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Numero Sconosciuto
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E-book390 pagine5 ore

Numero Sconosciuto

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Info su questo ebook

Ezram Kelland fa il poliziotto a Baltimora e vive una vita tranquilla; almeno fino a quando, una sera, sul suo cellulare comprare un messaggio da un Numero Sconosciuto. Spinto dalla curiosità, Ez si trova a rispondere allo Sconosciuto e a intavolare con lui un fitto scambio di messaggi giornalieri. Mano mano che i giorni passano e sempre più informazioni vengono a galla, Ezram comincia a cercare di capire chi è Numero Sconosciuto. Ha i suoi indizi e i suoi sospettati, in particolar modo una persona sembra calzare meglio di tutti gli altri, ma... Cosa succederà quando scoprirà chi è davvero Numero Sconosciuto?
Avvalendosi del suo intuito da poliziotto e degli strampalati consigli del suo amico Chester, Ez non solo scoprirà la vera identità di Numero Sconosciuto, ma anche cosa voglia dire innamorarsi.
LinguaItaliano
Data di uscita29 set 2017
ISBN9788893122771
Numero Sconosciuto

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    Anteprima del libro

    Numero Sconosciuto - Autumn Saper

    cover.jpgimg1.jpg

    Pubblicato da

    Triskell Edizioni di Barbara Cinelli

    Via 2 Giugno, 9 - 25010 Montirone (BS)

    http://www.triskelledizioni.it/

    Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono il frutto dell’immaginazione dell’autore. Ogni somiglianza a persone reali, vive o morte, imprese commerciali, eventi o località è puramente casuale.

    Numero sconosciuto di Autumn Saper - Copyright © 2017

    Cover Art and Design di Barbara Cinelli

    Immagine di copertina: theartofphoto/stock.adobe.com

    Tutti i diritti riservati. Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta o trasmessa in alcuna forma né con alcun mezzo, elettronico o meccanico, incluse fotocopie, registrazioni, né può essere archiviata e depositata per il recupero di informazioni senza il permesso scritto dell’Editore, eccetto laddove permesso dalla legge. Per richiedere il permesso e per qualunque altra domanda, contattare, l’associazione al seguente indirizzo: Via 2 Giugno, 9 – 25010 Montirone (BS)

    http://www.triskelledizioni.it/

    Prodotto in Italia

    Prima edizione – Settembre 2017

    Edizione Ebook 978-88-9312-277-1

    img2.jpg

    NUMERO SCONOSCIUTO: Confermato per stasera?

    Iniziò tutto così, con un messaggio ricevuto da un numero sconosciuto sul mio cellulare.

    Era una sera come tante altre; non aveva niente di speciale. Il cielo era un po’ coperto e dalla visuale che mi forniva la finestra della sala, alta e stretta, si vedevano poche stelle. La città era ancora in movimento e le macchine continuavano a sfrecciare sulla strada. Le fronde degli alberi frusciavano al vento e ogni tanto si sentiva il suono del clacson di qualche guidatore con i nervi a fior di pelle fendere il silenzio notturno. Io ero stravaccato sul divano, con indosso la tuta più scialba e sformata che avessi, a fare zapping alla televisione nella speranza che – prima o poi – qualcosa di interessante saltasse fuori.

    Fissai lo schermo illuminato del mio telefono che nel buio del salotto creava un baluginio azzurro piuttosto sinistro.

    Immagino che la mia faccia dovesse essere inquietante come quella dei bambini quando si divertono a piantarsi una torcia sotto il mento e a spaventare le sorelline.

