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Metamorfer. La gemma di Darwin
Metamorfer. La gemma di Darwin
Metamorfer. La gemma di Darwin
E-book556 pagine7 ore

Metamorfer. La gemma di Darwin

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Info su questo ebook

Golfo di Napoli. Aria fresca, mare un po’ mosso, atmosfera sensuale. Subito un personaggio fosco e affascinante, Raf, assetato di vendetta. Subito una splendida giornalista, dai capelli color del grano maturo, Eva Nabokova. E subito una serie di misteriosi e intriganti interrogativi. Il romanzo di Pellegrino De Rosa non perde tempo: t’inchioda alla pagina e ti tiene sulla corda fino all’ultimo e sorprendente capitolo, con il ritmo incalzante e avvincente dei migliori action-movie. E, sullo sfondo, una Napoli misteriosa e affascinante: i suoi vicoli, i suoi odori, le sue leggende e i suoi coloritissimi personaggi.

Finalmente un fanta-thriller italiano che, per contenuti, suspense e humor, è in grado di competere degnamente con i colossi stranieri dello stesso genere, e con una marcia in più: la proposta di una inedita teoria evoluzionistica ideoplastica (il “Plasticismo evolutivo”) che sta già facendo tanto discutere.
LinguaItaliano
Data di uscita6 giu 2012
ISBN9788867510184
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    Anteprima del libro

    Metamorfer. La gemma di Darwin - Pellegrino De Rosa

    Pellegrino De Rosa

    METAMORFER

    La gemma di Darwin

    con la postfazione di Enzo Pecorelli

    ROMANZO

    Copyright © 2012

    Youcanprint Self-Publishing

    Via roma 73 - 73039 Tricase (LE)

    Tel. 0833.772652

    Fax. 0832.1836533

    info@youcanprint.it

    www.youcanprint.it

    Titolo : Metamorfer. La gemma di Darwin

    Autore : Pellegrino De Rosa

    Copertina: Youcanprint Self-Publishing

    ISBN: 9788867510184

    Prima edizione digitale 2012

    Questo eBook non potrà formare oggetto di scambio, commercio, prestito e rivendita e non potrà essere in alcun modo diffuso senza il previo consenso scritto dell’autore.

    Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata costituisce violazione dei diritti dell’editore e dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla legge 633/1941

    A Benedetta, mia moglie,

    che mi illumina la vita

    con i colori dell’arcobaleno.

    E a mio figlio Antonio,

    che da quella policroma luce attinse

    per irradiarla verso il futuro.

    E anche a me stesso!

    Perché mantengo sempre

    quel che prometto.

    Poniti dinanzi agli eventi

    come un bambino

    e sii pronto ad abbandonare

    ogni preconcetto.

    Vai, umilmente, dovunque

    e in qualunque abisso

    la Natura ti conduca.

    O non apprenderai niente.

    T.H. Huxley

    I miracoli accadono non

    in opposizione alla natura,

    ma in opposizione a ciò

    che della natura conosciamo.

    Sant’Agostino

    Il bassorilievo di Orione che una tradizione napoletana fa coincidere con Colapesce.

    Indice

    Prologo

    Cap. 01

    Cap. 02

    Cap. 03

    Cap. 04

    Cap. 05

    Cap. 06

    Cap. 07

    Cap. 08

    Cap. 09

    Cap. 10

    Cap. 11

    Cap. 12

    Cap. 13

    Cap. 14

    Cap. 15

    Cap. 16

    Cap. 17

    Cap. 18

    Cap. 19

    Cap. 20

    Cap. 21

    Cap. 22

    Cap. 23

    Cap. 24

    Cap. 25

    Cap. 26

    Cap. 27

    Cap. 28

    Cap. 29

    Cap. 30

    Cap. 31

    Cap. 32

    Cap. 33

    Cap. 34

    Cap. 35

    Cap. 36

    Cap. 37

    Cap. 38

    Cap. 39

    Cap. 40

    Cap. 41

    Cap. 42

    Cap. 43

    Cap. 44

    Cap. 45

    Cap. 46

    Cap. 47

    Cap. 48

    Cap. 49

    Cap. 50

    Cap. 51

    Cap. 52

    Cap. 53

    Cap. 54

    Cap. 55

    Cap. 56

    Cap. 57

    Cap. 58

    Cap. 59

    Cap. 60

    Cap. 61

    Cap. 62

    Cap. 63

    Cap. 64

    Postfazione

    Ringraziamenti

    Note sull’autore

    PROLOGO

    L’uomo in muta da sub procedeva con circospezione lungo il corridoio in penombra che conduceva all’area della base segreta NATO riservata ai laboratori.

    Udì un cigolio e vide l’anta di una porta dischiudersi, davanti a sé. Si appiattì alla parete e impugnò la pistola silenziata. Socchiuse gli occhi color ghiaccio e puntò l’arma contro la nuca del ricercatore in camice bianco che stava uscendo, a testa bassa, dal laboratorio di biologia marina. Trattenne il fiato, mentre il sangue gli pulsava forte nelle tempie e gli rimbombava nelle orecchie come un tamburo. Non gli faceva affatto piacere, tuttavia, se il giovane si fosse girato verso di lui, avrebbe dovuto eliminarlo e nasconderne il corpo.

    Ma una mano affusolata afferrò il braccio dello scienziato, prima che si accorgesse di lui, e lo tirò nuovamente all’interno del laboratorio. «Dai, vieni qua, sciocco… ti farò vedere i fuochi d’artificio!» sussurrò una roca voce femminile proveniente dall’interno della stanza.

    Raf Donovan rinfoderò l’arma e sorrise all’inconsapevole preveggenza di quelle parole - l’intuito femminile lo aveva sempre affascinato.

