

    Educare vuol dire cambiare, ed è dalla politica e nell’etica che questo significato trova i suoi alimenti costitutivi.

    La politica è il campo che offre all’educazione i suoi fini concreti, storici, non accademici o libreschi ma reali, le sue terminazioni da inscrivere nell’immediatezza della prassi individuale e collettiva. Ed è assolutamente vano parlare di fini dell’educazione se non se ne identifica la fonte in una consapevolezza criticamente situazionata ed in una condivisione di ideali significativi per la trasformazione della vita.

    È necessario, allora, cambiare anche il quadro epistemologico del sapere pedagogico, spostando le cosiddette scienze positive esatte dell’uomo (biologia, psicologia, sociologia) da un ruolo centrale ad uno sussidiario, poiché i fini non possono provenire da alcuna presunta ‘natura’ ma soltanto «dalle nostre necessità sociali, dalle aspirazioni del popolo sovietico, dagli obiettivi e dai compiti posti dalla nostra rivoluzione e dalla nostra lotta»{4}.

    Tali fini si condensano in un obiettivo del tutto particolare e specifico: forgiare quel particolare tipo di uomo che è l’uomo comunista, l’uomo indispensabile perché il carattere ‘sovietico’ si sostanzi, si incarni, si affermi e si perpetui.

    In Makarenko si riscontra con la più lampante evidenza, allora, la sintesi fra una convinzione teoretico-politica generale, un ideale educativo pratico estremamente semplice e chiaro ed un temperamento educativo di rilevante creatività e genialità.

    La consapevolezza culturale diventa in lui spontaneamente e nativamente idealità morale, senso di una missione, percezione intima di un dovere, dedizione assoluta e totale ad un compito, ottimistico sentimento di una prospettiva sempre aperta, rigoroso autocontrollo contro ogni cedimento e compromesso: eticità.

    L’uomo - abbiamo detto - è da cambiare; ma, inoltre, l’uomo ‘si può’ cambiare, ‘deve’ essere cambiato. L’uomo non è chiuso in nessun determinismo precostituito, ma appare (attenzione: ‘deve’ apparire) come esistenza aperta, possibilità di cambiamento in profondità, tensione dinamica dialetticamente disponibile al divenire alternativo. Tale divenire, poi, può essere riconosciuto ed avvalorato nel senso di una sostituzione rigeneratrice (non soltanto innovativa) di un ordine oggettivo ad uno soggettivo, cioè di un principio collettivistico ad uno individualistico.

    In termini makarenkianamente non sofisticati, potremmo dire: sostituzione di una centrazione sul ‘noi’ ad una sull’‘io’, instaurazione di un perno comunistico ad un perno egoistico nella costruzione della personalità, radicazione della coscienza in un insormontabile senso della partecipazione ad una oggettività storico-politica che mi trascende e, trascendendomi, mi fonda e mi rende consistente (il partito, lo stato, la nuova società umana).

    La singolarità individuale, l’isolamento del particolare dal tutto, la possibilità di una autonomia che contrasti con la finalità organica ‘oggettiva’ della società; tutto questo diviene termine di aggressione eliminativa, ‘male’ politico e pedagogico, disorganicità, ricaduta in un passato ed in un presente che devono invece venire tolti di mezzo, ‘nemico’ da sconfiggere, termine di riferimento per la lotta. Il circolo che collega politica ed educazione è meccanico ed immediato: alla rivoluzione corrisponde la pedagogia della ‘produzione’ di personalità funzionali alle finalità sociali stabilite; alla programmazione centralistica rigida fa da corrispettivo la assunzione in termini di ‘mete" educative degli ideali economici e morali generali.

    L’educazione è la catena di montaggio dalla quale uscirà il prodotto del comportamento adeguato alle richieste di chi organicamente incorpora ed interpreta il senso del divenire sociale. Il ‘collettivo’ è l’organo deputato alla traduzione in realtà effettiva di questo impianto pedagogico.

    Il collettivo

    Il ‘collettivo’ è nello stesso tempo un concetto, un principio ed una realizzazione.

    Come concetto, indica «un libero gruppo di lavoratori uniti da un fine unitario, da un’attività unitaria; è un gruppo di organi dipendenti, con una disciplina ed una responsabilità. Il collettivo è un organismo sociale in una società umana». Come principio, esprime l’impossibilità di realizzare l’impresa educativa secondo lo schema tradizionale del rapporto dualistico educatore-educando, poiché «la giusta organizzazione educativa, che dà l’indirizzo sia al singolo insegnante, sia al singolo allievo, sia alla famiglia, deve essere la scuola come un qualche cosa di organico, come un unico collettivo scolastico»{5}. Come realizzazione, è una sorta di società sovietica in miniatura, modello su scala pedagogica (ma realmente vissuto) della convivenza socialisticamente orientata.

    Di fatto, Makarenko ha organizzato le Colonie da lui dirette nella forma del ‘collettivo’, che vede come suoi tratti fondamentali: la vita in collegialità; la convivenza di educatori, minori, personale esecutivo ed amministrativo; l’organizzazione in reparti e gruppi di lavoro; l’autosufficienza economica mediante attività di lavoro e l’auto-amministrazione.

    Il collettivo, sotto il profilo istituzionale, appare come una formula educativa totale, entro la quale il soggetto da educare (ai vari livelli di età e per i diversi sessi) compie finterò arco delle sue esperienze ed esaurisce la globalità delle sue opportunità di crescita e di maturazione.

    Sotto il profilo realizzativo, emergono caratteristiche di questo genere:

    intima associazione di attività intellettuale ed attività pratico-manuale: il collettivo è un’unità di produzione economica, che provvede in larga misura al proprio mantenimento mediante il lavoro dei suoi membri;

    impiego del principio della «azione pedagogica parallela»: l’intervento pedagogico sul singolo è sempre mediato attraverso il coinvolgimento dell’intero gruppo di appartenenza (assemblee, discussioni di reparto), che viene investito di ogni problema e prende le decisioni del caso;

    cura degli aspetti estetici della convivenza: il collettivo coltiva il senso dell’ordine, della maestosità, della ‘liturgia’ (parate, divise, schieramenti) come espressione esterna di un ordine interiore e comestrumento di formazione dello spirito di appartenenza al gruppo;

    partecipazione alle mete della società politica: il collettivo prende parte direttamente alle grandi avanzate della società, come elemento attivo e trainante (campagna contro la superstizione religiosa, campagna contro l’alcoolismo);

    accentuazione delle componenti etiche nella formazione dei comportamento: il collettivo deve ottenere risultati sicuri, infondere convincimenti certi ed abitudini stabilizzate, rendere sensibili gli animi ai sentimenti della lealtà, dell’onore, del patriottismo, della solidarietà sociale;

    insistenza ottimistica nella ricerca del risultato: di fronte alla difficoltà, al cedimento, alla ribellione, il collettivo non disarma, ma cerca tutti i modi per arrivare a ‘cambiare’ l’oppositore, risvegliandone le energie positive più riposte e offrendo tutti gli aiuti necessari;

    apertura perenne al futuro: il collettivo non si adagia sul già ottenuto e conquistato, ma si apre continuamente a nuove imprese, in omaggio al criterio delle «mete prospettiche» continuamente proposte;

    impersonificazione carismatica della funzione dirigente: il direttore è la personificazione dello ‘stile’ collettivo stesso, la persona che ne incarna l’ideale e ne sostiene la continua evoluzione morale;

    crescita continua nel confronto con la realtà: il collettivo non progredisce in omaggio a teorie, ma nel confronto continuo fra gli ideali della lotta sociale e la propria vita interna, nella ricerca di una continua adeguazione della seconda ai primi.

