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Segreto di madre: Parole nascoste di un amore infinito
Segreto di madre: Parole nascoste di un amore infinito
Segreto di madre: Parole nascoste di un amore infinito
E-book409 pagine6 ore

Segreto di madre: Parole nascoste di un amore infinito

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Info su questo ebook

Questa è la storia di un incontro tra generazioni. Nel tentativo di elaborare il lutto per la perdita della madre, il protagonista, un giovane docente di una scuola secondaria di Bologna, decide di raccontare ai suoi studenti il segreto che la donna aveva conservato per anni, nascosto in un armadio: il suo primo, grande amore.
Nell’appoggiare sulla cattedra la scatola contenente 124 lettere, scritte tra il 1951 e il 1952 dall’allora fidanzato della madre, il professore getta le basi per intavolare una discussione con i suoi studenti che, inaspettatamente, si ritrovano a confrontarsi  su cosa loro avrebbero fatto in quella situazione e su quali potessero essere le condizioni essenziali per generare un “per sempre Amore”.
Nel leggere in classe i punti salienti delle lettere, i ragazzi e le ragazze vengono proiettati in uno spaccato di vita che rivela il forte carattere dei due giovani amanti il cui sentimento, invece di spegnersi, sfocia in una forte passione eterna. Un amore simile a quello nel quale gli adolescenti di oggi si riconoscono, per via delle tinte accese e delle scelte estreme, un amore che diventa il pretesto per aprirsi e raccontarsi, in una grande lezione di educazione all’affettività.
LinguaItaliano
Data di uscita10 gen 2024
ISBN9788833171340
Segreto di madre: Parole nascoste di un amore infinito

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    Anteprima del libro

    Segreto di madre - Stefano Antonini

    Segreto di madre

    Parole nascoste di un amore infinito

    Stefano Antonini

    Storie di vita

    I Edizione ottobre 2021

    ©2021 Astro edizioni Srls, Roma

    www.astroedizioni.it

    info@astroedizioni.it

    ISBN: 978-88-3317-134-0

    Direzione editoriale:

    Francesca Costantino

    Progetto grafico:

    Idra Editing Srl

    Editing e redazione:

    Giulia Manzi

    Tutti i diritti sono

    riservati, incluso

    il diritto di riproduzione,

    integrale e/o parziale

    in qualsiasi forma.

    Potrei dedicare questo libro a mia madre.

    Potrei dedicare questo libro ad Aliseo.

    E, invece, dedico questo libro

    a tutti quelli che, proprio come loro,

    nascondono e gelosamente custodiscono

    in un armadio, in un cassetto, in una lettera,

    il segreto di un per Sempre Amore.

    Premessa

    Un grosso limite del mio lavoro è il tempo. I laboratori legati a progetti speciali non ti permettono di spendere con i ragazzi più di dieci, quindici ore in un anno. Questo comporta un sacrificio enorme: non riesci mai ad ascoltarli tutti.

    Per cercare di catturare l’interesse di tante diverse sensibilità, ti servi di storie, di articoli di giornale, di leggende metropolitane... di tutto ciò che torna utile per portarli a riflettere sulle relazioni, sui conflitti e sul valore che possono mettere in campo nell’affrontare la propria vita.

    Grande spazio è dato alla relazione di aiuto e ai pericoli nei quali incorre chi viene lasciato solo.

    O chi si sente solo.

    O chi crede di essere in compagnia, ma è ben lungi dall’esserlo.

    La verità è che ogni classe dovrebbe avere un percorso annuale dedicato all’educazione all’affettività e al confronto costruttivo, in modo da abituare i ragazzi e le ragazze a rapportarsi nel rispetto reciproco e nella consapevolezza delle loro capacità e molteplici diversità.

    Mi è impossibile riportare in queste pagine ogni osservazione e ogni silenzio vissuto e sentito dai miei allievi, mentre raccontavo la storia di Narside e Aliseo. Occorrerebbe un capitolo per ogni studente e alcuni di questi si riassumerebbero in pagine bianche, proprio a causa della mancanza di tempo che non mi ha permesso di conoscere il pensiero di tutti. Quando però decisi di raccontare questa storia, fu tale la reazione e il coinvolgimento della classe, che lasciar svanire questo materiale prezioso sarebbe stato un delitto.

    Ho estrapolato alcuni stralci di dialogo, biglietti volanti e osservazioni poetiche emerse in quelle ore, per lasciare al lettore la possibilità di immaginare o di appuntare ciò che avrebbe detto o fatto, se fosse stato in nostra compagnia.