    Aveva riconosciuto la calda voce della ragazza ed era sicuro che i due amanti sarebbero rimasti occupati per un bel po’.

    La giovane era una ricercatrice ventisettenne dai seni poderosi e dai lunghi capelli rosso fuoco che, in meno di sei mesi, aveva sedotto circa un terzo degli uomini e delle donne della base. Si diceva che portasse un’araba fenice tatuata sulla natica destra e che, facendola sobbalzare a ritmo di bunga-bunga, avesse rivelato: «È un uccello di fuoco che si rianima continuamente… come piacciono a me!»

    L’intruso passò oltre, badando a non fare rumore, e si fermò davanti a una porta blindata, sulla quale campeggiava un pannello luminoso con la scritta RISCHIO BIOLOGICO. Accostò un orecchio alla fredda porta d’acciaio e rimase in ascolto per un lungo istante. Appoggiò un calco di impronte digitali, in gelatina stabilizzata, al rilevatore della serratura elettronica e la porta si aprì con un ronzio.

    Si ritrovò immerso nella penombra bluastra e sterile di un moderno laboratorio biotecnologico e l’odore penetrante del disinfettante, molto simile a quello dell’incenso, gli pizzicò la gola e lo fece tossire.

    Accese una piccola ma potente torcia elettrica e la tenne tra i denti, in modo da avere le mani libere, e il fascio di luce illuminò in rapida successione i costosi e modernissimi sequenziatori di DNA che facevano bella mostra lungo le pareti, alternati a banconi refrigerati e a postazioni per l’osservazione microscopica.

    Raf li ignorò completamente e si diresse con decisione verso la libreria addossata alla parete di fronte a lui.

    Con la torcia ancora tra i denti, fece luce su alcuni libri allineati sul ripiano più alto e ne scorse i titoli: "La confutazione di Darwin, L’inganno dell’evoluzionismo", "Dio e la fisica quantistica".

    Inarcò le sopracciglia, dubbioso.

    Secondo il prof. Pedro, la soluzione dell’enigma evoluzionistico era talmente semplice che nessuno l’aveva compresa appieno e, per oltre un secolo e mezzo, il mondo scientifico era stato fuorviato da una teoria che, pur avendo avuto molti e indiscutibili meriti e pur presentando numerosi aspetti ancora validissimi, aveva trascurato di tener conto proprio dell’aspetto più importante.

    E, a giudicare dagli ultimi eventi, il vecchio professore non solo era stato il primo a intuire la sorprendente verità, ma era riuscito anche a ricavarne una rivoluzionaria applicazione tecnologica - la stessa che, presumibilmente, era stata la causa della sua recente morte violenta.

    Tirò fuori il volume "L’inganno dell’evoluzionismo" e lo appoggiò sulla mensola inferiore della libreria. Infilò, con cautela, una mano in fondo al ripiano ed estrasse una capsula metallica nascosta dietro di esso. L’involucro conteneva un piccolo chip nero e a forma di Y. Lo prese con estrema attenzione e lo infilò in un astuccio impermeabile agganciato alla cintura della muta da sub.

    Tastò lungo il portante della libreria fino a incontrare una leggera rientranza, vi ci infilò il dito e premette con decisione; si udì un lieve ronzio e il pesante mobile ruotò su sé stesso, scoprendo l’ingresso di un locale segreto.

    Quello era il laboratorio più importante della base, la cui esistenza - ne era più che sicuro - era nota solo a un ristretto gruppo di scienziati e di militari deviati, capeggiati da quel grassone traditore del comandante Michael Brown.

    Si diresse rapidamente verso il Metamorfer - l’induttore mutageno che costituiva il modulo più rivoluzionario e importante del laboratorio - e lo osservò pensieroso: era formato da un nero e lucido piedistallo a forma di prisma, non molto più grande di un forno a microonde, sormontato da una piramide semitrasparente capovolta.

    «La gemma di Darwin! Allora esiste veramente!» mormorò, come ipnotizzato dagli scintillanti riverberi, verde smeraldo, giallo e viola, che vibravano all’interno della piramide, quasi fosse animata da vita propria.

    Quell’apparecchiatura - che avrebbe potuto essere scambiata per un oggetto decorativo - costituiva, probabilmente, una delle più importanti invenzioni della storia dell’umanità. E lui si trovava là per distruggerla!

    Si passò le mani tra i corti capelli neri - improvvisamente titubante - poi, con rinnovata determinazione, sganciò un disco esplosivo dalla sua cintura e lo appoggiò alla parte superiore della struttura.

    Una foto appesa a una parete richiamò la sua attenzione. Era ingiallita dal tempo e ritraeva il professore, da giovane, insieme a una ragazza dalla faccia pulita che, da come lo guardava, doveva essere sua moglie o una sua fidanzata.

    Portò la mano alla fronte e accennò a un saluto militare. Gli aveva giurato di portare via il chip e stava mantenendo la promessa.

    Ricordò, con un amaro sorriso, che era stato proprio il professore a spiegargli che quel saluto derivava dal movimento che eseguivano i cavalieri medioevali europei quando, sollevando la celata dell’elmo delle loro armature, mostravano il volto in segno di rispetto.

    Certo che un solido elmo metallico gli sarebbe stato molto utile, visto come gli è stato fracassato il cranio rifletté, storcendo il naso.

    Si scosse da quei pensieri e diede una rapida occhiata all’orologio subacqueo: aveva trenta secondi di ritardo rispetto alla tabella di marcia.