    Osservai confuso il telefono per qualche secondo. Avevo appuntamento con qualcuno? Avevo dato il mio numero a qualcuno senza salvarmi il suo in rubrica? Improbabili entrambe le teorie. La prima perché non avevo un vero appuntamento da un secolo, la seconda perché mi premuravo sempre di registrare i nuovi numeri prima di rispondere a caso a chissà a chi. Ho sempre avuto una pessima memoria, e più di una volta questo aveva portato a grosse gaffe. Come quella volta che conobbi Jason e Cody la stessa sera, in discoteca. Mi diedero entrambi il loro numero e, quando due giorni dopo mi arrivarono i loro messaggi quasi in contemporanea; a quello con scritto che era stata una bella serata e che aveva voglia di replicare il nostro ballo sfrenato in pista, risposi senza pensare: Certo, Jason, volentieri!, ricordando solo in seguito che invece avevo ballato con Cody. E a quello con scritto: Un altro drink, tesoro?, avevo risposto: Molto volentieri, Cody!, dimostrando che a quanto sembrava la sbronza non mi era ancora passata. Con Jason non avevo ballato. Con Jason avevo bevuto un drink al bar e lui aveva flirtato con me in maniera spudorata per tutta la sera, continuando a farmi bere. Senza essermi segnato i numeri con scritto delle informazioni in codice (tipo CODY DISCO DANCE e JACK DISCO DRINK) come facevo sempre, beh… La figura di merda mi aveva abbracciato stretto e con passione. ‘Fanculo. In un colpo solo avevo perso due scopate assicurate. Se non altro, quella sventura mi aveva impartito la lezione: sempre registrare il numero del tipo, e sempre identificarlo con una parola chiave. Non mi ha più fregato nessuno.

    Fatto sta che, di quel numero e di quel messaggio, non ne conoscevo proprio la provenienza.

    Digitai in fretta: Penso tu abbia sbagliato numero.

    Riappoggiai il telefono sul tavolinetto di vetro posto tra il divano e il mobile basso con sopra la televisione, e tornai a fare zapping alla tv.

    Una nuova vibrazione mi spaventò e incuriosì allo stesso tempo. Riafferrai il telefono e guardai lo schermo.

    Numero sconosciuto: Non sei Dean?

    Io: Direi di no, bella. Sono un uomo, ma non mi chiamo Dean. Non conosco nessuno con quel nome, in realtà.

    Il che non era tecnicamente vero. Avevo un collega che si chiamava così e avevo conosciuto un altro Dean per vie traverse e ne ero rimasto traumatizzato. Era un tipo tutto muscoli, capoccione rasato e anello al naso. Era vestito di pelle e aveva un frustino in mano e – giuro su Dio – me la sono fatta addosso non appena l’ho visto in casa di quel folle del mio migliore amico Chester.

    «Che cazzo stai facendo?» gli avevo domandato, fissandolo stralunato. Ero fermo all’ingresso, con le buste di cibo cinese ancora strette nel pugno.

    Chester mi aveva guardato e aveva fatto una di quelle sue risatine che mi fanno salire l’istinto di prenderlo a sberle, perché significano solo che sta mettendo in atto una delle sue folli e strambe idee. «Non ti avevo parlato di Dean?»

    «No, per Dio. Se sapevo che c’era un toro con la frusta in casa tua col cazzo che sarei venuto qui!» avevo tuonato stizzito, lanciando sul bancone della cucina la nostra cena e tornando verso l’ingresso. Non avevo nessuna intenzione di rimanere un secondo di più in quel posto con un pazzo col frustino in mano. Benché l’idea di per sé fosse vagamente eccitante, per come ero fatto era e sarebbe rimasta per sempre una fantasia. Non mi sarei mai e sottolineo mai fatto prendere a frustate da nessuno. Finché campo.

    Ovviamente Chester non era della mia stessa idea; non avevo fatto in tempo a chiudere la porta che avevo sentito un rumore di frusta che si abbatteva non so bene dove sul corpo del mio amico (anche se ho un forte sospetto che fosse sul suo sedere) e un suo strilletto eccitato accompagnare il momento.

    È stato un incubo ricorrente nelle due notti a seguire, immaginare le sevizie subite dal mio amico da quel toro armato di frusta, ma a sentire Chester era stata un’esperienza elettrizzante e divertente e – dannazione – chi ero io per fargli notare che avrebbe portato i segni delle frustate per settimane? Contento lui, contenti tutti. Io rimanevo fedele alla mia idea.