    È evidente che non tutti i miei studenti hanno vissuto questa esperienza nello stesso modo: per alcuni amo pensare sia tuttora occasione di confronto e crescita, per altri è stato solo un piacevole momento di svago tra una verifica e l’altra. Altri ancora, forse, non ricordano nulla. Nessuno si è mai addormentato sul banco o ha disturbato durante la lezione: le reputo già una delle grandi conquiste. Qualcuno mi ha ringraziato per averlo fatto crescere e io ho ringraziato a mia volta ognuno di loro, per l’attenzione e la gioia provata nell’essersi lasciati affascinare dagli eventi narrati.

    Chi narra si dona nella speranza di gettare un seme e, anche se ciò che riceve da ogni allievo non è mai quantificabile, quello che trattiene quando esce dalla sua classe ha, sempre e comunque, un valore inestimabile.

    Stefano

    Interludio

    La morte è sorda al dolore,

    perché del dolore si nutre

    per partorire nuova vita.

    Per questo devi saperla riconoscere.

    Farsi trovare nudi e impreparati

    provoca un feroce morire dentro

    che ci obbliga a divenire

    spettatori pallidi

    della vita degli altri.

    La Morte a casa non la invita nessuno. Quando si stanca di stare fuori bussa, tu apri e lei ne approfitta per divorare i tuoi affetti più cari. A te lascia solo il compito di imparare a convivere con quell’ombra che ti cammina in giardino.

    Io le ho sparato.

    Le è piaciuto.

    Non sarebbe la Morte, altrimenti.

    Il suo segreto l’ho capito tardi: voleva uccidermi dentro, perché era arrivato il momento di concimare, di spargere merda sulla mia anima, affinché la vita riprendesse a respirare.

    Partirò dalla merda, allora. Vi racconterò perché, adesso, sono Vita.

    Ho appena lavato la mamma nel bagno dell’hospice.

    Non sapevo cosa fosse un hospice, prima che il medico di Villa Erbosa mi dicesse: «Tua madre ha un tumore al fegato, le rimarrà forse un mese di vita».

    Ha aggiunto che c’era un posto diverso dalla camera d’ospedale spoglia e fredda, in cui giaceva con gli occhi di bambina, dove le persone passavano gli ultimi giorni di vita in un ambiente più libero e sereno. Ho solo risposto: «Sì».

    Non aspettatevi che spenda molte parole su quello che accadde in quei giorni; se avete incontrato la Morte, sapete meglio di me che si radica, approfitta del vostro spaesamento e vi si avvinghia al cuore. Alla stregua di quella sottile pellicola di plastica che usate per conservare i cibi, blocca il suo e il vostro respiro e inizia il lento lavoro di corrosione.

    Prima attacca a piccoli morsi, poi con bocconi adulti. Infine, fagocita e risucchia il vostro sangue, che è comunque colore e, quando il cuore è digerito, lo defeca nel piatto affinché siate spettatori della vostra stessa disperazione. Ed è da quel piatto che nasce il bivio: puzzare o seminare. Ogni merda che si rispetti sa di essere concime e, proprio grazie a esso, quel giorno ho sentito sbocciare in me un cuore nuovo.

    Le infermiere si complimentano, quando le incontro nei corridoi: sembra che spesso i quarantenni rifuggano dall’accudire una madre morente. Mi stupisco anch’io della forza che mi nasce dentro, nell’asciugare l’urina che le cola lungo una gamba mentre prova a camminare. Non avrei mai pensato di arrivare a tanto.

    Penso: «È tornata bambina», con le ossa che non la reggono, con la pelle incartapecorita e lo sguardo sempre più vacuo. Mi accorgo di raccontarmi quello che ho sempre sentito dire da chi l’ha vissuto prima di me. «Questa è la vita», ripeto e mento a me stesso, perché non si tratta di vita: si tratta di morte. Una morte spietata e beffarda. Punto e basta.

    Cerco allora l’a capo di quando il punto si studiava a scuola. È ancora presto per cambiare riga: la penna rossa deve decapitare la lettera in più. La falce nera sta recidendo l’unica mia radice rimasta.

    La telefonata è arrivata verso le venti. «Se vuole può venire, pensiamo che sua madre non passerà la notte».

    Ora le stringo la mano; l’infermiera sussurra: «Sta per andare».

    Penso forte, trattenendo il fiato: «Anima di mamma non andare, entra in me, non andare via...», con l’illusione che il mio corpo possa ospitare anche la sua.

    «È andata...».