    Balzò verso una fila di dewar - i grossi thermos in acciaio inossidabile, simili a contenitori per il latte, utilizzati per conservare embrioni o campioni biologici nell’azoto liquido - ne svitò i tappi e li coricò a terra, senza far rumore. I bianchi vapori di azoto, più pesanti dell’aria, si adagiarono sul pavimento, formando una densa nuvola. Entro pochi minuti tutto quello che vi era conservato sarebbe stato irrimediabilmente danneggiato.

    Si massaggiò il mento, ripassando mentalmente le operazioni effettuate, e annuì soddisfatto del lavoro compiuto.

    Ma gli rimaneva ancora un’altra cosa da fare!

    Entrò nella stanza accanto e ne uscì, subito dopo, tenendo in braccio qualcosa avvolto in una coperta.

    Il fagotto emise un flebile gemito e Raf prese a muoverlo con maldestra delicatezza, come per cullarlo; poi uscì dal laboratorio e richiuse la porta dietro di sé. Girò alla sua sinistra e si incamminò nel corridoio buio e deserto, seguendo le indicazioni dell’uscita di emergenza.

    Il fardello che portava in braccio emise un altro gemito, questa volta simile al verso dei gatti in amore.

    «Ssshhhhhhhh…» sussurrò, e riprese a dondolarlo piuttosto goffamente. Il miagolio, però, non smise, anzi divenne ancora più forte e più acuto.

    «Cavolo… stai zitto!» gridò.

    Ma lo strillo aumentò ulteriormente d’intensità e di frequenza fino a sfociare nel campo degli ultrasuoni, al punto che fu costretto ad appoggiare a terra il fagotto urlante per coprirsi le orecchie dolenti con le mani, mentre alcune lampade del corridoio si frantumavano in mille schegge.

    Il suono intermittente e nasale di una sirena si sostituì agli strilli emessi dalla piccola creatura: era stato scoperto, ma almeno il frastuono della sirena aveva distratto l’esserino che portava in braccio, facendolo smettere di urlare.

    Da una serie di sibili idraulici e di scatti metallici, capì che erano entrate in funzione le misure di contenimento: tutte le porte, compresa quella che conduceva allo sbocco verso il mare, si erano bloccate e le poche luci rimaste integre si erano accese illuminando il corridoio.

    Era in trappola!

    Corse, slittando sulle lucide mattonelle, fino all’uscita di sicurezza in fondo al corridoio, estrasse la pistola e fece fuoco contro la serratura elettronica, facendola saltare. Il pannello emise crepitanti scintille, seguite da un acre fumo azzurrognolo, e la porta si aprì con uno stridio metallico. Fece per entrare, ma un uomo in divisa gli sbarrò il passo; era corpulento e calvo e con una brutta cicatrice che gli segnava la guancia destra dall’orecchio fino all’angolo delle labbra. L’uomo gli puntò contro una pistola, impugnandola con entrambe le mani, e gli intimò: «Muoviti lentamente e consegnami il piccolo!»

    Raf balzò agilmente all’indietro, sganciò dalla cintura una bomba a mano e la lanciò in direzione del soldato, bisbigliando, a denti stretti: «No. È meglio se prendi questa!»

    L’uomo con la cicatrice si mise in salvo tuffandosi con sorprendente agilità attraverso una porta laterale.

    L’esplosione sollevò una soffocante nuvola di fumo ed entrarono in funzione gli ugelli dell’impianto antincendio.

    Un attimo dopo si udì una deflagrazione ancora più forte: il laboratorio che Raf aveva sabotato era saltato in aria!

    Frattanto, qualche stanza più all’interno, gli spruzzi d’acqua stavano bagnando la schiena nuda e liscia della giovane ricercatrice dai capelli rossi, impegnata a cavalcare, imperterrita, il suo frastornato amante.

    La calda amazzone alzò lo sguardo verso l’ugello dell’impianto antincendio che le spruzzava il volto arrossato e ansimante, si sciacquò la faccia e i capelli, aiutandosi con le mani, e lasciò che i rivoli d’acqua le scendessero lungo il seno turgido fino a bagnarle il ventre piatto e palpitante e il caldo e tumido inguine.

    Quell’imprevista variazione l’aveva eccitata ulteriormente e cominciò a mugolare sempre più forte, passando dal trotto al galoppo.

    Il suo compagno, spaventato dal fragore, cercò di divincolarsi, ma la ragazza gli pose una mano sul petto e lo spinse giù con forza; di sicuro l’uomo non avrebbe dimenticato facilmente quell’esperienza: in pratica, stava subendo una violenza!

    Ma la cosa, a giudicare dalla sua faccia beata, non pareva dispiacergli affatto.

    Raf, sfruttando la confusione, raggiunse una porta di servizio e la sfondò con una spallata.

    Si ritrovò in un’ampia caverna carsica sottomarina, illuminata da accecanti fari alogeni. Al centro della grotta le concrezioni calcaree erano state rimosse o ricoperte dal cemento mentre, nell’area periferica, erano ancora presenti alcune stalagmiti e colonne di travertino.

    In fondo alla caverna c’era un laghetto dal quale filtrava un tenue chiarore azzurrognolo. Era la sua via di fuga: doveva raggiungerlo al più presto e scappare servendosi di uno degli scooter d’acqua - i piccoli mezzi subacquei di colore giallo, simili a tozzi siluri - che galleggiavano nello specchio d’acqua, accanto ad altri mezzi sommergibili più grandi.

    Si diresse, correndo, verso il primo scooter ma una voce alle sue spalle lo fece irrigidire.

    «Consegnami il piccolo e arrenditi» sibilò un uomo in divisa, magrolino e di bassa statura. Aveva un ghigno irridente scolpito sul volto spigoloso e gli stava puntando una pistola alla fronte.

    «Mai» rispose Raf.

    Lo colpì al volto con un fulmineo calcio ruotato e balzò dietro una stalagmite - giusto in tempo per ripararsi dagli spari che il militare gli tirava da terra.