    Numero sconosciuto: Bello, al massimo. Sono un uomo anch’io.

    Io: Okay, amico, ma comunque io non sono Dean. Ti conviene trovare il numero giusto, se vuoi salvare la tua serata.

    Perché cavolo continuavo a rispondergli? Era piuttosto ridicolo. C’erano milioni di cose più divertenti che potevo fare (okay, non era vero), quindi perché ero lì impalato sul divano, col brusio della televisione in sottofondo ferma su un canale di televendite di materassi a rispondere a questo tizio che – era chiaro – non sapeva nemmeno salvare un numero di cellulare in maniera corretta? C’ero già io di sfigato, nella situazione, non occorreva che dessi spago a uno messo peggio di me.

    Numero sconosciuto: E come lo trovo il numero giusto? Pensavo fosse questo!

    Io: E io che ne so? So solo che DI SICURO questo NON È il numero giusto!

    Non solo era più sfigato di me. Era pure rincoglionito! La mia solita fortuna.

    Numero sconosciuto: Dici che, se cambio numeri a caso, alla fine azzecco la combinazione giusta?

    Non so perché, ma l’idea mi fece ridere. Mi immaginai questo tizio dall’aspetto da secchione, con gli occhialoni e i capelli arruffati, che si ingegnava a cambiare numeri in sequenza con la speranza di mandare alla fine il messaggio proprio al Dean in questione, e non a gente sconosciuta che, invece di decidere se comprare o no un materasso ultimo modello, se ne stava sdraiata sul divano a rispondergli.

    Era una situazione piuttosto paradossale, ma anche divertente. Una scusa buona per passare dieci minuti di quella serata infinitamente noiosa.

    Io: Io dico che dovresti smetterla di bere.

    Numero sconosciuto: Non bevo! Col mio lavoro non posso permettermi di ubriacarmi.

    Io: Nemmeno una birra ogni tanto?

    Numero sconosciuto: Ehi, ho detto che non bevo fino a stordirmi, mica che sono un santo!

    Io: Il fatto che continuiamo a parlare è piuttosto da storditi, te ne rendi conto?

    Numero sconosciuto: Vedila così: da un errore abbiamo trovato il modo di farci una risata.

    Io: Il che non è male, vista la noia mortale della mia serata.

    Numero sconosciuto: E della mia. Come ben sai, sto dando buca a qualcuno senza la possibilità di avvertirlo.

    Io: Beh, ma se sai il luogo dell’incontro, perché non vai e vedi se Dean arriva?

    Numero sconosciuto: Perché doveva confermarmi l’appuntamento E POI dirmi dove ci saremmo incontrati!

    Io: Questa sì che è sfiga…

    Numero sconosciuto: Che ci vuoi fare? Evidentemente doveva andare così.

    Numero sconosciuto: Voglio dire, magari era Destino che sbagliassi a segnarmi un numero e mandassi un messaggio a qualcun altro e trovassi comunque qualcuno con cui fare due chiacchiere, non pensi?

    Io: Magari sì.

    Numero sconosciuto: Mi denunci se ti scrivo ancora?

    Scoppiai a ridere: No, non direi, scrissi, anche se non sapevo perché. In fondo, che diavolo me ne importava di parlare ancora con questo tizio?

    Tutto sommato però era divertente e non faceva del male a nessuno. Lui non sapeva chi fossi io e io non sapevo chi fosse lui; niente coinvolgimento, solo due chiacchiere.

    Numero sconosciuto: Allora buonanotte Non-Dean.

    Io: Buonanotte, Sconosciuto.

    ***

    «QUINDI FAMMI capire… Hai passato il sabato sera a mandarti messaggi con un tizio di cui non sai neanche il nome e che ne ha mandato uno a te per sbaglio?» ricapitolò Chester, fissandomi sconcertato. Le sue sopracciglia perfettamente delineate erano inarcate in un’espressione di scettica sorpresa. Gli occhi chiari, tendenti al verde, mi fissavano spalancati.