    Ovviamente, è ben diffìcile rendersi conto, attraverso questa concettualizzazione riassuntiva, della ricchezza e della sovrabbondante freschezza della vita di un collettivo, che Makarenko sa rendere in pagine fra le più artisticamente valide dell’intera letteratura pedagogica.

    Ci limitiamo, pertanto, a riprendere qualche scorcio descrittivo.

    La retta via pedagogica

    Anton Semionovic, senza dubbio, è il primo protagonista del suo Poema. L’educatore appare, in primo luogo, un uomo di carattere, un vero uomo ‘sovietico’, convinto delle sue mete, cosciente del suo compito, anche se talvolta è dubbioso sui risultati che consegue e spesso attraversa delle vere e proprie crisi. Anch’egli sperimenta, per esempio, l’opposizione e l’ira: «La colonia assumeva sempre più il carattere di un covo di ladri, e nei rapporti con gli istitutori si precisava sempre più un tono costante di scherno e di teppismo».

    I ragazzi si rifiutano di eseguire lavori pesanti e, per di più, si comportano vandalisticamente con il materiale del collettivo. In quest’atmosfera, scoppia l’incidente.

    «Una mattina d’inverno proposi a Zadorov di andare a spaccare la legna per la cucina. Udii la solita risposta tra scanzonata ed arrogante:

    Vacci tu; siete in tanti, qui!

    Era questa la prima volta che mi si dava del tu.

    Adirato e offeso, spinto alla disperazione ed inasprito da tutti i mesi precedenti, scattai e colpii Zadorov sulla guancia. Colpii forte. Egli perdette l’equilibrio e rotolò sulla scala. Colpii una seconda volta, lo presi per il bavero, lo rialzai e colpii per la terza volta.

    Vidi subito che era terribilmente spaventato. Pallido, con le mani tremanti, si affrettò a rimettersi in testa il berretto, poi se lo tolse e se lo rimise. Probabilmente lo avrei colpito ancora una volta se egli non avesse sussurrato sommessamente, quasi con un gemito: perdonate, Anton Semionovic... ».

    Makarenko si rende conto perfettamente di avere deviato «dalla retta via pedagogica», ma, nello stesso tempo, aggiunge una riflessione decisiva: «La purezza delle mie mani di educatore era una cosa secondaria rispetto al compito che mi stava dinanzi» e conclude, infine, di avere «commesso un’azione pericolosa per me, ma umana e non formale».

    Processo e punizione.

    Il collettivo procede faticosamente lungo la strada della sua qualificazione innovativa, e deve lottare continuamente contro il riaffiorare del vecchio uomo, cioè delle precedenti abitudini: furto, omertà, violenza, insensibilità morale.

    Comincia a verificarsi una serie impressionante di furti. Sparisce lo stipendio del direttore, poi viene trafugato il lardo, poi il collare del cavallo ed, infine, viene derubata di ogni cosa la vecchia economa del collettivo. Quest’ultimo furto viene finalmente imputato a Burun, uno dei ragazzi che a Makarenko erano sembrati migliori. Il collettivo si riunisce in forma di tribunale popolare, per giudicare Burun, il quale finisce per confessare di essere lui l’autore di tutti i furti precedenti. I ragazzi propendono per una punizione violenta, ed è lo stesso Burun a chiedere che sia Anton Semionovìc stesso a provvedere in merito.

    «Attraversammo in silenzio il cortile buio, nei camminamenti di neve, io avanti e lui dietro. Sentivo dentro di me una grande ripugnanza. Burun mi pareva l’ultimo rifiuto della giungla umana. Non sapevo proprio cosa fare. Era capitato nella colonia perché faceva parte di una banda di ladri, i cui componenti maggiorenni erano stati in gran parte fucilati. Aveva diciassette anni.

    Burun stava in silenzio, ritto sull’uscio, io ero seduto al tavolo e a stento mi trattenevo dal tirargli in testa qualcosa di pesante e chiudere così la questione.

    Alla fine Burun alzò lentamente il capo, mi guardò fìsso negli occhi e disse piano piano, sottolineando ogni parola e trattenendo a stento i singhiozzi;

    Non ruberò più...

    Menti! L’hai già promesso una volta alla Commissione.

    Alla Commissione è una cosa e a voi un’altra. Punitemi come volete, ma non cacciatemi dalla colonia.

    E che ci trovi di interessante nella colonia?

    Mi piace stare qui. Qui si studia e io voglio imparare... Ho rubato perché mi piace mangiare forte.

    Bene, rimarrai tre giorni sotto chiave, a pane e acqua... E non toccare Taraniets!

    Bene!

    Burun rimase tre giorni in uno stanzino accanto al dormitorio, nello stesso stanzino dove nella vecchia colonia alloggiavano gli istruttori. Non lo chiusi a chiave, avendomi egli dato la parola d’onore che non ne sarebbe uscito senza il. mio permesso. Il primo giorno gli mandai effettivamente pane e acqua, ma il giorno dopo ne ebbi compassione e gli feci portare il pranzo.

    Burun tentò orgogliosamente di rifiutare, ma io gli gridai:

    Non fare il difficile, che diavolo!

    Egli sorrise, scrollò le spalle... prese in mano il cucchiaio.

    Burun mantenne la parola; egli non rubò più nulla, né alla colonia, né altrove».

    L‘organizzazione per reparti.

    Anche la struttura organizzativa del collettivo non viene identificata immediatamente, ma emerge progressivamente attraverso la lezione dell’esperienza. Alla fine, si consolida nella costituzione dei reparti.

    L’idea del reparto nasce in base ad una duplice considerazione: affrontare in maniera più adeguata le necessità della vita di colonia e mettere a frutto il romantico spirito di avventura che aveva tanta presa sui ragazzi. Di fatto, il problema della raccolta della legna determina il formarsi di un raggruppamento stabile di ragazzi, con un loro capo. Makarenko ufficializza l’innovazione, e tutto il collettivo viene ad essere organizzato in reparti, contrassegnati ciascuno da un numero ed affidati alla responsabilità di un ‘comandante’. Si introduce anche la consuetudine di raccogliere i comandanti dei reparti in un ‘consiglio’, che viene regolarmente consultato dal direttore. «Ogni ragazzo sapeva qual era il suo reparto permanente, che aveva un suo proprio comandante fìsso, un posto preciso nel sistema dei laboratori, nonché nel dormitorio e nel refettorio. Il reparto permanente costituiva il collettivo primario dei colonisti, e il suo comandante era di diritto membro del consiglio dei comandanti».

    Successivamente, ai reparti fissi vengono aggiunti i reparti misti, raggruppamenti flessibili settimanali, attuati in funzione di determinate competenze o necessità di lavoro. La leadership, in questi reparti, è il più possibile esercitata a rotazione, in modo da offrire al maggior numero possibile di ragazzi l’opportunità di svolgere un’esperienza di responsabilità diretta e attiva. «I comandanti dei reparti permanenti non assumevano quasi mai il comando dei reparti misti, ritenendo di avere già una sufficiente dose di responsabilità. Il comandante di un reparto permanente, quando lavorava in un reparto misto, era un semplice gregario e dipendeva dal suo comandante temporaneo, spesso membro dello stesso reparto permanente».

    Una festa.

    Il collettivo pervade tutta la vita dei colonisti e risulta coinvolto in ogni vicenda dei suoi membri. Esso, inoltre, comincia ad attirare l’attenzione degli abitanti della zona, per i quali diventa un punto di riferimento morale. È così che nel collettivo si celebra una festa di matrimonio, dalla cui descrizione traspare con la massima evidenza un peculiare gusto per la gioia e l’esteticità popolare.