    Era nei guai. Si trovava sotto tiro e non poteva raggiungere lo specchio d’acqua a pochi metri da lui. Sapeva, inoltre, che entro pochi minuti, quel posto avrebbe brulicato di soldati.

    Sono nella merda fino al collo, imprecò tra sé.

    Si guardò attorno, in cerca di una soluzione, e notò una doppia fila di bidoni di carburante proprio accanto ai mezzi subacquei. Spostò il fagotto sull’altro braccio e lanciò l’ultima granata proprio ai piedi dei primi fusti.

    In un attimo scoppiò l’inferno.

    Due potenti esplosioni rimbombarono nella grotta, facendola vibrare; un’alta fiammata vorticò fino alla volta della cavità carsica, un denso fumo nero invase tutto l’ambiente e l’aria divenne ben presto incandescente e irrespirabile.

    Non poteva più raggiungere i mezzi subacquei che, investiti dalle fiamme, esplodevano uno dopo l’altro, ma poteva ancora provare a scappare a nuoto.

    Alzò la mano per infilarsi la maschera subacquea e buttarsi in acqua, ma non ebbe il tempo di farlo: una scarica azzurrognola e accecante, simile a un arco voltaico, lo investì facendolo contorcere e piegare su sé stesso per il dolore.

    Le gambe e le braccia non avevano più un solo grammo di forza e gli parevano percorse da milioni di formiche impazzite che gli mordevano le carni. Non riuscì a trattenere il prezioso fagotto e lo lasciò cadere lentamente a terra: «Cavolo… sei proprio una piccola testa di cazzo!» imprecò, ad alta voce.

    Coperto dalla cortina di fumo, si trascinò faticosamente fino al bordo del laghetto e vi si lasciò scivolare dentro.

    Il suo inseguitore, tossendo per il fumo acre, recuperò il fagotto e scaricò l’intero caricatore della sua pistola in direzione del punto in cui si era immerso.

    Raf vide le bianche scie disegnate dalle pallottole che penetravano nell’acqua, ma non si preoccupò più di tanto. Ormai era al sicuro: era a oltre un metro di profondità e sapeva che, essendo l’acqua del mare circa seicento volte più densa dell’aria, i proiettili avevano già perso gran parte della loro efficacia. Inoltre, il contatto con l’acqua fredda e salata gli aveva fatto riprendere parzialmente il controllo degli arti.

    Nuotò, con il cuore che sembrava esplodergli nelle orecchie, attraverso un fangoso sifone subacqueo e, dopo un tempo che gli parve interminabile e con le orecchie che gli ronzavano come un nido di calabroni, riuscì infine a emergere alla luce, in mare aperto.

    Espulse, tossendo, l’acqua salata che gli soffocava i polmoni e inspirò rumorosamente l’aria salmastra.

    Udì, in lontananza, il ritmico e rassicurante scrosciare della risacca contro la costa pietrosa e si abbandonò, esausto, al moto delle onde che lo risucchiavano e lo sollevavano come un relitto inerte.

    Riconobbe, a circa mezzo miglio, la vasca galleggiante di un impianto di pescicoltura e accese un piccolo fumogeno. A quel segnale, un grosso motoscafo si staccò dalla piattaforma e si diresse verso di lui, raggiungendolo in pochi minuti.

    Una giovane donna di colore gli lanciò una cima per aiutarlo a salire a bordo e gli chiese, preoccupata: «Dov’è il piccolo?»

    Raf salì a bordo, ansimando, e si lasciò cadere, esausto, sul ponte dell’imbarcazione. «Quel maledetto mostriciattolo! Mi ha lanciato una scarica… e ho dovuto mollarlo» spiegò, lanciando lontano la maschera.

    «E il chip? Hai preso il chip?» incalzò Bea.

    Raf annuì, si alzò in piedi e portò la mano alla cintura per prendere l’astuccio: «Dannazione!» esclamò, confuso. «Non l’ho più. Devo averlo perso quando sono scivolato in acqua!»

    Un istante dopo, schioccando come una saetta inattesa in una giornata di sole, si udì un colpo d’arma da fuoco in lontananza.

    Raf si voltò in direzione dello sparo, verso riva, e fu colpito da un riflesso accecante. Qualcuno dalla costa, appostato tra le bianche rocce calcaree e i cespugli di erica, li teneva sotto tiro.

    Bea barcollò e si aggrappò a lui, cingendogli il collo con forza; sui suoi occhi nocciola calò un grigio velo di sgomento e di paura e si accasciò come una marionetta con i fili recisi.

    Raf rimase a fissare - incredulo - la mano calda, appiccicosa, e rossa di sangue che fino a un istante prima aveva cinto la schiena della sua donna e un urlo di dolore gli ruggì nella gola: aveva visto troppa gente morire in quel modo per non sapere che quella ferita era mortale.

    Si chinò sulla ragazza e le sfiorò le labbra tremanti con un tenero bacio.

    Prese delicatamente il binocolo al collo di lei e lo puntò verso riva, in direzione della base militare.

    Michael Brown, il comandante della base, stava ancora imbracciando un fucile di precisione e lo agitava in aria in segno di sfida, inarcando le sue folte sopracciglia da orango.

    Raf strinse forte a sé la sua donna morente e le sussurrò sulle labbra: «Lo troverò… Ti giuro che troverò quel grasso maiale pelato e lo ammazzerò con queste mie mani… dovessi finire all’inferno per farlo!» non sapendo che, in un certo senso, sarebbe stato proprio ciò che avrebbe dovuto fare.