    «È un po’ folle, non è vero?» chiesi, non sapendo nemmeno io cosa dire. Eravamo seduti in un bar sul limitare di Feels Point, con i caffè davanti e la vetrata di lato. Era una bella mattinata di sole di metà settembre e c’era un gran movimento nella zona, con un sacco di stacanovisti della corsa intenti nella loro attività preferita o mamme a passeggio con i propri figli. C’era anche qualche amante della bicicletta e un mucchio di gente a spasso solo per godersi il sole e la giornata autunnale.

    «Un po’? È una di quelle cose che ti aspetteresti da me, bambina, non di certo da te!» esclamò Chester, muovendo una mano in aria con fare aggraziato, come se fosse un direttore d’orchestra.

    Chester era il classico gay che non avevi dubbi nell’identificare come tale. Appena lo vedevi, lo sapevi. Aveva una voce acuta, le movenze femminili e ancheggiava meglio di una modella in passerella. Era appariscente, con i capelli ossigenati, la pelle pallida come Morticia, lo smalto nero come Mercoledì, il lucidalabbra e le t-shirt fucsia come un’adolescente anni ottanta. A volte – spesso, in realtà – indossava una specie di leggings leopardati che detestavo a morte. Ma la cosa peggiore che gli avevo visto addosso era stato un boa rosa usato come sciarpa la notte di Natale, sopra una camicia di seta lucida con disegnati dei Babbo Natale col naso rosso e la scritta Merry Christmas. Una cosa raccapricciante.

    Io ero completamente diverso da lui. Capelli castani, occhi nerissimi, pelle scura. Ombroso, fisico muscoloso, aria da poliziotto. Beh, quello era normale: io ero un poliziotto. E la faccia da poliziotto era una cosa che non potevo cambiare. Per fortuna sembravo sempre più giovane dei miei quasi ventinove anni.

    «Sei preoccupato che per una volta dovrai cedere lo scettro di Regina?» domandai, fissandolo da sopra il bordo della mia tazza di caffè. Avevo bevuto poco, perché avevo parlato e raccontato della mia folle serata al mio altrettanto folle amico.

    Chester mi guardò con sufficienza, come se avessi appena detto la più grossa stronzata della mia vita; poi riprese la sua arringa: «Amore, ti rendi conto che c’è una sola Regina a Baltimora e che ce l’hai seduta davanti, vero?»

    Come dimenticarlo? «Con quei leggings verde acido come faccio a non notarti?» domandai con sarcasmo. Seduto di fronte a me, con i miei jeans neri, la t-shirt del medesimo colore e la giacca di pelle, sembravamo il Carnevale di Rio e un rito funebre.

    «Sono belli, vero? Ti piacciono? Te ne compro un paio, se vuoi. Costano poco!» si entusiasmò subito Chester, tirando con due dita la stoffa color evidenziatore. Aveva un tono orgoglioso, come se fosse sicuro di aver fatto un affare. Non ebbi il cuore di dirgli che aveva sprecato i suoi soldi.

    «Ma ti pare che io possa andare in giro con un coso del genere addosso?» Ero seriamente sconcertato anche solo che lo avesse pensato.

    «Tesoro, se li metti sotto alla divisa nessuno li vedrà, ma tu ti sentirai fighissima!» squittì tutto felice, battendo le mani con aria eccitata.

    Roteai gli occhi al cielo. «Quanto hai bevuto ieri sera, Ches?»

    «Vuole farmi il test dell’etilometro, agente?» mi domandò facendo l’occhiolino. «A un agente sexy come lei non potrei mai dire di no…»

    Fu il mio turno di guardarlo con sufficienza. «Smettila di scherzare, Ches, o ti arresto davvero per molestie a pubblico ufficiale.» Ovviamente non lo avrei mai fatto ma, ehi, qualche volta potevo pure abusare del mio potere col mio migliore amico, no? Me lo meritavo, dopo più di dieci anni di amicizia. Avevo il fegato di un gigante, a furia di sopportare le sue stramberie.