    «In cortile sì ode già il segnale dell’adunata generale. Presso Pennata si è schierata una colonna dì colonisti con la bandiera e con il drappello dei tamburini, secondo tutte le regole. Da dietro il mulino compare la nostra coppia; i cavalli sono stati ornati con lustrini rossi... Diamo il via a un piccolo comizio... Dopo il comizio mettiamo ì giovani accanto alla bandiera e li scortiamo in schiera compatta verso le tavole. Per loro è pronto il posto d’onore, e dietro a loro si ferma la brigata della bandiera. Il colonista di turno provvede al cambio della guardia. Venti colonisti vestiti di bianco incominciano a servire il pranzo».

    Il collettivo in movimento.

    Il collettivo viene incaricato di trasferirsi in un’altra colonia.

    «Alle dodici l’incaricato dell’Ufficio provinciale firmò l’atto con cui prendeva possesso della colonia Gorki e si mise in disparte. Io ordinai.

    La bandiera, attenti!

    I ragazzi si tesero nel saluto, rullarono i tamburi, le trombe suonarono la marcia della bandiera. L’alfiere, con la brigata di scorta, portò fuori dal mio studio la bandiera, raggiungendo il fianco destro dello schieramento. Non dicemmo alcun addio alla vecchia località, pur senza nutrire per essa una qualsiasi avversione: semplicemente non ci piaceva guardarci indietro...

    Nel cortile della seconda colonia si era radunato tutto il personale. Erano presenti molti contadini... ed era schierata una colonna altrettanto bella, composta dai ragazzi della seconda colonia, irrigiditi nel saluto alla loro bandiera.

    Incominciava per noi un’epoca nuova».

    La famiglia

    Una delle più compiute espressioni dell’orientamento pedagogico di Makarenko si può ritrovare nei Consigli ai genitori, lavoro di carattere prevalentemente precettistico ma ricco di significativi spunti:

    l’autorità dei genitori si sostanzia non tanto di discorsi quanto di un costume e di una organizzazione familiare stabile, coerente ed equilibrata. I genitori non devono eccedere né nel senso di un atteggiamento distante e pedantesco né in un amore cieco ed irragionevole, fonte di corruzione;

    occorre stabilire un regime di vita caratterizzato dalla stabilità, retto su un sistema di disposizioni che evitino il ricorso tanto ai premi che ai castighi continui;

    l’educazione al gioco e quella al lavoro vanno intese lungo una intrinseca linea di continuità e di reciproca integrazione. È necessario evitare l’obbedienza puramente passiva e priva di motivazioni ed affidare invece delle responsabilità che abbiano sempre un significato effettivo sul piano della utilità per la collettività;

    la famiglia svolge anche un delicato compito di formazione culturale, esercitando un’attenta sorveglianza sui mezzi disponibili al fanciullo (letture, spettacoli cinematografici, ecc.). È necessario che sia evitato un eccessivo spirito di dilettantismo e di evasione, mirando sempre alla serietà ed alla produttività di ogni momento;

    l’educazione sessuale non consta di una iniziazione informativa alle conoscenze bio-fisiologiche ma, piuttosto, assume significato dall’esperienza dell’amore, dalla dedizione all’ideale, dal sano esercizio fisico, dalla serenità dei rapporti camerateschi.

    Questi rapidi cenni possono bastare - crediamo - a confermare ulteriormente i tratti caratterizzanti della posizione makarenkiana nella direzione di un’adesione ponderata alla tradizione temperata dal ‘buon senso’, di una considerazione piuttosto moralistica ed ascetica dello sviluppo del carattere e di un assoluto privilegio accordato alle finalità metasoggettive e sociali nei confronti di quelle semplicemente concessive e permissive. Quella di Makarenko è una visione ispirata ad un tipico ‘puritanesimo sovietico’, in cui la ‘serietà’ predomina senza riserve, per quanto l’istanza della felicità venga più volte conclamata.

    La felicità di cui si parla, però, non si identifica certamente con una vuota e spumeggiante possibilità di espressione assoluta e vezzeggiata in tutte le sue forme ma è, piuttosto, il sentimento di soddisfazione interiore che nasce da una raggiunta abnegazione. L’immediato della situazione educativa è sempre costituito da uno sforzo, da una denegazione, da una volontà di trascendimento, per cui l’inizio del processo viene a collocarsi, per sua costitutiva natura, sotto il segno del ‘difficile’. A proposito del lavoro, ad esempio, Makarenko non ha tentennamenti: «il movente determinante dello sforzo lavorativo non sia l’interesse [... ] ma la necessità [... ]. I genitori devono educare nel bambino la capacità di eseguire pazientemente e senza brontolìi anche i lavori più spiacevoli. Poi, man mano che il bambino si svilupperà, anche il lavoro più spiacevole gli procurerà una gioia se gli sarà evidente il valore sociale di esso»{6}.

    In questa progressione dalla necessità iniziale alla gioia conclusiva può essere debitamente identificato il nocciolo concretamente coglibile e riconoscibile della pedagogia di Makarenko come educatore sovietico classico.

    Fra ammirazione e dissenso

    Il problema più saliente affrontato dalla critica makarenkiana, sul piano della consistenza interna, è sicuramente costituito dalla questione della appartenenza o meno ad una visione marxisticamente ortodossa dell’educazione.

    La questione sembra essere ulteriormente complicata, poi, per la difficoltà di determinare cosa si possa definire per ortodossia marxista. Ad ogni modo, che Makarenko sia il più tipico esponente della concezione sovietica dell’educazione è sicuramente l’opinione più diffusa, sia pure con qualche diversa sfumatura, ed i contenuti che fanno propendere per questa soluzione appaiono sostanzialmente due: il primato assoluto assegnato al collettivo sull’individuale, e la concezione dell’educazione come processo pervasivo e totalizzante (Lombardi; Bowen e Hobson). Altri (Bellerate) ha seguito con più duttile attenzione lo svolgersi delle vicende filologiche e critiche e sembra puntare, più che su una identificazione marxista tout court, su un’etichettatura nel senso di un umanesimo sociale caratterizzato dal patriottismo, dall’ottimismo, dall’eudemonismo, dal collettivismo e dall’eticità. Inoltre, sembrerebbe affacciarsi, sia pur lentamente, l’immagine di un Makarenko meno monolitico e più ricco di sfumature di quanto non apparisse in precedenza.

    È anche interessante notare, poi, che all’interno stesso della cultura laicista e marxista c’è chi ha voluto sottolineare un progressivo calo dell’attualità immediata delle proposte makarenkiane a favore di un loro inscriversi ad un livello di validità metatemporale ed ispirativa ideale (Lombardo Radice) e chi non ha nascosto il suo dissenso dalle più evidenti incrostazioni conformistiche e strumentalistiche (Borghi; Ricciardi Ruocco).

    Quello di Makarenko sarebbe, dunque, un marxismo storicamente effettivo ma da considerare con la più cauta attenzione. Diversi critici (Visalberghi; Bertoni Jovine) hanno preferito mettere in risalto, con una soluzione non del tutto fuori luogo ma a nostro avviso - anche fuorviarne sotto vari aspetti, più che il lato marxistico, l’ascrivibilità al terreno generale dell’attivismo.

    In campo cattolico, l’attenzione per l’educatore sovietico è stata piuttosto costante ed impegnata, a partire dai giudizi favorevoli espressi da M. Casotti a proposito dei Consigli ai genitori, in cui Makarenko si rivela «sempre pieno di osservazioni interessanti e sensatissime» nell’ordine naturale, tanto da farlo ritenere un perfino imprevisto compagno di viaggio per la riaffermazione della «tradizionale, giusta e severa disciplina delle famiglie cristiane».