    Ma la sua giovane compagna non poteva già più sentirlo; i suoi occhi erano ormai persi nel vuoto, a fissare, senza più poterlo vedere, il cielo azzurro rigato da lunghe strisce di nuvole bianche.

    Raf avvertì una ventata gelida attraversargli il corpo e sentì che qualcosa era morto per sempre dentro di lui.

    Con un’ultima e lieve carezza abbassò le palpebre della sua amata, che tante volte aveva sfiorato con labbra innamorate, e capì che, ormai, solo la vendetta poteva ridare un qualche senso alla sua vita.

    CAP. 01

    9 anni dopo

    Eva Nabokova, un’avvenente e atletica giornalista di ventinove anni, inspirava ed espirava ritmicamente, mentre correva a lunghe falcate sulla spiaggia semideserta. I lunghi e lisci capelli, dal colore simile al grano maturo, ondeggiavano al vento, come la criniera di una giovane puledra al galoppo.

    Indossava un minuscolo e aderente pantaloncino azzurro, che metteva in risalto le lunghe gambe tornite e l’armonioso fondoschiena, e una t-shirt bianca che le lasciava scoperto il ventre piatto e che arrivava appena a coprirle il seno sodo e ben proporzionato.

    Il mare era un po’ mosso. Era di primo mattino e l’aria fresca e frizzante era l’ideale per fare un po’ di jogging.

    La giovane donna regolò il ritmo del suo respiro su quello delle onde del mare: due respiri ogni tre onde che si infrangevano sulla battigia.

    Dopo un certo numero di onde - le sembrava ogni undici - ne giungeva una più lunga delle altre e allora deviava leggermente la traiettoria per non bagnarsi le scarpette.

    Del mare la affascinava il movimento lento e potente delle sue onde, che lambivano la spiaggia come una calda e sensuale carezza, e la violenza selvaggia dei suoi flutti che, quando era in tempesta, rombavano scuotendo gli scogli indifesi, insinuandosi in ogni spazio, e schizzavano impetuosi spruzzi schiumosi. A volte, persa nei propri pensieri, aveva la sensazione che quella sconfinata distesa fosse viva; la sentiva quasi pulsare e respirare, ed era tentata di tuffarsi nella sua immensità e di perdersi in essa.

    Una folata di vento le portò il lieve profumo delle ginestre che ravvivavano con gialle chiazze di colore i terreni vulcanici circostanti, neri e bruciati dal sole, e la parte basale del non lontano Vesuvio. A tratti, la brezza marina la investiva, dalla sua sinistra, con soffi di microscopiche e fredde goccioline di acqua salata che le procuravano dei sottili brividi di piacere.

    Proprio in quel momento, il caldo disco del sole si levò oltre la cima della collina alla sua destra e le riscaldò il volto.

    Sentì un’immensa energia pervaderle il corpo - che percepiva perfettamente in forma e allenato - ed ebbe l’impulso di fare un salto di gioia.

    E lo fece senza stare a pensarci su: levò il pugno destro al cielo e lasciò che un urlo gioioso le esplodesse, come un ruggito, nel cuore e nella gola.

    Un giovane gabbiano, impaurito dalla sua rumorosa esternazione, si alzò lesto in volo e si allontanò verso il largo.

    Eva storse la bocca e rimase a osservare la doppia fila di orme a tre dita impresse dall’uccello sulla sabbia bagnata, rammaricandosi d’averlo spaventato.

    Quel posto le piaceva immensamente, al punto che, quando - due anni prima - ci era venuta per una vacanza, se ne era visceralmente innamorata e aveva affittato una casa vicino a quella spiaggia.

    Per la verità, nella sua decisione di lasciare il suo Paese d’origine, l’Estonia, aveva avuto un certo peso anche il fatto che si era innamorata di un giovane albergatore italiano. Dopo alcuni mesi l’amore per l’albergatore era finito ma non quello per l’Italia.

    Quel Paese le piaceva da morire.

    Fin da bambina era rimasta affascinata dall’elegante forma allungata e aggraziata di quella penisola, così particolare da renderla facilmente riconoscibile anche dallo spazio. Le piaceva paragonarla al profilo di un cavalluccio marino, anche se era più somigliante a uno stivale: quasi un naturale marchio di fabbrica per le calzature italiane, famose e apprezzate in tutto il mondo e da lei in particolare, che ne possedeva un intero armadio.

    E, poi, quasi dovunque era possibile ammirare opere d’arte o testimonianze archeologiche incastonate in scorci naturalistici e paesaggi di straordinaria bellezza. Anche su quella stessa spiaggia, una semiluna di sabbia finissima lunga all’incirca un chilometro, a quasi sessanta metri da lei, ma dal lato opposto alla sua abitazione, si poteva ammirare, fissata su un grosso scoglio posto al limite dell’arenile, un’antica statua scolpita nella nera e levigata roccia basaltica.

    Era la statua della sirena Partenope che, secondo una leggenda, innamorata non corrisposta del mitico Ulisse, si lasciò morire nel Golfo di Napoli. La gente del posto, commossa da tanto amore e in suo onore, prese a indicare la città appena fondata, già chiamata Neapolis o città nuova, anche con il nome di Partenope.

    Secondo le guide turistiche, gli stessi Dèi impressero poi l’immagine della sirena in quel profilo dell’Isola di Capri che si osserva guardando l’isola dalla splendida collina di Posillipo, il cui nome non a caso ha, in lingua greca, il significato di luogo dove cessa il dolore.

    Anche Eva, come Partenope, aveva subìto una cocente delusione d’amore e, come lei, non era riuscita ad andare più via da quel golfo meraviglioso. Ma, al contrario della sirena, non aveva nessuna intenzione di deprimersi - anzi pensava che era giunto il momento di riprendere a vivere pienamente.