    In realtà gli volevo bene e, anche se mi lamentavo sempre, non volevo perdere la sua amicizia sincera.

    Chester, comunque, non si spaventò neanche un po’, anzi. «Oh, sì, agente! Mi metta le manette! Non ha idea di quante cose zozze si possono fare con quelle addosso!» ammiccò con aria allusiva, leccandosi il labbro superiore e portando via una buona parte del lucidalabbra.

    Feci una smorfia. «Fai quella mossa con la lingua un’altra volta e ti sparo sul serio, Ches.»

    Il mio amico rise. «Di solito è molto apprezzata!»

    «Beh, se sono tutti come Dean, il toro con la frusta…» borbottai.

    Chester ridacchiò. «Sii grato a Dean, Ezram, perché grazie a lui hai un nuovo amico.»

    Quella frase mi fece sorgere un pensiero raccapricciante. «E se quel tizio stava cercando proprio Dean-Dean? Cioè, il tuo Dean, quello con l’anello al naso e la frusta?» Solo il pensiero mi dava la nausea.

    Chester scoppiò a ridere. «In tal caso presentamelo, bambina, perché potrei fare grandi cose con lui e Dean insieme!»

    Mi alzai di scatto dalla sedia, come se un Dean armato di frusta fosse appiccicato al mio sedere pronto a far partire il colpo. Sentivo che dovevo fuggire, e avevo la scusa ideale. «Beh, caro mio, il lavoro mi chiama.»

    Il mio amico sospirò, muovendo le dita in segno di saluto. «Chiamami, bambina.»

    «Sì, sì…» risposi, cercando qualche banconota nel portafogli e lasciandole poi sul tavolino rotondo di legno. «Si dà il caso che non tutti abbiano una famiglia milionaria; c’è anche qualcuno che deve lavorare, per poter vivere.»

    Chester fece il broncio, ma sapevo benissimo che non se l’era minimamente presa. «Non è mica colpa mia se mia madre è ricca sfondata!»

    «E vive a New York City,» precisai.

    Gli si illuminarono gli occhi. «Oh, sì, grazie a Dio! Questo è decisamente il risvolto migliore del suo essere la presidentessa di quel giornaletto!»

    Strabuzzai gli occhi. «Giornaletto? Modé? È la rivista di moda più letta di tutti gli Stati Uniti!»

    «Oh, beh, io non me ne interesso,» ribatté il mio migliore amico con aria indifferente. In realtà mentiva. Sapevo benissimo che era abbonato alla rivista – o meglio, aveva fatto abbonare la sua governante, Raquel, per non dare soddisfazione a sua madre – e la leggeva con scrupolosa dedizione ogni settimana. Era da lì che prendeva gli spunti per la moda e i suoi folli abbinamenti e, per quanto ne dicesse, il fatto che sua madre non fosse mai nei paraggi aveva contribuito in maniera piuttosto forte a farlo sentire solo.

    Era cresciuto con Raquel e le tate. Il padre, Chester Senior, era morto poco dopo la sua nascita, in un incidente in barca a vela, e la madre – Chery – si era ritrovata a dover dirigere da sola la rivista fondata dal marito. Aveva fatto un lavoro eccellente, ma dedicarsi anima e corpo a Modé le aveva fatto trascurare il figlio che aveva cercato in tutti i modi di attirare le attenzioni materne fino a cadere in quella fase di rinuncia e accettazione in cui covava del forte risentimento. Anche il suo assurdo abbigliamento era un modo come un altro per attirare l’attenzione di Chery, che non perdeva occasione di criticarlo ogni volta che si incontravano. Junior, non ti sembra di aver abbinato troppe fantasie? oppure Junior, Santo cielo! Mettiti un colore più sobrio che mi fai venire mal di testa! e così via. Avevo assistito a svariate dimostrazioni dell’attenzione materna, e non me ne era piaciuta neanche una. La mia era iperprotettiva e fin troppo presente, ma almeno non potevo lamentarmi di non essere amato. Rosemay Kelland era la madre che tutti desideravano, lo sapevo bene.