    Mi danno la catenina e la fede. La fede... Quel che rimane della mia mamma si riassume in una catenina e un ricciolo d’oro che lei ha sempre portato al dito.

    È da poco passata la mezzanotte. Mamma non c’è più.

    Ciò che lascio in consegna alle infermiere è il contenitore del mio corpo bambino; un recipiente di sentimenti, idee, rabbia, ricordi, emozioni. Devo riuscire a prendere tutto quello che mi ha lasciato e non dimenticare nulla di lei su quella brandina, non voglio che rimanga nemmeno un sospiro dentro quel corpo che non risponde più ai miei richiami. Nulla, se non quel semplice recipiente vuoto.

    Quando la mia vista la perde – il corridoio inghiotte le infermiere e il lettino sul quale giace addormentata nel suo sonno eterno –, torno nella sua camera e infilo in una borsa di plastica i pochi oggetti che l’hanno accompagnata negli ultimi giorni di vita. Se decidi che una persona si riassume nelle cose che raccogli quando liberi un letto d’ospedale, capisci perché non c’è guerra più inutile del credersi capaci di permanere nella memoria degli altri. Con un po’ di fortuna, possiamo dire che di te raccoglieranno un tovagliolo sporco, un paio di ciabatte e una vestaglia lisa.

    È notte, fuori dall’hospice, giorno non lo è mai stato. Il bidone dell’immondizia accanto alla mia moto ospiterà quel che mia madre non ha potuto portare in cielo. Ma il contenuto, quello che non si vede, quello che sono riuscito a trattenere e che mi bagna il viso mentre chiudo la visiera del casco, quello mi guardo bene dal lasciarlo scivolare via dal mio zaino.

    Sfreccio con la moto per le strade illuminate della città, per la prima volta sento e capisco che lei non se n’è mai andata: è seduta dietro, mi abbraccia e non teme la velocità. È sempre buio, la notte ha deciso di essere più profonda di quel che mai potessi immaginare. Il tassista che mi affianca al semaforo abbassa lo sguardo. Sembra che stasera nessuno abbia portato l’anima con sé e che tutti siano traghettatori della propria accesa solitudine.

    Di nuovo a casa.

    Solo.

    Con il suo spirito, è volato via anche il mio.

    Ci sono volute ore, giorni, emozioni e domande senza risposta per capire che quella notte ero stato rapito e seviziato dal dolore mentre la sua anima, leggera e nobile, aveva molto più semplicemente deciso di albergare in me. La radice recisa si era aggrappata alla vita, affinché la morte potesse finalmente espellere il mio cuore digerito nel piatto.

    Non sono parole belle.

    Sarebbe stupido il contrario.

    Per le parole belle bisogna aspettare.

    Nella pazienza, pistilli di forza.

    *

    Il mio è un lavoro strano.

    Sono trentacinque anni che lavoro con i bambini e gli adolescenti ma, se provate a classificarmi, a incasellarmi quando varco la soglia della vostra classe, non ci riuscirete, perché il mio lavoro non esiste. Non in Italia, almeno.

    Gli insegnanti non capiscono se sono lezioni di teatro, di psicologia o di movimento creativo. Quando faccio lezione sono spesso presenti; i più interessati osservano, prendono appunti e intervengono, i più scettici guardano il cellulare e, alla fine della lezione, ringraziano perché vedono la classe continuare a discutere animatamente.

    Non è arte terapia, ma vi somiglia; non è teatro, ma mi servo delle sue tecniche per ottenere ascolto attivo, non è psicologia ma, grazie a quella, veicolo la relazione d’aiuto.

    «È un gran casino, ma mi piace un sacco», dice Lorenzo.

    Se vi chiedono cosa insegno, rispondete: «Stefano insegna un gran casino che ci piace un sacco».

    È la definizione più bella che sia mai stata data alla mia professione. Ma non siamo qui per parlare del mio lavoro, siamo qui per parlare di come mia madre è entrata nel mio lavoro e io nel suo.

    E di quel segreto, del suo Segreto di madre.

    Segreto di madre

    Siamo abituati a incantarci davanti agli intrecci delle vite delle persone famose e irraggiungibili; commentiamo quotidianamente servizi televisivi e scoop che illustrano la vita di decine di persone che vorremmo essere, ma che non saremo mai. Siamo gente comune che cade spesso nella trappola di anelare a esistenze fotocopiate, patinate di una società altra, lontana anni luce dalla nostra.

    Ma i segreti, questo è meglio metterlo in chiaro subito, non sono solo prerogativa dell’alta società. Io l’ho scoperto tardi. Viviamo sogni di altri senza sapere che i nostri rimangono chiusi nei cassetti.