    G. Catalfamo ha invece espresso, in diverse riprese, senza mezzi termini le giustificazioni della sua critica negativa: Makarenko finisce con l’elaborare una forma di educazione che risulta esclusivamente strumentale al gruppo al potere, l’individuale viene assorbito senza residuo possibile nel collettivo, i vincoli formali ed istituzionali prevalgono, nelle relazioni interpersonali, su quelli realmente affettivi e diretti, il ruolo predomina sulla persona, la funzione fa scomparire il coinvolgimento, il reale significato della presa di posizione etica appare annullato nell’orizzonte meccanico della inevitabile prevalenza del collettivo, sul terreno metodologico appare inevitabile il ricorso a criteri e modalità di tipo autoritario, repressivo ed antipersonale.

    A queste osservazioni possono venire utilmente contrapposte quelle di G. Snyders, secondo il quale Makarenko può essere ancora proposto come l’autore esemplare di una sintesi ideale fra l’istanza dell’educazione come assunzione di modelli e la suscitazione delle indispensabili energie di partecipazione attiva nella relazione con i modelli stessi. A suo avviso, i postulati basilari della pedagogia di Makarenko non possono venire discussi, posto che non è possibile educare senza essere in possesso di modelli, scopi e fini precisi, i fini nascono da una situazione sociale presente, vista nell’ottica delle possibilità di trasformazione e l’ideale educativo non può essere attinto in astratto ma soltanto nella connessione con la situazione esistente. A questi postulati, poi, Makarenko ha saputo aggiungere la sua ‘arte’ educativa, consistente nella infusione della fiducia e della persuasione di camminare nella via della giustizia, del progresso e della verità nella estensione del senso sociale a sentimento della comunità e nella integrazione e sublimazione degli aspetti ‘duri’ del trattamento educativo (disciplina, punizione) con la felicità, la gioia. L’esaltazione della prospettiva, la partecipazione a finalità trascendenti.

    Makarenko, insomma, ha dimostrato in che modo è possibile collegare opportunamente i ‘modelli’ (cioè le finalità oggettivamente e politicamente date) con l’esperienza e le aspirazioni dei giovani e come si riesca a tradurre i modelli stessi in termini accetti alla loro psicologia.

    Ora, la piena grandezza educativa di Makarenko come animatore di comunità giovanili è stata ampiamente riconosciuta da tempo ma sono anche stati evidenziati i termini di un dissenso che parla - per citare P. Braido - di «facile e sommaria antropologia», di «parzialismo teoretico» e di «piatta e disumana visione materialistica della realtà».

    A noi pare che le coordinate più utili per la formulazione di un giudizio finale possano essere fissate proprio fra quanto detto da Snyders da una parte e da Braido dall’altra.

    Ciò che soprattutto colpisce negativamente in Makarenko è un ricorrente schematismo e manicheismo contrappositivo, evidente soprattutto in alcuni passaggi più scopertamente che in altri. «Le fabbriche - scrive - sono per noi un tempio circondato dalla gioiosa simpatia dell’uomo nuovo. Nell’occidente esse risvegliano brame di conquista e l’energia largamente operante degli sfruttatori; da noi, invece, esse generano energie per la vittoria sulla natura, un’energia ad altissimo potenziale per l’arricchimento di tutta l’umanità»{7}

    Lo stesso si dica per il collettivo, a proposito del quale – come nota opportunamente P. Nyberg - Makarenko non si accorge che anch’esso «come tale non garantisce le condizioni necessarie per una educazione veramente umana. L’uomo può essere irresponsabile tanto in un ambito collettivistico, quanto in uno individualistico»{8}.

    È chiaro, ad ogni modo, che le condizioni del controllo del comportamento cambiano radicalmente nei due contesti.

    L’ammirazione per l’educatore non deve quindi far velo di fronte al teorico dell’educazione. Quando L. Laberthonnière ha definito l’educazione opera ‘morale’ e non ‘industriale’, ha indicato quanto basta per distinguersi da tutte le posizioni pedagogiche di carattere eteronomico, di cui Makarenko è un esponente fra i più tipici. Forse, più dei suoi successi possono essere sintomatici i suoi insuccessi, cioè le volte in cui il suo ‘collettivo’ ha dovuto rinunciare all’integrazione, rompendo il dialogo ed abbandonando l’individuo recalcitrante al suo destino.

    Il senso pedagogico di questi abbandoni e di queste espulsioni dovrebbe essere sempre attentamente mediato da chiunque, intendendo fare dell’educazione un progetto totalizzante dell’altro{9}, rinuncia alla originalità della persona.

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    Con devozione e amore

    alla nostra guida, amico e maestro,

    Maksim Gor’kij.

    Parte prima

    Conversazione con il direttore dell’Ufficio provinciale per l’istruzione popolare

    Nel settembre del 1920 il direttore dell’Ufficio provinciale per l’istruzione popolare mi convocò e mi disse:

    - Ascolta, mio caro, ho sentito che hai imprecato parecchio ... che alla tua scuola di lavoro hanno assegnato, diciamo così... l’edificio dell’Ente provinciale dell’economia popolare sovietica.

    - Imprecare? Altro che imprecare, c’è da piangere piuttosto: che specie di scuola di lavoro è quella? Piena di fumo e di sporcizia com’è! Forse che assomiglia a una scuola?

    - Già… per te, diciamo così, la cosa andrebbe bene solo se venisse costruito un edificio nuovo, se si mettessero i banchi nuovi, allora sì che saresti pronto a lavorare. Ma il problema non sta negli edifici, fratello, qui si tratta di educare un uomo nuovo, e voi pedagoghi invece sapete solo sabotare ogni cosa: l’edificio non va bene, i tavoli non sono adatti, quello che vi manca è, come dire…, proprio quel fuoco rivoluzionario, capisci? Tirate solo a campare!

    - Io non sono affatto uno che tira a campare.

    - Beh è possibile che tu non sia proprio così… Maledetti intellettuali!... Io cerco, cerco… Il problema, però, è molto importante: c’è una marea di piccoli straccioni: non si è liberi di camminare per le strade, ripuliscono le case da cima a fondo. Mi dicono: tocca a voi dell’istruzione popolare risolvere questo tipo di problemi… E quindi?

    - E quindi che cosa?

    - Ecco, diciamo così, non gliene frega niente a nessuno. Per quanto provi a darmi da fare, tutti quelli a cui mi sono rivolto dicono che si rischia di farsi scannare. Per voi ci vuole un bell’ufficio, dei bei libri… Guarda un po’, hai messo perfino gli occhiali…

    Feci una risata.

    - Guarda un po’, perfino gli occhiali ti disturbano adesso!

    - Lo dicevo, io, che voi sapete soltanto leggere, e che se, diciamo così, vi affidano un uomo in carne ed ossa, avete subito paura che un uomo così vi possa scannare. Intellettuali del cavolo!

    Con i suoi occhietti neri, il direttore mi buttava rabbiosamente addosso degli sguardi penetranti come frecce e da sotto quei baffi alla Nietzsche affioravano calunnie che si riversavano sull’intera categoria dei pedagoghi. Quel direttore, però, era proprio in torto.

    - Ascoltami…

    - Già, «ascoltami»! Ma che cosa devo «stare ad ascoltare»? Cosa vuoi dirmi? Mi dirai… se fossimo in America! Per l’appunto ho appena finito di leggere un libriciattolo, che mi hanno affibbiato. Riformatori… oppure come diavolo li chiamano, aspetta!... Ah sì riformatori. No, noi di quella roba ancora non ne abbiamo.

    - Ma no, stammi a sentire!

    - Va bene, ti ascolto!

    - Sì, anche prima della rivoluzione, il sistema per raddrizzare i ragazzi sbandati, certo che c’era. Esistevano e come delle colonie per giovani delinquenti. Sì, però, lo sai che quella era tutt’altra cosa… prima della rivoluzione tutto era un’altra cosa.

    - D’accordo. Questo vuol dire che adesso occorre tirar fuori l’uomo nuovo in modo nuovo.