    «Io vado,» tagliai corto, cercando di chiudere in fretta il discorso. Non era mai il caso di affrontarlo con Chester, a meno che prima non avesse potuto tormentare un paio di commessi in qualche negozio rinomato del centro, distendendosi l’umore.

    «Ciao, bambina, e salutami il tuo amico di…» Si interruppe, non sapendo bene come proseguire. «In che cavolo di modo si chiama, un amico di cellulare?»

    «Di sicuro non amico di penna.»

    «Amico di numero?»

    «Suona di merda.»

    «Concordo.» Annuì. «Salutami Numero Sconosciuto, che dici?»

    «Dico che è una versione migliore.» Sorrisi tra me, uscendo all’aria aperta, con la brezza fresca che arrivava dall’oceano lì di fronte. C’erano un sacco di barche ormeggiate e il sole era davvero splendente. Proprio una bella giornata.

    Salii in macchina e accesi il motore, ma prima di partire decisi di inviare un messaggio a Numero Sconosciuto. D’altronde, quella stessa mattina avevo trovato un suo messaggio appena sveglio che diceva: Sei Non-Dean come mi ricordo o ho mangiato troppo pesante ieri sera?

    Avevo riso come un idiota e poi risposto: Sconosciuto, sono Non-Dean. Puoi smettere di essere arrabbiato con il tuo apparato digerente.

    Ridacchiando ancora al ricordo, digitai: Ma il vero Dean ha un anello al naso e la frusta?

    La risposta giunse dopo pochi secondi: Cosa? No! Ma che diavolo di gente pensi che frequento?

    Scoppia a ridere: Grazie a Dio.

    E lo pensavo sul serio.

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    ARRIVAI IN centrale che era quasi ora di pranzo. Avevo il turno nel pomeriggio e mi avviai alla mia scrivania con tutta calma. Dopo il caffè con Chester ero passato da casa per cambiarmi e indossare la divisa d’ordinanza prima di lottare col traffico per arrivare puntuale al lavoro.

    «Buongiorno, agente Kelland,» mi salutò Mary Hoffman. Era un’agente in servizio da almeno quindici anni, con un esercito di figli e due ex mariti. Una stronza di prima categoria, ma per qualche strana ragione mi aveva preso in simpatia.

    «Buongiorno, agente Hoffman,» la salutai a mia volta, sorridendole. Arrivai alla mia scrivania e vi posai sopra cappello e pistola. Detestavo avercela addosso mentre ero seduto a riempire scartoffie. Bastava il distintivo legato alla cintura a infilarsi dritto dentro la carne della mia coscia a dar fastidio. «Qualche novità?»

    «Niente di interessante,» rispose la donna. «Solo un paio di ladruncoli che sono in cella.»

    «Nessun morto?» domandai quindi, curioso. Era molto raro che non succedesse qualche casino, in città, e tutte le volte che c’era una serata tranquilla la segnavo sul calendario. Non so bene perché, ma era una mania che avevo avuto sin dal mio primo giorno di lavoro. Alla fine dell’anno, facevo una stima di quanti giorni fossero stati buoni e quanti di merda. Per ora, continuavano a vincere quelli di merda.

    «Nessuno, per fortuna.»

    «Ottimo.» E lo pensavo sul serio.

    ***

    LA GIORNATA trascorse tranquilla. Ero quasi alla fine del mio turno quando arrivò la chiamata.

    «Incendio sulla Moyer Avenue, una casa privata è andata a fuoco,» mi informò Kristen Bailey, la mia partner, mentre riagganciava il ricevitore.

    «Morti? Feriti?» domandai, alzandomi e avviandomi alla macchina di servizio.

    «Non lo sappiamo,» rispose lei seguendomi. «Ma sappiamo che nello stabile andato a fuoco ci vivono due persone anziane.»