    Quello che sto facendo è aprire il mio cassetto, affinché chiunque possa convincersi di averne a casa uno ricolmo di sorprese quanto il mio. Nella mia famiglia c’era un segreto, così come sono convinto che ve ne sia uno, o forse più d’uno, in ogni altra.

    Il mio compito è raccontare quello che mi appartiene affinché possiate andare alla ricerca del vostro. Ma siate cauti: se un segreto può dirsi tale è perché qualcuno, per anni, ha deciso di tenerlo nascosto. Se nella ricerca darete adito a sospetti, ogni traccia verrà cancellata, ogni prova bruciata.

    E il segreto rimarrà per sempre tale.

    Non ho mai detto a mia madre che stava per morire. Non chiedetemi se mi pento della scelta, perché non ho risposte pronte e preconfezionate. A chi mi chiede se fossi stato al suo posto, rispondo: «Certo, avrei voluto saperlo».

    E allora perché fare a lei quello che io non avrei mai voluto fosse fatto a me?

    Per egoismo.

    Mia madre è stata una donna che ha sempre combattuto e io non volevo strapparle quella fantastica arma che da lei ho ereditato: la Speranza. Non volevo vederla spegnersi, non volevo vederla piangere, non volevo leggere nel suo sguardo la sconfitta.

    Non volevo capisse che era finita. Non volevo che avesse la consapevolezza che fosse giunto il momento di perdere tutto e tutti o, finalmente, guadagnare qualcosa.

    Molte volte mi sono chiesto quale sarebbe stata la sua reazione se le avessi confessato che le erano rimasti solo pochi giorni di vita; negli anni a venire, mi sono convinto che quello che non era pronto a perderla ero io, non lei.

    Donna di fede, avrebbe trovato il modo di sorridere davanti al mio balbettare, avrebbe asciugato le mie lacrime cercando di convincermi che il Dio che per tutta la vita aveva pregato le stava solo chiedendo di rinascere, di divenire Luce. Una promozione, un passaggio di livello.

    Perché mai allora essere tristi entrambi?

    Perché se lei credeva questo, io non lo credevo.

    Nulla di ciò a cui si ancorava era certo; di sicuro c’era solo il fatto che l’avrei persa. Dirglielo avrebbe comportato accettare qualsiasi reazione, compresa vederla traballare nel suo credo.

    La fede è una cosa strana: in momenti come questi o ti travolge o ti abbandona. Credere a metà è una scelta di comodo che puoi fare per anni, ma quando addosso ti piomba l’odore della morte, non esiste il forse. Esiste il sì o il no.

    «Non ho voglia di morire», aveva detto un giorno guardandomi negli occhi, quasi a cercare una conferma, una crepa nel muro, un’incertezza che avrebbe svelato la menzogna.

    Ho sorriso gettando parole di conforto che allontanassero da lei l’idea della fine. Pessimi attori sono quelli che recitano in teatro. Nel nostro quotidiano siamo circondati da uomini e donne capaci di recitare una parte, senza mai lasciar trapelare il dubbio di chi possa nascondersi dietro quel copione, e indossare la giusta maschera, pur di risparmiare un dolore alle persone che amano.

    Menti quando il cuore ti ordina di farlo e se la menzogna nasce da un sentire profondo, nessuno metterà mai in dubbio le tue parole. Il dubbio che fingesse di credermi, quando le dicevo che ci sarebbe voluto ancora qualche giorno prima di tornare a casa, mi seguirà però fino alla morte.

    Se avesse pianto anche lei, se fosse crollata tra le mie braccia e se le sue ultime parole fossero state parole di una donna disperata, quale sarebbe stata la mia reazione?

    Avrei saputo accoglierla? Avrei sopportato un suo crollo come donna e come madre?

    Trovare ogni giorno il tempo per andare a trovarla in quella camera d’ospedale significava alimentare un teatrino che arginava le emozioni. Bisognava che nulla tracimasse, che tutto rimanesse nell’anticamera della morte, dove l’operosità di infermieri e ospiti mirava alla serenità di plastica, al sorriso incollato, alla surreale danza di chi ogni giorno tocca con mano la polvere di cui ogni essere umano è fatto.

    Non ero abbastanza forte e avevo bisogno di quella preziosa recita corale utile alla sopravvivenza del mio equilibrio. Avevo bisogno di credere alla casa delle bambole; sapevo che qualcuno muoveva i fili, ma rifiutavo qualsiasi responsabilità personale. Ogni giorno, al mio ritorno a casa, cedevo: le gambe non reggevano, le braccia a sostenere la testa, le lacrime a bagnare la tavola.