    - In modo nuovo, hai proprio ragione.

    - Nessuno però sa come.

    - E tu non lo sai?

    - No, io non lo so.

    - Invece qui da me, diciamo così… Nel mio ufficio, c’è gente invece che lo saprebbe e come…

    - Però non vuole occuparsene.

    - No, non vogliono, farabutti, hai proprio ragione…

    - E se io dovessi provarci, quelli non mi darebbero pace. Ogni cosa fatta da me, diranno che è sbagliata.

    - Hai ragione, diranno proprio questo quei farabutti.

    - E tu darai ragione a loro, non a me.

    - No, non gli darò ragione; dirò loro: avreste dovuto farlo voi!

    - E se io dovessi combinare davvero un bel guaio?

    - Il direttore diede un pugno sul tavolo:

    - Ah! se io, se io! E pasticcia pure come ti pare. Che vuoi da me? Pensi che io non capisca? Pasticcia, pasticcia pure, qualcosa bisogna pur fare. Poi si vedrà. L’importante, diciamo così… non è una qualche colonia di delinquenti minorenni, capisci, è l’educazione sociale… abbiamo la necessità di formare un uomo… il nostro uomo! E tu ci riuscirai. Tutti devono riuscirci. E ce la farai anche tu. Sei stato bravo nel dirmi in faccia: io non lo so. Va bene così.

    - E il posto c’è? Ci vogliono pur sempre degli edifici.

    - C’è, mio caro. C’è un posto che è una meraviglia. Una volta c’era proprio una colonia di delinquenti minorenni. E non è distante, è a sei verste da qui. Ci si sta che è una bellezza: boschi, campi, anche le mucche ci potrete allevare…

    - E il personale?

    - Ti pare che io ce l’abbia così a portata di mano? E magari vorresti anche un’automobile?

    - E il denaro?

    - Quello c’è, tieni.

    Tirò fuori dal cassetto un bel mazzetto di banconote.

    - Centocinquanta milioni. Ti saranno sufficienti per organizzare tutto quanto. Sarà pur necessario fare qualche riparazione, bisognerà pensare a qualche mobile.

    - E le mucche?

    - Quanto alle mucche c’è tempo. Ora mancano ancora i vetri. Ci vuole il preventivo per un anno.

    - Forse sarebbe meglio andare prima a vedere.

    - L’ho gia fatto io… tu pensi forse di avere una vista migliore della mia? Vacci, è tutto.

    - Va bene, dissi con un certo sollievo, giacché in quel frangente niente mi sembrava peggiore di quella stanza della direzione.

    - Bravo, diciamo così! – concluse il direttore – datti da fare, che è una causa santa!

    Inizio inglorioso della Colonia Gor’kij

    A sei chilometri da Poltava, sopra colline sabbiose, ci sono duecento ettari di pineta e, lungo la pineta, si trova lo stradone per Charʹkov, che risplende tristemente con il suo lucido, monotono, selciato.

    Nella pineta si stende una radura di circa quaranta ettari, dove, in un angolo, sono piazzate cinque scatole di mattoni, geometricamente perfette, che formano nell’insieme un quadrilatero regolare. E questa sarebbe per l’appunto la nuova colonia per i giovani trasgressori della legge.

    Lo spiazzo sabbioso del cortile discende in unʹampia radura nel bosco, fino al canneto di un laghetto, sulla cui riva opposta sorgono le siepi e le case di un villaggio di kulaki. Lontano, dietro il villaggio, è disegnata sullo sfondo del cielo una fila di vecchie betulle, e poi, ancora, due o tre tetti di paglia. Ed è tutto.

    Prima della rivoluzione si trovava qui una colonia per criminali minorenni. Nel la colonia si disperse, lasciando dietro di sé assai deboli tracce educative. A giudicare da queste tracce, conservate allʹinterno di registri assai consunti, i principali pedagoghi della comunità erano precettori, probabilmente ex sottufficiali, il cui compito era quello di seguire passo passo gli ospiti da rieducare, sia durante il lavoro che durante il riposo, e che di notte dove vano dormire in una camera attaccata alla loro. Da quanto raccontavano i contadini del vicinato, si poteva arguire che la pedagogia adottata da quei precettori non era particolarmente raffinata. Essa si esprimeva in un qualcosa di assai semplice: il bastone.

    Le tracce materiali della vecchia colonia erano ancora più insignificanti. Gli abitanti più vicini ad essa avevano trasferito nei cosiddetti depositi, vale a dire nelle loro rimesse oppure nei granai, a braccia o addirittura su carri, tutto ciò che poteva essere considerato un bene materiale: attrezzature, dispense, mobili. Tra le tante altre cose si erano portato via persino un frutteto. Ma occorre riconoscere che in tutta questa storia non c’era alcun atto vandalico. Il frutteto, infatti, non era stato tagliato, ma sradicato e trapiantato altrove; i vetri delle case non erano stati rotti, ma tolti con cura; le porte non erano state brutalmente sfondate con la scure, ma rimosse dai cardini con il riguardo di un padrone di casa; le stufe erano state smontate mattone per mattone. Solo una credenza, in quello che era stato lʹappartamento del direttore, era rimasta al suo posto.

    - Come mai la credenza è rimasta? , chiesi al nostro vicino, Luka Semënovič Verchola, che era venuto dalla fattoria per vedere i nuovi padroni.

    - Beh, vuol dire che i nostri non la hanno trovata di alcuna utilità. Anche a smontarla, come può constatare lei stesso, cosa se ne ricaverebbe? E poi, in una casa, non potrebbe entrarci nemmeno, né di altezza né di larghezza: è troppo alta e larga...

    Negli angoli delle baracche cʹerano mucchi di rottami dʹogni tipo, ma niente di utilizzabile. Visto che le tracce erano ancora fresche, riuscii a recuperare alcuni beni depredati proprio negli ultimi giorni. E cioè complessivamente: una vecchia seminatrice qualsiasi; otto banchi da falegname, che ancora si reggevano a stento sulle gambe, ma lì lì per accasciarsi al solo pensiero di un lavoro di falegnameria; un cavallo castrato, un tempo d’origine kirghiza e di almeno trentʹanni; ed una campana di rame.

    Nella colonia trovai già il direttore amministrativo, Kalina Ivanovič. Costui mi accolse con la domanda:

    - Sarà lei il direttore, per la parte pedagogica?

    Constatai presto che Kalina Ivanovič si esprimeva con una spiccata pronuncia ucraina, sebbene in teoria egli non riconoscesse la lingua ucraina. Nel suo vocabolario cʹerano però molte parole ucraine e pronunciava sempre la «g» alla maniera meridionale. Ma nella parola

    «Pedagogico» - non si capisce perché - calcava tanto sulla «g» (d’origine letteraria grande russa), che la «g» in bocca a lui sembrava persino troppo marcata.

    - Lei sarà il direttore per la parte pedagogica?

    - Perché? Sono io il direttore della colonia...

    - No, - disse lui togliendosi la pipa di bocca, lei sarà il direttore pedakokiko ed io il direttore amministrativo.

    Immaginatevi il «Pan» di Vrubel, già del tutto calvo, con appena qualche ciuffetto superstite sopra le orecchie. Togliete al «Pan» la barba e sistemategli i baffi alla maniera di un alto dignitario ecclesiastico. Infilategli infine una pipa fra i denti. Ora al posto del «Pan» avrete ottenuto Kalina Ivanovič Serdjuk. Era un uomo estremamente complicato per un compito tanto semplice, quale la gestione economica di una colonia giovanile. Aveva alle spalle almeno cinquant’anni di attività nei campi più svariati. Ma andava fiero soltanto di due epoche della storia: di quando in gioventù era stato ussaro nella guardia di sua maestà nel reggimento del Keksgol’m; e di quando, nel , aveva diretto l’evacuazione della città di Mirgorod durante l’offensiva tedesca.