    Si fermò e, continuando a saltellare, eseguì alcuni esercizi con gli arti superiori, sbuffando fumetti di vapore.

    Un bel Terranova dal pelo lungo e lucido le corse incontro, con atteggiamento scodinzolante e giocoso, seguito da una ragazzina di circa dieci anni, che lo rincorreva e lo abbracciava al collo per trattenerlo.

    Eva sorrise ai nuovi venuti e continuò il suo allenamento con tre serie di flessioni, seguita dagli occhioni azzurri della ragazzina che la fissava ammirata da dietro gli occhiali un po’ troppo grandi per il suo piccolo volto rotondo.

    «Ciao, come ti chiami?» le chiese la ragazzina, mentre accarezzava la testa al cane.

    «Ciao, bellissima. Mi chiamo Eva. Abito laggiù» spiegò Eva, indicando una casa lontano, all’altro capo della spiaggia.

    «Io sono Anna e lui è Avatar» rispose la piccola, additando il Terranova che, nel frattempo, era corso in avanti a riprendere una palla. «E quella laggiù è la mia mamma» continuò la ragazzina. «Sta raccogliendo le erbe selvatiche; sono molto buone da mangiare» spiegò, agitando la mano per salutare la donna che era china in un prato verde al limite della spiaggia.

    Eva sorrise. «Ah, interessante. Dovrò chiederle se mi insegna a riconoscerle».

    «La mamma dice anche che non devo parlare con gli estranei».

    «E ha ragione: c’è un sacco di strana gente in giro!»

    «Ma tu non mi sembri cattiva».

    Eva finse di volerle afferrare il naso tra l’indice e il medio. «Che ci fai qui? Non ti ho mai vista prima» le chiese.

    La ragazzina si spostò di lato, sorridendo, poi alzò le spalle e indicò il cane: «È colpa sua. Avatar si è messo ad abbaiare e a grattare contro la portiera della macchina; la mamma ha rallentato e lui si è buttato dal finestrino aperto ed è corso sulla spiaggia. Forse voleva venire a giocare con te!»

    «Può darsi. Come hai detto che si chiama il tuo cane?»

    «Avatar».

    «Uhm, originale! Lo hai chiamato così perché lo consideri come un altro te stesso?»

    «Cosa hai detto?» rispose la ragazzina corrucciando la fronte.

    «Chiedevo se l’hai chiamato Avatar, come la nostra immagine virtuale in Internet» riprese Eva, puntando il dito verso il volto stupefatto della ragazzina: «Confessalo! Sei un’esperta di computer in incognito!»

    La ragazzina rise di gusto, compiaciuta.

    «Per la verità, non è proprio il mio cane. L’altra mattina è venuto a grattare alla porta di casa e mi ha slinguata e allora l’abbiamo tenuto» spiegò, parlando quasi senza respirare e protendendo le palme delle mani.

    Riprese fiato, con un profondo respiro, e continuò: «E, comunque, ti sbagli; non si chiama Avatar per via di Internet. E neppure per via di quel bellissimo film con tutti quei personaggi dipinti di blu. Si chiama Avatar, come quella Divinità indù che, quando ce n’è bisogno, scende sulla Terra per aggiustare le cose che non vanno bene!»

    «Ah!» esclamò Eva, piuttosto sorpresa da quella risposta. «Capisco! Ma, dimmi, chi te le racconta queste cose? L’hai letto su Internet?»

    Anna scosse la testa, facendo ondeggiare le trecce bionde: «No. Me lo ha detto lui» rispose, indicando di nuovo il cane. Poi, essendosi accorta dello sguardo incredulo di Eva, si affrettò a precisare: «In sogno… naturalmente!» Atteggiò le labbra come per fare una boccaccia e, cercando di impostare un tono di voce quanto più spaventoso e lugubre le fosse possibile, chiarì: «Mi ha detto: Ascoltami: io sono Avatar… e poi mi ha spiegato quello che ti ho detto prima».

    Eva inarcò le sopracciglia: Che fantasia ha questa ragazzina! Di sicuro avrà letto la storia della divinità indù sul Web oppure ne avrà sentito parlare in qualche cartoon orientale pensò tra sé, mentre completava le ultime flessioni.

    Sollevò la testa per salutare la piccola e riprendere la corsa, ma la vista le si annebbiò e dovette riabbassarsi e appoggiare le mani a terra per non cadere. Aveva avuto un capogiro, quasi delle vertigini, e pensò di aver esagerato con la corsa o di aver sollevato il capo troppo in fretta.

    Ma non era finita: un acutissimo sibilo si insinuò nelle sue orecchie, fino a provocarle pulsanti ondate di nausea.

    Ancora appoggiata a terra, alzò lo sguardo e vide che anche Anna barcollava e si proteggeva le orecchie con le mani. Il Terranova, invece, si era tuffato in acqua e stava nuotando verso il largo.

    Dopo una decina di secondi quel fastidiosissimo sibilo finalmente cessò.

    Anna corse verso la riva e, sbattendo i piedi a terra, strillò con tutta la voce che aveva in gola: «Avatar, torna quiiiii!»

    La mamma della ragazzina stava continuando a raccogliere le erbe e non dava segno di aver sentito né di aver notato alcunché.

    Tuttavia, era evidente che era accaduto qualcosa di anomalo.

    Eva fu invasa da un’improvvisa agitazione e provò la sgradevole sensazione di essere osservata, come se una mano invisibile l’afferrasse dietro la nuca e la costringesse a voltarsi.

    Si girò verso lo scoglio della sirena, come attratta da una calamita, ma non riuscì a vedere nessuno.

    Allora volse lo sguardo dal lato opposto, verso casa sua; ma la spiaggia - a eccezione di lei e di Anna - era deserta.