    Benedetta la notte che sfuma i contorni, toglie forza ai pensieri, si nutre della tua stanchezza e ti concede l’abbandono al riposo.

    Sarebbe questo il grande dono?

    Chi, se non un fottuto sadico, ti regala una cosa meravigliosa per poi spezzartela davanti agli occhi?

    Ti perdo e non posso fare nulla.

    Allora perché dovrei restare?

    Per continuare a illudermi che cambierà, che otterrò la felicità che tu non hai mai raggiunto?

    E che ne so io della felicità?

    Abbiamo sempre combattuto, perché dicevi: «Questa è la vita: combattere».

    Ma si combatte per conquistare, non per perdere.

    E sono anni che perdiamo: tu le forze, io la gioia del nuovo giorno.

    Se te ne vai tu, io vengo con te.

    Si fottano tutti a correre dietro a qualcosa che li porterà dritti all’Inferno.

    Noi dall’Inferno ci veniamo, non possono sbatterci in un posto peggiore di questo.

    La mia voce non produce eco.

    La tua sussurra altro, con il dolce tono di sempre.

    Se urlo non ti sento, allora taccio.

    Non è questa la strada.

    Nel silenzio imposto, scopro che l’unico vero Inferno sarebbe sapere che per questo mio ultimo gesto, mi rinnegheresti per l’eternità.

    Ti perderei per sempre.

    Eccola qui la tua stramaledetta Speranza, madre. La fottuta Speranza che mi hai iniettato nelle vene e che le ha rese di metallo, impedendo qualsiasi taglio che mi porterebbe a raggiungerti.

    Mi lasceresti per sempre solo.

    Resistere al dolore significa continuare ad averti accanto, sapere che la radice recisa produrrà nuovo frutto.

    Morire è dare ragione alla Morte.

    Vivere è farti vivere con me.

    Dentro di me.

    Se è un abbandono, lo è solo per gli occhi.

    Dobbiamo imparare a incontrarci, a vederci, senza chiedere aiuto alcuno alla vista.

    Nessun cieco ti dirà mai che non ti vede: la verità trova sempre rifugio dove lo sguardo non può arrivare.

    All’alba, indosso una camicia pulita, allaccio le scarpe e rinnovo il rito del legare i fili ai polsi, alle gambe e alla testa. L’ultimo è quello agli angoli della bocca.

    Le labbra sorridono mentre dentro, tra il palato e il cervello, le lacrime ristagnano e quello che la notte non ha saputo cancellare diviene spina che trafigge ogni nuova intenzione.

    Mamma se ne sarebbe andata, ma io macinavo la convinzione che nel luogo ignoto a cui era destinata avrebbe dovuto arrivarci con la forza e la piena consapevolezza di riprendere un discorso lasciato in sospeso.

    In fondo, la paura della morte si vince solo se nello zaino appeso al tuo letto hai già messo tutti gli strumenti per ricostruire la tua futura vita. E io avevo bisogno di sapere che, in quel nuovo cammino, Aliseo l’avrebbe riconosciuta subito: avrebbe riconosciuto il suo sorriso e la sua forza di volontà.

    No, Aliseo non era mio padre.

    Per questo le ricerche devono procedere caute: se avessi confessato a mia mamma che stava per morire, le lettere di Aliseo sarebbero finite nel fuoco e io non avrei mai avuto le risposte. Ora, è arrivato il momento di conoscere le domande.

    Il per Sempre Amore

    Il mondo interiore che anima questa storia è quello dei ragazzi di vent’anni e non occorre che immaginiate un tempo passato, un presente o un futuro: voi fatela vostra vestendo i panni dei vostri vent’anni, sia che li abbiate ora, sia che appartengano a un futuro a voi prossimo o facciano parte del vostro passato.

    Le storie senza tempo riescono a essere tali perché, se cambi le ambientazioni, il periodo storico e sociale, i personaggi continuano a esistere nel rispetto del preciso percorso dettato dal loro sentire. Non occorre che sia un treno, una bicicletta o un aereo a portare i protagonisti lontano: la volontà è più forte degli ostacoli e il loro destino rimane sempre segnato da essa. Non li ferma una capanna, una villa o un grattacielo; la musica che ascoltano può essere degli anni Cinquanta, degli anni Ottanta o proiettata nel futuro, ma l’abbraccio rimane abbraccio, il bacio è sempre un bacio e un addio, ritmato, lento o in sordina, rimane sempre e comunque un addio.