    Kalina Ivanovič divenne il primo oggetto della mia attività educativa. La cosa che più mi preoccupava era la sua capacità di esprimere le più diverse convinzioni. Imprecava con lo stesso gusto contro i borghesi, i bolscevichi, i russi, gli ebrei, contro il nostro essere scioperati e contro la precisione tedesca. Ma i suoi occhi azzurri brillavano di un tale amore per la vita ed era così vivace e recettivo, che a me non dispiaceva riservargli una piccola parte della mia energia pedagogica. E cominciai la sua educazione fin dal primo giorno, già dalla nostra prima conversazione:

    - Ma come la pensa, compagno Serdjuk… Una colonia non può esistere senza un direttore.

    Qualcuno deve pur assumersi l’intera responsabilità.

    Kalina Ivanovič si tolse di nuovo la pipa di bocca e si chinò gentilmente verso il mio viso:

    - Così lei vorrebbe essere il direttore della colonia? E io dovrei essere in qualche modo a lei subordinato?

    - No, non deve essere per forza così, sarò io ad essere sottoposto a lei.

    - Io pedagogia non ne ho studiata e quel che non mi spetta non mi spetta. Lei è ancora giovane e vorrebbe forse che io, che sono vecchio, mi mettessi a fare il galoppino? Anche questo non sarebbe giusto. E lei sa bene che non sono abbastanza istruito, per essere io il direttore della colonia. E poi perché dovrei?

    Kalina Ivanovič si allontanò risentito. Se ne stava imbronciato. Per tutto il giorno gironzolò afflitto e a sera, al colmo della disperazione, entrò nella mia stanza e mi disse:

    - Le ho messo qui un tavolino e un lettino, quello che sono riuscito a trovare…

    - Grazie.

    - Ho pensato e ripensato a come risolvere il problema della colonia. Ho deciso che è senza dubbio meglio che lei sia il direttore, mentre io sarò per così dire alle sue dipendenze.

    - Troveremo una soluzione, Kalina Ivanovič.

    - Credo anch’io, che ci accorderemo. Il mondo non è stato fatto in un giorno e noi sapremo svolgere il nostro compito. Ma lei, che è una persona istruita, sarà per così dire il direttore.

    Cominciammo a lavorare. Con l’aiuto di pertiche rimettemmo in piedi lo sfiancato ronzino trentenne. Kalina Ivanovič si arrampicò su una specie di calesse gentilmente prestatoci dal nostro vicino e l’intera baracca si mise in movimento in direzione della città, alla velocità di due chilometri all’ora. Era così iniziata la fase organizzativa.

    Nella fase organizzativa avevamo un compito quanto mai essenziale e cioè il compito di «concentrare» i beni materiali necessari alla formazione dell’uomo nuovo. Per due mesi, con Kalina Ivanovič, passai intere giornate in città. Kalina Ivanovič andava in calesse, io a piedi. Per lui andare a piedi era un qualcosa di disdicevole, mentre io non riuscivo assolutamente a rassegnarmi alla lenta andatura che il vecchio cavallo Kirgiso era in grado di sostenere.

    In due mesi, con l’aiuto di alcuni specialisti del luogo, riuscimmo a rimettere in sesto alla meno peggio uno dei casamenti dell’ex colonia: risistemammo i vetri, riparammo le stufe, montammo nuove porte. In politica estera ottenemmo un unico, ma importante risultato: riuscimmo ad avere dalla Commissione Rifornimenti della Prima Armata di Riserva centocinquanta pud di farina di segale. Non ci riuscì di concentrare nessun altro bene materiale.

    Paragonando tutto questo con il mio ideale di supporto materiale alla cultura, mi feci persuaso che, anche se avessi avuto cento volte più di quello che avevo, il mio ideale sarebbe rimasto comunque lontano. Per cui mi vidi costretto a dichiarare chiusa la fase organizzativa. Kalina Ivanovič era perfettamente d’accordo con me:

    - Cosa si può ottenere da questi parassiti che sanno solo costruire accendini? Hanno rovinato il popolo e adesso ti dicono arrangiati. Come l’eroe popolare russo Il’ja Muromec…

    - Il’ja Muromec?

    - Sì, proprio lui. Era un tale Il’ja Muromec… Forse hai sentito… ecco loro, i parassiti, ne hanno fatto un eroe. A parer mio invece era semplicemente un poveraccio, un buono a nulla, pensa che andava in slitta anche d’estate.

    - Beh, via, anche ad essere come Il’ja Muromec, non è poi così male. E Solovej brigante?

    - Di gente così, fratello, ce n’è quanta ne vuoi.

    Sopraggiunsero alla colonia due educatrici: Ekaterina Grigor’evna e Lidija Petrovna. Nelle mie ricerche di personale pedagogico ero arrivato al limite estremo della disperazione: nessuno voleva saperne di dedicarsi all’educazione dell’uomo nuovo nella nostra foresta, tutti avevano paura degli sbandati e nessuno credeva che la nostra impresa potesse andare a buon fine. Solo in una riunione del personale delle scuole rurali, nella quale dovetti eccellere nella capacità di persuasione, trovai due persone recettive. E fui contento che fossero donne. Mi sembrava infatti che l’influenza femminile avrebbe completato felicemente, rendendolo meno rozzo, il nostro sistema di forze.

    Lidija Petrovna era ancora giovane, quasi una ragazzina. Aveva da poco finito il liceo, sicché non si era ancora staccata del tutto dalle protettive ali materne… Il direttore dell’Ufficio provinciale dell’istruzione popolare mi aveva chiesto, firmando la nomina:

    - Che te ne fai di quella ragazza? Non ha nessuna esperienza.

    - Proprio quello che cercavo. Vede, a volte mi viene in mente che le conoscenze non siano poi così importanti. Proprio questa Lidočka non conosce minimamente la corruzione e conto su di lei per un innesto di purezza.

    - Non ti crederai troppo furbo? Beh, come vuoi...

    All’opposto, Ekaterina Grigor’evna era un vecchio lupo delle scienze dellʹeducazione. Non era molto più grande di Lidja, ma questa le si appoggiava sulla spalla come un bimbo alla mamma. Sul bel viso serio di Ekaterina le sopracciglia nere si mostravano quasi virili. Sapeva portare con distinzione il suo abito, che si conservava bene a dispetto delle circostanze e Kalina Ivanovič, dopo averla conosciuta, notò giustamente:

    - Con una donna del genere bisogna comportarsi con molta prudenza… E così tutto era pronto.

    Il quattro dicembre arrivarono alla colonia i primi sei ragazzi da rieducare; e mi consegnarono un pacco misterioso, con cinque enormi sigilli di ceralacca. Contenevano le loro «pratiche». Quattro di essi erano sui diciotto anni ed erano stati mandati lì per rapina a mano armata e violazione di domicilio; gli altri due erano più giovani e colpevoli di furto. I nostri ospiti erano ben vestiti: pantaloni alla zuava, stivali eleganti. Ed erano pettinati all’ultima moda. Non sembravano proprio ragazzi abbandonati. Si chiamavano Zadorov, Burun, Volochov, Bendjuk, Gud e Taranec.

    Li accogliemmo con gentilezza. Fin dal mattino avevamo preparato un pranzo particolarmente appetitoso e la cuoca splendeva nel suo grembiule bianco come la neve. Nel dormitorio, nello spazio libero tra i letti, erano state imbandite tavole sontuose. Non avevamo tovaglie, ma queste erano state ottimamente sostituite da lenzuola nuove. Qui si riunirono tutti i membri della colonia nascente. Venne anche Kalina Ivanovič, che per l’occasione aveva sostituito la sua giacca grigia unta e bisunta con una giacchetta di velluto verde.