    Raggiungemmo la macchina velocemente, muovendoci in modo coordinato senza bisogno di darci troppe indicazioni. Lavoravamo insieme da un paio d’anni e nelle situazioni critiche guidavo sempre io. Nelle altre occasioni, quando eravamo solo di pattuglia, guidava Kristen. Le distendeva i nervi, diceva, e considerando il rapporto teso con la suocera – che le viveva in casa – ne aveva decisamente bisogno. Le avevo suggerito lo yoga, ma lei mi aveva riso in faccia e si era imbottita di caffè. Decisamente sembrava sfuggirle il concetto di calma.

    Quando arrivammo sul posto, c’era un’autopompa dei pompieri all’opera e l’ambulanza con le luci accese, ma senza sirena. Il portellone posteriore era spalancato e si intravedeva un medico muoversi di qua e di là mentre l’autopompa gettava acqua, cercando di spegnere l’incendio che ancora imperversava nella casa di legno a un piano, posta in mezzo a un prato piccolo ma curato.

    Scendemmo dalla macchina con una certa fretta e ci avvicinammo al capo dei vigili del fuoco di Baltimora, Barry Ramon, un nero grosso come un armadio e alto due metri.

    «Ehi, Barry,» lo salutò la mia collega. «Che abbiamo?»

    «Casa in fiamme e uno dei due abitanti recuperato,» disse l’omone con voce burbera. Le grosse labbra carnose si mossero appena mentre parlava.

    «E l’altro?» domandai.

    «Non riusciamo a estrarre la moglie,» ci spiegò. «È incastrata sotto un mobile.»

    Invidiavo la calma di Barry, l’avevo sempre fatto. Al suo posto non sarei mai riuscito a rimanermene lì impalato a non fare niente, ascoltando dalla ricetrasmittente cosa accadeva in casa e dando ordini quando serviva. Sarei entrato spaccando qualunque cosa – probabilmente anche qualche mio osso – e avrai fatto qualunque cosa in mio potere per tirare fuori quella donna. Poteva sembrare nobile, ma in realtà era solo stupido e avventato. Bisognava mantenere la calma e il sangue freddo, e io non ne avevo. Di fronte a uno che mi puntava una pistola alla testa sì, ma non di fronte a una casa in fiamme. Mi sentivo impotente e col solo desiderio di agire. Era un po’ un controsenso, ma era sempre così che mi ero sentito, sin da quando avevo cominciato a lavorare sul campo sette anni prima.

    «Quanti vigili del fuoco ci sono dentro?» domandò ancora Kristen, fissando intensamente la casa e le fiamme che lentamente sembravano abbassarsi, ma non smettevano di imperversare e mangiare tutto.

    «Due. Ross e Hamilton.»

    Conoscevo entrambi. Il primo perché era un po’ più basso di tutti gli altri, molto ben messo, ma agile e utile per infilarsi negli spazi ristretti. Il secondo perché era un gran bastardo. Non eravamo mai andati d’accordo, e dubitavo fortemente che lo avremmo mai fatto.

    «Da quanto tempo sono dentro?» domandai, fissando a mia volta le fiamme.

    «Non molto. Ma tra poco li faccio uscire,» disse Barry, preoccupandosi come sempre della sicurezza dei suoi uomini.

    Annuii. «Intanto vado a interrogare il marito.»

    Kristen fece un cenno d’assenso mentre dalla radio di Barry cominciavano a uscire suoni indistinti. Probabilmente Ross e Hamilton stavano comunicando qualcosa, ma ero troppo lontano per sentire cosa stavano dicendo. Mi avvicinai all’ambulanza, raggiungendo i due paramedici e il proprietario della casa. «Il signor Mitchell?» domandi, toccandogli piano una spalla.

    L’uomo si girò verso di me e annuì. Era avvolto in una coperta, e aveva lo sguardo stralunato. I capelli bianchi erano spettinati e gli occhiali da vista mezzi storti sul naso pendevano da una parte. Stringeva la coperta così forte che le nocche erano diventate bianche.