    In questa storia non c’è mai stato un addio, ecco perché, se vi state chiedendo se sto per raccontarvi una storia d’amore, la domanda è giusta. È la risposta che è difficile.

    Non si tratta di amore, bensì di Amore.

    La differenza non è nell’altezza della lettera maiuscola, ma dei sentimenti che negli anni l’hanno resa tale e nelle conseguenze che comporta il lavarsi con le proprie lacrime le ferite, saturarle con il sale e aspettare: niente fa più male del dubbio se si è fatta o no la scelta giusta. Non c’è niente di semplice nell’amare, ma se si ha la fortuna di amare a vent’anni, si amerà per Sempre.

    Adesso abbiamo due parole: Amore e Sempre, e anche Sempre ha la lettera maiuscola.

    Siamo persone comuni destinate a vivere vite fotocopiate, ma se per caso un giorno, camminando per strada, ti accorgi di provare amore e questo amore non somiglia affatto a quello che hai sempre provato per tuo fratello, per tuo padre, per la tua migliore amica, per tua moglie o per il tuo compagno, allora sappi che la tua vita ha appena assunto un valore che nessun’altra vita patinata può eguagliare.

    Perché quello che stai provando è per Sempre Amore.

    Se è quello che senti, dimenticati di poterlo condividere, raccontare, descrivere: nessun altro può capire e provare qualcosa che è proprio solo del tuo sentire. È un Amore tuo, intimo, che nessun aggettivo può raccontare; infinito e indescrivibile come solo il per Sempre Amore sa essere: devi rassegnarti all’idea di aver raggiunto e toccato qualcosa che non tutti hanno la fortuna di provare, quindi assaporalo nella piena consapevolezza di aver finalmente conquistato qualcosa di solo tuo.

    Unico e profondamente intenso.

    Forse adesso è più chiaro perché non voglio che pensiate che questa sia una storia d’amore.

    Perché non sarebbe per Sempre.

    Non perdete tempo a cercare di capire quello che provo nel raccontarla; cercate piuttosto, nel mio narrare indizi, di arrivare a scoprire se anche voi siete padroni di una storia che, nel tempo, avete scoperto essere per Sempre.

    E non perdete tempo in paragoni futili, chiedetevi piuttosto se siete in grado di essere voi stessi per Sempre Amore per qualcuno o se qualcuno è entrato in voi al punto tale da essere per Sempre Amore.

    Avete visto, possiamo anche invertire l’ordine dei fattori: il prodotto non cambia.

    L’anima degli oggetti

    Vi ho chiesto di tornare a o immaginare i vostri vent’anni, perché la prima volta che ho raccontato questa storia l’ho fatto davanti a dei ragazzi e delle ragazze del liceo che vent’anni li avrebbero compiuti di lì a poco. Ho chiesto loro di immedesimarsi, di prendere le parti dei protagonisti affinché potessimo discutere di quello che loro avrebbero fatto, se fossero vissuti nel 1950.

    È successo poco dopo la morte di mia mamma. Ecco perché vi ho parlato del mio lavoro, del suo, e di quello che è stato in tutti questi anni il suo segreto, che poi è divenuto il segreto dei miei studenti, nel momento in cui io l’ho donato a loro. E che ora diverrà il vostro segreto, sfogliando queste pagine.

    Mamma è morta il 13 agosto, la scuola sarebbe iniziata in settembre ed ero consapevole di non poter rimandare l’incontro con gli insegnanti in programmazione, per illustrare i miei percorsi di psico-didattica teatrale. Dovevo ottimizzare i tempi, ma soprattutto ero obbligato a indossare la maschera migliore, perché non trapelasse il mio dolore.

    Non erano tanto gli adulti a preoccuparmi, quanto i bambini e gli adolescenti. Se avessi deciso di iniziare le lezioni già dal primo mese di scuola, in classe sarei dovuto entrare con il cuore sgombro e l’attenzione ben centrata sulle loro richieste. Lavorare come insegnante significa, prima di tutto, accantonare ansie e problemi personali per essere al servizio di chi ripone la sua fiducia in te. Per farlo devi avere la capacità di chiudere la tua porta di casa per varcare la soglia delle loro.

    Prima mi fossi occupato di liberare l’appartamento di mia mamma, prima sarei riuscito a togliermi non solo un pensiero pratico, ma anche un bagaglio di ricordi ed emozioni che a scuola non volevo entrassero, per nessun motivo.