    Pronunziai alcune parole sulla nuova vita di lavoro, sul fatto che bisognava dimenticare il passato e che bisognava andare sempre avanti. I ragazzi ascoltavano ben poco del mio discorso, mormoravano fra loro, guardavano con aria di disprezzo le brande pieghevoli allineate nella camera con le coperte tutt’altro che nuove, e le porte e le finestre grezze. Nel bel mezzo del mio discorso Zadorov disse forte ad uno dei compagni:

    - È grazie a te che siamo finiti in questo casino!

    Il resto della giornata lo passammo a pianificare la nostra vita futura, ma i ragazzi ascoltavano le mie proposte con cortese indifferenza, preoccupati solo di sbarazzarsi al più presto del sottoscritto.

    Il mattino dopo venne da me, sconvolta, Lidija Petrovna, dicendo:

    - Non so proprio come fare… dico loro che bisogna andare a prendere l’acqua al lago e uno di quelli, ben pettinato, che si stava infilando gli stivali, me ne piazza uno dritto di fronte al viso e mi fa: «Vede, il calzolaio me li ha fatti troppo stretti!».

    Nei primi giorni non ci insultavano, semplicemente ci ignoravano. Verso sera si allontanavano liberamente dalla colonia e ritornavano al mattino, sorridendo in risposta alle mie prediche di educatore sociale. Nel giro di una settimana Bendjuk fu arrestato da un’agente del commissariato provinciale, per omicidio e rapina commessi una delle notti precedenti. Lidija si spaventò a morte, se ne stava a piangere in camera sua ed usciva solo per chiedere a tutti:

    - Ma cosa sta succedendo? Ma come è possibile? Se ne è uscito ed ha ammazzato… Ekaterina Grigor’evna sorridendo amaramente, arricciava le sopracciglia:

    - Non so, Anton Semenovič, non lo so davvero… forse dobbiamo semplicemente andarcene, non so più come comportarmi.

    Il bosco deserto che circondava la nostra colonia, le scatole vuote delle nostre case, una decina di brande al posto dei letti, un’accetta e una vanga e quella manciata di ragazzi da rieducare che rifiutavano categoricamente non solo la nostra rieducazione, ma l’intera civiltà umana; tutto questo, in verità, non corrispondeva per nulla alle nostre precedenti esperienze scolastiche.

    Le lunghe serate invernali nella colonia erano opprimenti. Disponevamo di due sole lampade a petrolio: una nel dormitorio e una in camera mia. Le insegnanti e Kalina Ivanovič avevano una specie di lampada a petrolio: una lampada, del tempo di Kij, Šček e Choriv. La parte superiore del vetro del mio lume era rotta e l’altra era per di più sempre annerita, perché Kalina Ivanovič, per accendere la sua pipa, attingeva spesso al fuoco del mio lume con un pezzo di giornale.

    Quell’anno le tempeste di neve cominciarono presto. Il cortile della colonia era sepolto da cumuli di neve e nessuno lo sgomberava. Lo chiesi ai ragazzi, ma Zadorov mi disse:

    - Sgomberare i sentieri? Sì, va bene. Ma solo quando l’inverno sarà finito. Perché se noi li sgomberiamo adesso, la neve torna subito a ricoprirli. Capisce?

    Dopodiché sorrise gentilmente e si volse verso un compagno dimenticando la mia esistenza. Zadorov proveniva da una famiglia di intellettuali, lo si capiva subito. Parlava con correttezza e il suo volto esprimeva il benessere giovanile tipico dei ragazzi ben nutriti. Volochov apparteneva a un’altra categoria di persone: bocca larga, naso largo, occhi distanziati, il tutto accompagnato da un’accentuata vivacità dei lineamenti carnosi, una vera faccia da bandito. Volochov teneva sempre le mani nelle tasche dei pantaloni e in quella posa si avvicinò:

    - Le serve altro?…

    Uscii dal dormitorio con la rabbia che diventava come una pietra pesante in mezzo al petto. Ma i sentieri dovevano essere aperti, e poi la mia rabbia aveva l’assoluto bisogno di uno sfogo. Mi avvicinai a Kalina Ivanovič:

    - Andiamo a togliere la neve.

    - Ma scherzi! Non sono mica venuto qui per fare il manovale. E quelli che ci stanno a fare? - Indicava col capo il dormitorio. Ci sono i Solovej briganti, no?

    - Non ne vogliono sentir parlare.

    - Parassiti! Dai, andiamo.

    Io e Kalina Ivanovič avevamo appena terminato di aprire il primo sentiero, quando vi apparvero Volochov e Taranec, diretti come sempre in città.

    - Oh, bel lavoro, bene! disse allegramente Taranec.

    - Era ora! ripeté Volochov.

    Kalina Ivanovič sbarrò loro la strada.

    - Come sarebbe a dire «bel lavoro»? Tu canaglia ti rifiuti di lavorare e credi che debba farlo io per te? Tu di qua non ci passi, parassita! Affannati nella neve se non vuoi sentire questa pala…

    E brandì furiosamente la pala. Ma in un baleno la sua arma volò lontano, in un mucchio di neve, e la pipa partì in direzione opposta, mentre Kalina Ivanovič, esterrefatto, poteva solo accompagnare con lo sguardo i giovani e sentirsi gridare da lontano:

    - Vacci tu nella neve, così ti riprendi la vanga! E si diressero verso la città sghignazzando.

    - Piuttosto che lavorare qui, me ne vado al diavolo! disse Kalina Ivanovič e si rintanò nella sua stanza abbandonando la pala nella neve.

    La nostra vita si era fatta triste, insopportabile. Sulla strada per Char’kov si sentiva ogni sera gridare:

    - Aiuto!

    I cittadini rapinati arrivavano da noi a chiedere aiuto con voci disperate.

    Mi feci assegnare dal direttore dell’Ufficio per l’istruzione una pistola, con la scusa di difendermi dai bravi di strada, ma gli nascosi la situazione della colonia. Non avevo ancora perso del tutto la speranza di trovare il modo di scendere a patti con i nostri rieducandi.

    I primi mesi della nostra colonia furono per me e per i miei colleghi non solo mesi di disperazione e di vani sforzi: furono anche i mesi della ricerca della verità. In tutta la mia vita non ho mai letto tanti libri di pedagogia come nell’inverno del 1920.

    Erano i tempi di Vranghel’ e della guerra polacca. Vranghel’ era vicino, dalle parti di Novomirgorod. Non molto lontano da noi, a Čerkassy, combattevano i polacchi. Per tutta lʹUcraina vagavano soldati alla macchia. Intorno a noi molti vivevano nellʹillusione azzurro-gialla. Ma noi, nel nostro bosco, con la testa appoggiata sulle mani, cercavamo di ignorare il chiasso dei grandi avvenimenti e leggevamo libri di pedagogia.

    Per me il principale risultato di quelle letture fu la convinzione, diventata chissà perché ad un tratto salda e fondata, di non avere in mano alcuna scienza ed alcuna teoria; e che una teoria avrei potuto se mai trarla da tutta la somma di fenomeni reali, che accadevano sotto i miei occhi. Inizialmente non capii tanto, ma alla fine mi accorsi che ciò che mi occorreva non erano semplici teorie, che non trovavano applicazione nella realtà, ma un’analisi immediata ed un’azione diretta.

    Noi affogavamo nel caos dei particolari, nel gran mare delle richieste elementari del buon senso che avevano la capacità di fare a pezzi tutto lo scibile della nostra scienza pedagogica.

    Scienza pedagogica?