    «Signor Mitchell, sono l’agente Kelland. Può dirmi cosa è successo?» domandai con tono gentile, sedendomi vicino a lui sull’ambulanza. I paramedici continuavano a girarci intorno, misurando la pressione dell’uomo e la sua temperatura.

    L’uomo mi fissò con sguardo vacuo per alcuni secondi prima di stringere le labbra e annuire piano. Non sapevo quanti anni avesse, ma aveva quell’aria vecchia di chi è provato dentro, di quando stai per cadere a pezzi. «Eravamo a cena, io e mia moglie.» La voce gli tremò. «La mia Sandra aveva sparecchiato e preparato il caffè. È andata ad accendere la bombola e…» Gli occhi si sbarrarono e fissarono il vuoto. Non serviva che continuasse. Come era andata poi era piuttosto evidente: la bombola era esplosa, causando tutto quel casino. Essendo così vicini alla fonte dell’esplosione, era un vero miracolo che fossero ancora vivi. Che il signor Mitchell lo fosse, per lo meno. La signora Mitchell… Barry non ci aveva detto se fosse viva o morta, sotto quel mobile. Loro riportavano sempre fuori tutti, ma non è detto che fossero sempre vivi. Era una dura legge che avevo appreso tanti anni prima e che ancora faticavo a mandar giù, anche se era molto nobile che cercassero di estrarre chiunque, perfino i morti, per dare così la possibilità ai parenti di piangerli su una tomba e non farli divorare dalle fiamme.

    «Capisco, signor Mitchell…» parlai lentamente, segnando un paio di cose su un taccuino che portavo sempre nella tasca della divisa. «Adesso cerchi di calmarsi e si faccia controllare in ospedale, va bene? Quando si sentirà meglio, dovrà fare una deposizione ufficiale.»

    Ma l’uomo non mi stava ascoltando. «Dov’è la mia Sandra?»

    Strinsi le labbra. Quella era la parte che mi faceva più schifo nel mio lavoro. «Signor Mitchell…» tentennai, ma poi riprovai con più sicurezza: «I vigili del fuoco stanno facendo il possibile.»

    Le mie parole non volevano dire niente, non significavano niente, ma parvero abbastanza.

    Lui annuì e con mani tremanti afferrò il bicchiere d’acqua che il paramedico gli stava offrendo, sorseggiandone un poca.

    ***

    SANDRA MITCHELL venne estratta priva di vita diciotto minuti dopo. Secondo le parole di Ross, la donna era già morta quando loro l’avevano trovata. Considerando i segni di ustione e i pezzi di bombola infilati dentro la pelle dell’addome e delle braccia, non faticai a credere che fosse morta non appena la bombola era esplosa.

    L’urlo disperato del signor Mitchell era una di quelle cose che non avrei mai dimenticato.

    «A volte odio questo lavoro…» borbottò Patrick Ross, togliendosi il pesante giaccone d’ordinanza.

    «Magari fosse solo a volte…» borbottò Royal Hamilton, seduto di fianco a lui sul marciapiede, tamponandosi il sudore e lo sporco con un asciugamano bianco. Ci mise mezzo secondo a diventare marroncino e poi completamente nero. Non si tolse la giacca, né se la slacciò. Rimase solo seduto lì, di fianco al suo collega, a fissare il vuoto.

    Non invidiavo quella parte del loro lavoro. La soddisfazione di estrarre qualcuno vivo era tantissima. Ti sentivi utile e forte. Ma quando dovevi tirarne fuori uno già morto? O quando morivano dopo, nonostante tutti gli sforzi fatti? O quando – forse ancora peggio – ti morivano tra le braccia mentre cercavi di portarli in salvo? Onestamente, non sapevo se fosse peggio il lavoro del vigile del fuoco o quello del poliziotto; di sicuro erano entrambi due lavori che ti mettevano a dura prova.

    «Che potete dirci, ragazzi?» domandò la mia partner, prendendomi il taccuino dalle mani e segnando un paio di cose. Non aveva mai niente con sé, le dovevo sempre prestare tutto io.

    Ross alzò gli occhi castani su di lei, sospirando.

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