    Anche le cose, gli oggetti, sembrano morire, quando il proprietario li abbandona. È incredibile come non sia mai l’oro degli anelli a ricordarti il tuo caro estinto, ma un piccolo foglio, un’agenda ancora aperta con appuntati pensieri e numeri, una vecchia spilla scheggiata usata per chiudere quello scialle liso. Forse è per quello che quando perdiamo qualcuno che amiamo, tendiamo a separarci dagli oggetti di valore, ma ci leghiamo a un biglietto, a una foto con appuntato un pensiero di chi non c’è più.

    Così sono entrato con le mie vecchie chiavi e, nel varcare la soglia, sono rimasto accecato dalla triste consapevolezza che quella casa non era più la sua casa, quegli oggetti non erano più i suoi oggetti... Io stesso non ero più la giusta presenza per quello spazio.

    Lei non c’era più ed esattamente come la sua anima aveva abbandonando il suo corpo, così quella degli oggetti che le erano appartenuti era svanita alla ricerca dello spirito di chi li accarezzava e riponeva con amore ogni giorno. I soprammobili erano tornati ceramica, gli abiti erano divenuti stoffe colorate e i mobili erano ai miei occhi solo semplice legno colorato.

    Nulla lì dentro sarebbe mai più stato come prima. Oggetti e persone, per una volta, potevano ritenersi sullo stesso piano: tutti eravamo estranei l’uno all’altro. Nessuno mi aveva chiamato, quando avevo aperto la porta di casa.

    Le voci e i silenzi sono la colonna sonora del nostro incedere in famiglia. Si modificano e s’intrecciano nel tempo, come si modificano e s’intrecciano le nostre relazioni. Una casa priva della voce di chi la abita è solo uno spazio con qualche quadro appeso. E gli stessi quadri, frutto delle scelte di chi li ha voluti, mutano i loro colori perché li guardi con altri occhi.

    La camera da letto, dove correvo da bambino per abbracciarla, si riassumeva in un letto impolverato rifatto da giorni; l’armadio, dove da piccolo mi nascondevo per non farmi trovare, era tornato a essere solo un vecchio contenitore di vestiti privo di alcun valore.

    Ancora una volta, il contenitore si mostrava quale armatura voluta per proteggere il contenuto, perché anche in quell’armadio lei aveva riposto una parte di sé, un tesoro prezioso che io, ignaro, mi accingevo a scoprire. Mentre riponevo i suoi vestiti in valigie che avrei poi lasciato alla Caritas, la vidi, là, nel ripiano basso, nascosta da due vecchi cappelli, dentro un sacchetto di plastica che ne celava le fattezze.

    Una scatola? Sì, era proprio una vecchia scatola di latta.

    Classe IVD

    È arrivato il momento di portarvi in classe, perché è stato lì che ho aperto, per la prima volta pubblicamente, il tesoro di parole che mai avrei pensato di trovare in un armadio. È stata una decisione dettata dall’istinto, dal non voler pensare a tutti i costi. Adesso loro sono di fronte a me con il classico atteggiamento giudice del «ti do una chance, bada bene, ho detto una e non due, una è più che sufficiente».

    Nei prossimi minuti, devo giocarmi l’attenzione dei tre mesi a venire. Subito nasce la paura: la scelta è stata azzardata. Nella situazione emotiva nella quale mi trovo, non avrei mai dovuto accettare di iniziare il mio anno scolastico con una quarta liceo. Una quarta della scuola primaria sarebbe stata l’ideale: ho la trentennale esperienza per incantarli a occhi chiusi. Quarta liceo della scuola secondaria significa accettare quotidianamente la sfida, non cedere mai, gestire la provocazione con ironia e polso fermo. Di fermo, al momento, non ho nemmeno la mano.

    La scena è sempre la stessa: una quarantina di occhi severi che stanno in silenzio per due minuti, qualche battuta provocatoria a voce alta, poi l’accordo: «Vediamo cos’ha da raccontarci, diamogli una possibilità», oppure «Prof, fatti i fatti tuoi che io mi faccio i miei. Io non rompo te, tu non rompi me». E allora parto da lì, dal «Prof».

    «Buongiorno a tutti e tutte. Sono Stefano e, per i prossimi tre mesi, passeremo un po’ di tempo insieme. Qualcuno ha un’idea riguardo alla materia che affronteremo?».

    Fate attenzione: buongiorno a tutti e tutte non è casuale.

    Luca, Matteo, Fabio sono abituati a sentirsi dire: «Buongiorno a tutti» e, a loro, calza a pennello. Maria, Lucrezia e Anna lo accettano per convenzione, ma sanno benissimo che tutti non è tutte e che nel dirlo stai riservando loro un’attenzione per nulla scontata.