    Guardò, allora, verso il mare, ma anche da quella parte non c’era nessuno. Il Terranova era già uscito dall’acqua e si stava scuotendo per asciugarsi.

    Sbuffò, piuttosto interdetta, e pensò di essersi autosuggestionata.

    Il Terranova si avvicinò ad Anna, continuando a scrollarsi, e schizzò un po’ d’acqua sulla ragazza che si allontanò divertita. Ma, un istante dopo, drizzò le orecchie e si allontanò nuovamente, correndo come un forsennato verso lo scoglio della sirena.

    Anna lo chiamò nuovamente: «Avatar, ma cosa ti prende? Torna subito quiiiii!»

    Il cane si fermò per un lungo attimo, indeciso.

    Guardò lo scoglio della sirena, poi Anna e poi di nuovo lo scoglio. Alla fine, con uno scarto repentino, riprese a correre verso lo scoglio, ringhiando nervosamente.

    La ragazzina, irritata, gli lanciò contro la palla, ma non riuscì a colpirlo.

    Eva era curiosa di capire che cosa avesse visto o sentito il cane, riprese perciò la sua corsa, superò Anna e proseguì oltre, continuando a rincorrerlo.

    Il Terranova, che era più veloce di lei, aveva già raggiunto lo scoglio ed era sparito dietro di esso.

    Eva lo sentì abbaiare e ringhiare, come se si stesse azzuffando con un altro cane, poi udì un lungo guaito lamentoso e, infine, un inquietante silenzio rotto solo dallo scrosciare della risacca.

    Allarmata, accelerò il passo e svoltò dietro lo scoglio che fungeva da basamento per la sirena.

    Quello che vide la raggelò: il cane era riverso a terra, immobile e con gli occhi sbarrati, come in catalessi; la lingua gli penzolava da un lato della bocca e un vischioso filo di bava gli colava dal muso e giungeva fino a terra, formando dei collosi grumi di sabbia.

    Dopo qualche istante sopraggiunse anche Anna, trafelata.

    Mentre cercava di prendere fiato, piegata in avanti e con le mani appoggiate alle ginocchia, la bambina si rese conto che il cane non dava segni di vita: «È… è morto?» chiese a Eva, scoppiando a piangere, senza attendere la risposta.

    Eva si avvicinò al Terranova e lo osservò con attenzione: «Non lo so. Non ho mai visto niente del genere» rispose. Poi notò un lieve movimento del torace e continuò: «Sembra che sia ancora vivo, ma pare ridotto piuttosto male».

    Anna tirò Eva per il pantaloncino e le indicò una zona di mare che ribolliva producendo una chiazza di schiuma bianca: «Guarda là! Cos’è quello?»

    Eva aguzzò la vista, ma non riuscì a vedere nient’altro che il gorgoglio della schiuma: «Forse è un banco di pesci» rispose, non sapendo cosa pensare.

    Un altro sibilo, simile al rumore di una lavatrice ma molto più forte, le fece alzare lo sguardo verso l’alto. Era il frastuono prodotto dai rotori di due elicotteri di colore verde scuro che si stavano avvicinando, costeggiando la spiaggia e volando a bassa quota, come se stessero braccando qualcuno.

    «Mamma, mamma…» gridò Anna, afferrandosi alla gonna della madre che era sopraggiunta nel frattempo.

    La donna abbracciò la figlia e, vedendo il cane immobile a terra, si portò una mano sulla bocca, preoccupata. «Cosa gli è successo?» chiese a Eva.

    «Non lo sappiamo, ma direi di portarlo subito alla clinica veterinaria di Portici».

    La mamma di Anna annuì, meccanicamente.

    Nel frattempo, i due elicotteri militari erano giunti sopra di loro e si erano abbassati di alcuni metri, sollevando un turbine di sabbia.

    Parevano molto interessati alla scena ed Eva ebbe la netta impressione che qualcuno a bordo stesse scattando delle foto.

    Dopo qualche istante ripresero quota e si diressero verso il largo, volando ad alta velocità.

    Chissà cosa stanno cercando? si domandò, turbata.

    La madre della ragazzina, nel frattempo, si era tolto il grembiule e lo aveva steso a terra. «Rotoliamocelo sopra, così sarà più facile portarlo via» propose, indicando il cane.

    Trascinarono Avatar fino alla macchina, lo sollevarono e lo appoggiarono sul sedile posteriore.

    La piccola Anna gli si sedette accanto, accarezzandogli la testa, e gli sussurrò teneramente: «Avatar, ti prego… ti prego… non morire!»

    La madre della ragazzina salì in macchina e porse la mano a Eva. «Mi chiamo Filomena. Grazie per l’aiuto» disse, col fiato corto a causa dello sforzo.

    Eva si presentò e le strinse la mano attraverso il finestrino aperto. «Se vi fa piacere» rispose, «vorrei venire anche io con voi».

    La donna le fece segno di salire avanti, aspettò che si fosse seduta e avviò l’auto.

    Eva prese un fazzoletto dal borsello che portava a tracolla e si asciugò il sudore dalla fronte.

    Mentre osservava gli elicotteri, che ormai erano diventati due piccoli puntini in lontananza, si chiese chi e per quale motivo avesse ridotto quel bel cane in fin di vita!

    CAP. 02

    Leo, al secolo Leonardo Marconi, emise uno sbadiglio talmente ampio e prolungato da avere poi qualche difficoltà a richiudere la bocca. Si massaggiò le mascelle e deglutì una goccia di saliva che gli era andata di traverso, facendolo quasi strozzare.