    All’improvviso compresi che dovevo sbrigarmi, che non potevo tergiversare nemmeno un solo giorno. La colonia acquistava sempre di più le caratteristiche di un covo di malviventi. Nel rapporto fra i ragazzi e gli insegnanti s’era insinuato in modo crescente, da parte dei primi, il tono dello scherno e del teppismo. In presenza delle educatrici già si raccontavano barzellette sporche, chiedevano sfrontatamente da mangiare, si tiravano i piatti nella mensa, giocavano con i coltelli e domandavano in modo sfottente quanti beni uno possedesse:

    - Sa, può sempre far comodo… in un momento difficile.

    Si rifiutavano categoricamente di andare a cercare la legna per le stufe; e, alla presenza dello stesso Kalina Ivanovič, distrussero di proposito il tetto di legno della rimessa, mentre ridacchiavano e scherzavano fra loro:

    - Questo ci sarà più che sufficiente!

    Kalina Ivanovič fumava nervosamente la sua pipa.

    - E digli qualcosa, se sei capace, a questi parassiti. Canaglie della malora!!! Per quale motivo devono distruggere le cose in questa maniera! Bisognerebbe mettere in galera i loro inutili genitori!

    Così accadde che un bel giorno uscii fuori dalle convenzioni della pedagogia.

    Una mattina d’inverno avevo proposto a Zadorov di andare a spaccar legna per la cucina. Mi sentii dare la solita, allegra risposta alla Zadorov:

    - Vacci tu, siete in tanti qui!

    Era la prima volta che mi davano del «tu».

    In preda alla rabbia e al rancore, esasperato ed irritato da tutti i mesi trascorsi, scattai e colpii Zadorov sul volto. Colpii forte e quello non si resse sulle gambe e cadde sulla stufa. Lo colpii un’altra volta, lo risollevai per il colletto della maglia e lo colpii ancora.

    D’improvviso mi accorsi che si era terribilmente spaventato. Pallido, con le mani che gli tremavano, si affrettò a mettersi il cappello, poi se lo tolse e se lo rimise. Probabilmente lo avrei colpito ancora, ma quello sussurrò, quasi gemendo:

    - Perdoni, Anton Semenovič…

    La mia rabbia era talmente selvaggia e sfrenata, che se qualcuno avesse osato dire una parola contro di me, mi sarei scagliato su chiunque, deciso ad ammazzare e ad eliminare quella gentaglia. Nelle mani stringevo un attizzatoio di ferro. Tutti e cinque se ne stavano in silenzio vicini ai loro letti, e Burun si affrettò a mettersi a posto qualcosa del vestito.

    Mi girai verso di loro e picchiai con l’attizzatoio sul bordo di un letto:

    - O andate immediatamente tutti a lavorare nel bosco o ve ne andate al diavolo, fuori della colonia!

    E uscii dal dormitorio.

    Passando nello scantinato, dove tenevamo i nostri attrezzi, presi un’ascia e restai lì, estremamente indispettito a sorvegliare, mentre quelli sceglievano le asce e le seghe. Mi sfiorò il pensiero che quello non era il giorno più adatto per spaccar legna; e che sarebbe stato meglio non dar loro in mano le asce. Ma ormai era tardi. Presero tutto quello che serviva loro. Non me ne fregava niente. Ero pronto a tutto e deciso a vendere cara la pelle. In tasca avevo anche la pistola.

    Andammo nel bosco. Kalina Ivanovič mi raggiunse e mi bisbigliò, in preda all’agitazione:

    - Cosa succede? Dimmi, per carità, com’è che stanno così buoni? Guardai distrattamente negli occhi azzurri del Pan e dissi:

    - Brutta faccenda, fratello… Per la prima volta in vita mia ho malmenato una persona.

    - Oh! Caspita! Disse Kalina Ivanovič. E se quelli ci denunciano?

    - Beh, questo sarebbe il danno minore…

    Con mia grande meraviglia tutto andò per il meglio. Rimasi a lavorare con i ragazzi fino all’ora di pranzo. Tagliammo alcuni pini piegati dal vento. I ragazzi si dimostravano per lo più offesi, ma l’aria fresca e frizzante, la bellezza del bosco ricoperto di neve e il prezioso aiuto dell’ascia e delle seghe fecero la loro parte.

    In un momento di pausa fumammo un poco imbarazzati attingendo alla mia riserva di tabacco e, soffiando il fumo verso le cime dei pini, Zadorov sbottò ad un tratto in una risata:

    - Ah, magnifico, ah, ah!...

    Era piacevole vederlo ridere tutto colorito e non potei fare a meno di rispondergli sorridendo:

    - Magnifico cosa, il lavoro?

    - Anche il lavoro. Come mi ha steso, però!

    Zadorov era un giovane robusto e di grande prestanza fisica e poteva permettersi di ridere. Io stesso ero stupito di aver attaccato quel fusto.

    Prese l’ascia e, continuando a ridere di gusto, si diresse verso un albero.

    - Che storia! ah, ah, ah!

    Pranzammo insieme, con appetito e in allegria, ma senza più accennare ai fatti del mattino.

    Continuavo a sentirmi a disagio, ma avevo già deciso di non cambiare tono e confermai con estrema sicurezza le disposizioni per il pomeriggio. Volochov accennò un sorriso, ma Zadorov mi si avvicinò con tutta serietà:

    - Non siamo poi così cattivi, Anton Semënovič! Andrà tutto bene, abbiamo capito…

    Bisogni elementari

    Il giorno seguente dissi ai ragazzi:

    - Nel dormitorio ci deve essere pulizia! Dovete stabilire fra voi un turno di servizio. In città si può andare solo con il mio permesso. Chi ci va senza permesso, può fare a meno di ritornare, non sarà più ammesso.

    - Olalà! fece Volochov, non è che si va sul pesante?

    - Scegliete, ragazzi, quello che vi conviene. Io non posso fare diversamente. Nella colonia ci deve essere disciplina. Se non vi piace, andate pure dove vi pare. Ma chi resta nella colonia deve condividere la disciplina. Scegliete. Ma qui covi di ladri non ce ne saranno.

    Zadorov mi tese la mano.

    - Qua la mano, è giusto! Tu Volochov, sta zitto. In questa cose, sei ancora uno scemo.

    Dobbiamo comunque restare qui, se non vogliamo finire in galera.

    - E a scuola bisognerà andarci per forza? – chiese Volochov.

    - Certo.

    - E se io non voglio studiare?... Che me ne faccio?...

    - La scuola è obbligatoria, che tu lo voglia o no. Vedi, lo stesso Zadorov ti ha appena detto che sei uno scemo. Bisogna studiare per migliorarsi.

    Volochov, scuotendo scherzosamente la testa, ripete le parole di un certo detto ucraino:

    - A volte il rimedio è peggiore del male!

    Quanto alla disciplina l’episodio con Zadorov segnò una svolta.

    A dire il vero, non provavo rimorso. Sì avevo malmenato un rieducando. Avvertivo tutta l’inconcepibilità pedagogica, tutta l’irregolarità giuridica del fatto, ma nel contempo capivo che l’avere le mani pulite come educatore era cosa di secondaria importanza rispetto al compito che mi trovavo davanti. Decisi fermamente che sarei stato un despota, visto che non disponevo di un altro metodo. Dopo un po’ di tempo ci fu un serio scontro con Volochov, il quale, pur essendo di turno, non aveva fatto pulizia nel dormitorio e rifiutava di farla anche dopo le mie osservazioni. Lo guardai con rabbia e dissi:

    - Non farmi perdere le staffe, pulisci!

    - E se non lo faccio mi picchierà? Non ne ha il diritto.

    Lo afferrai per i bavero, me lo avvicinai e gli soffiai sul volto con tutta sincerità:

    - Stammi a sentire, ti avverto per l’ultima volta. Non ti picchierò soltanto, ti storpierò per tutta la vita. Poi

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