    Non puoi preoccuparti di ribadirlo ogni volta, ma ci sono momenti chiave dove basta una parola per sottolineare che non metterai l’intera classe sullo stesso piano; tutti semplifica, certo, ma in un’aula dove sono presenti maschi e femmine non facilita l’empatia. Non si tratta di essere pignoli o puntigliosi, si tratta di farti sapere subito, a te alunno, che farò il possibile per non confonderti, che per me sei importante in quanto persona diversa dalle altre e, nel limite del possibile, farò di tutto per preservare la tua unicità.

    Le parole hanno un valore, le persone pure. Se basta un accento per cambiare il significato di una parola, figuriamoci cosa può comportare l’indifferenza verso l’ovvio. Botte e bòtte: nella botte conservo tutto ciò che non voglio venga da te preso a bòtte. Non è solo un banale esercizio di dizione, è un invito a non essere distratti. Con gli adolescenti, la distrazione si paga al prezzo della stima, quella stessa stima che loro decidono di attribuire a te in qualità di insegnante.

    «Sostituisce la Prof di Italiano», risponde prontamente Anna.

    «No, la Prof di Italiano mi ha concesso alcune delle sue ore, ma non la sostituisco. Altre idee?»

    «Prof, posso andare in bagno?», se non fosse per i capelli corti, direi che sono di fronte alla reincarnazione di John Lennon.

    «No, non puoi andare in bagno perché mi hai chiamato Prof. Sono Stefano e non sono un vostro professore. Quantomeno, non nel senso che intende voi. So che all’inizio vi suonerà strano chiamarmi per nome, ma quello che faremo insieme non ha a che fare con verifiche o compiti in classe. Ha a che fare con le relazioni, quindi, se pensate che il rispetto si ottenga con le distanze, allora datemi del lei e chiamatemi Prof. Se invece pensate che si possa lavorare insieme basando le nostre lezioni sul rispetto reciproco, allora io proverò a imparare i vostri nomi e voi farete lo stesso con il mio che, tra l’altro, trovo molto più bello di un anonimo Prof. Quindi, prima che ti scoppi la vescica, se vuoi andare in bagno, cosa devi dire?».

    Non ci arriva subito, manifesta una nota d’imbarazzo, ma il bisogno aguzza l’ingegno e... «Stefano, posso andare in bagno?».

    «Certo, adesso sì. Però tu sai il mio nome e io non so il tuo. Sono in svantaggio. Ti chiami?».

    «Lorenzo».

    «Ok, Lorenzo, uno a uno, palla al centro. Grazie per aver portato pazienza, vai pure».

    Uno scambio di battute, dove il primo a stupirsi sono io e adesso molti di loro hanno gli occhi sorridenti e lo sguardo interrogativo. Non canto vittoria: la strada è lunga e complessa, ma riuscire a lanciare la palla nel campo avversario è già una conquista. Non si tratta di architettare strategie per vincere: il mio obiettivo è farli arrivare a scoprire che la vittoria decide sempre di albergare dove la squadra dimostra la sua unicità.

    Lorenzo è unico.

    Anna è unica.

    Io sono unico.

    Insieme siamo unici, insieme siamo squadra vincente.

    So che mi ripeto, è uno dei vizi di chi insegna. Oltre al crogiolarsi all’idea che repetita iuvant. Quella fu comunque l’unica occasione in cui riuscii a farmi chiamare con il mio nome.

    L’assenza di giudizio

    «Mettete via penne e quaderni perché oggi non dovrete prendere appunti, oggi insegnate voi a me. Prima di tutto vorrei sapere i vostri nomi, perciò, quando vi punto la matita contro, ditelo a voce alta e unite un aggettivo o un nome di qualcosa che vi piace. Questo mi aiuterà a memorizzare meglio come vi chiamate. Vi chiedo di portare pazienza, vedo circa sessanta ragazzi in un giorno, se non vi chiamo subito con il vostro nome non prendetevela, non lo faccio per farvi un dispetto, ho solo bisogno di tempo».

    Dichiarare e ammettere i propri limiti. Sei un essere umano che incontra altri esseri umani: stai cercando di trasmettere un’esperienza, non dei superpoteri. I nomi sono semplici e naturali, gli accostamenti con oggetti e aggettivi i più disparati, così il ghiaccio è rotto in fretta grazie all’atmosfera divertente che il gioco-esercizio crea. Al solito, non tutti riescono subito nell’intento, la presa in giro dei più estroversi rispetto ai più timidi

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