    Si soffermò, guardando nello specchietto retrovisore, sui suoi occhi color nocciola e dal taglio vagamente orientale e notò che erano arrossati e assonnati. Una smorfia di disapprovazione gli si stampò sul volto olivastro; quella mattina, prima di uscire, avrebbe dovuto quantomeno radersi la barba - pensò, piuttosto seccato.

    Si passò la mano tra i capelli, neri e folti, e strinse il volante, cercando di concentrarsi sulla guida.

    Da tempo aveva scoperto che, pur abitando a Napoli, per qualche imperscrutabile motivo era nato con il fuso orario di New York. Se lasciato libero di poltrire, infatti, difficilmente si svegliava prima di mezzogiorno e altrettanto raramente andava a letto prima delle quattro di mattina.

    Erano appena le dieci antimeridiane ma si sentiva stanchissimo. Aveva dormito solo quattro o cinque ore; troppo poche per il suo stile di vita. Inoltre, non aveva avuto il tempo di fare i suoi soliti esercizi mattutini e la cosa lo infastidiva non poco. Aveva compiuto da poco trentacinque anni e doveva fare il possibile per mantenere il fisico in perfetta forma!

    Quella mattina, dall’altoparlante del cellulare sul suo comodino, il grande e compianto Luciano Pavarotti aveva preso a intonare il Nessun dorma della Turandot di Giacomo Puccini, mentre il vivido display illuminava a festa tutta la stanza! Lo avevano chiamato dalla redazione ed era dovuto andare a fotografare un delfino che - non avendo niente di meglio da fare, e pur avendo a disposizione ben 7.458 chilometri di italica costa, isole comprese - aveva scelto di andare a spiaggiarsi sul litorale di Mergellina; altrimenti come gliele rompeva le scatole proprio a lui?

    Ma, una volta giunto sul posto, Leo aveva fatto un’inattesa scoperta: il delfino non era un suicida depresso: qualcuno gli aveva sparato! Inoltre, il bel mammifero marino indossava alcuni finimenti che parevano simili alle briglie dei cavalli e anche una specie di museruola; la qual cosa faceva ritenere che fosse impiegato in qualche attività particolare, forse di tipo militare. Gli aveva scattato alcune foto e aveva fatto qualche domanda in giro. Poi una nuova telefonata dalla redazione lo aveva avvisato che c’era stato un raid incendiario ai danni del campo nomadi di Ponticelli, un rione della periferia Est di Napoli, ed era dovuto andare anche là a scattare qualche altra foto.

    E quello che aveva visto sul posto lo aveva fatto rabbrividire: il campo, nonostante l’attentato fosse avvenuto qualche ora prima, era ancora avvolto da un fumo nero e acre e, a giudicare dall’estensione dell’incendio, c’erano stati sicuramente anche dei morti. Avrebbe voluto indagare, ma gli inquirenti avevano mantenuto uno stretto riserbo e non gli avevano consentito di avvicinarsi più di tanto.

    Insomma, per farla breve, era stata una brutta mattinata.

    Abbassò il finestrino, per prendere un po’ d’aria, e una ventata di fresco aerosol marino, misto all’essenza di pino, al puzzo dei gas di scarico delle vetture e ai vapori emessi dall’asfalto già infuocato, inondò l’abitacolo della sua utilitaria.

    La radio stava trasmettendo, a tutto volume, Napul’è di Pino Daniele. Sporse la mano sinistra fuori dal finestrino e si mise a portare il tempo battendo contro la portiera ammaccata.

    Inserì la freccia per portarsi sulla corsia di sorpasso, ma il TIR davanti a lui sterzò a sinistra e gli si parò davanti, senza aver segnalato il cambio di corsia. Il grosso camion aveva un aspetto imponente e piuttosto inconsueto. Il cassone e la cabina erano neri come una notte misteriosa, i cerchioni erano lucidi e bronzati e, su un lato, splendeva la lunga marmitta verticale cromata. Sulla parte posteriore, inoltre, scintillava una scritta color oro: RA.TA.VA. ENTERPRISE - SORRENTO (NA) - ITALY.

    Da tempo Leo aveva assunto un comportamento che lui definiva multitasking: una sorta di frenesia lo spingeva a fare più cose insieme; tipo parlare al telefono mentre scriveva al computer o mettere i precotti nel microonde mentre faceva ginnastica passiva con l’elettrostimolatore muscolare, con gli elettrodi attaccati all’addome. Erano gli effetti del ritmo stressante a cui era sottoposto; a volte sognava anche di stare con due donne contemporaneamente e accarezzare l’una mentre faceva l’amore con l’altra.

    Tra le altre cose, aveva preso l’abitudine di anagrammare le scritte in cui si imbatteva.

    Rilesse con attenzione la scritta sul TIR: RA.TA.VA. non significava nulla; ENTERPRISE, poteva significare presentire; SORRENTO, niente.

    Proprio mentre cercava nuove combinazioni di lettere, il mastodontico mezzo che lo precedeva prese a sbandare a destra e a sinistra.

    Leo, innervosito dalle pericolose oscillazioni del mezzo, suonò più volte il suo clacson gracchiante.

    Il barbuto e corpulento camionista guardò, nello specchietto laterale, l’ombra proiettata dalla sua auto sul guard-rail e sugli oleandri che fungevano da barriera antirumore, ed esclamò ad alta voce: «A-ha… ti ho visto, piccolo uomo. Ti stavo aspettando!» Poi scosse la testa e, volgendo lo sguardo verso il poster di una rigogliosa pinup attaccato all’interno della cabina, esclamò: «Mi dispiace, ma lo devo fare: sai bene che devo seguire il protocollo del libero arbitrio!»

    Un pannello posto sul lato posteriore del TIR si aprì e scoprì un display a led sul quale apparve la scritta: «Allontanati o ti distruggo!» Un istante dopo, ai due

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