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Il giudizio degli specchi
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Il giudizio degli specchi
E-book360 pagine4 ore

Il giudizio degli specchi

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Info su questo ebook

E se la storia dell’umanità non fosse come la conosciamo?

In tutto il pianeta, in tutte le epoche, troviamo piramidi e obelischi. Dalle civiltà perdute in tempi sconosciuti, arrivando agli imperatori cinesi, attraversando il continente americano e scoprendo le meraviglie dell'Egitto e della Mesopotamia.

Gengis Khan, i faraoni, Alessandro Magno, il primo imperatore della Cina, i romani e i greci... tutti possedevano una conoscenza impossibile da concepire per quei tempi.

Ma anche gli eventi più strani hanno una spiegazione logica. I potenti costruirono amuleti che contenevano Iridio, un metallo extraterrestre arrivato sul nostro pianeta insieme ai meteoriti. Alcuni frammenti di questo metallo sono in grado di creare buchi quantici, che sono minuscoli buchi neri. E con l’aiuto dell’iridio, i potenti si rivedevano in un futuro diverso, in una dimensione parallela, o in un passato remoto... e venivano giudicati e consigliati, per creare gli imperi più potenti dell'epoca.

Un gruppo di giovani è stato incaricato di raccogliere gli amuleti del potere. Anche un uomo malvagio li sta cercando e la sua intenzione è dominare il mondo.

Cosa nascondono i guerrieri di terracotta?

Cosa trasportò in Irlanda un giovane druida?

Dove occultarono la tomba di Gengis Khan?

Perché furono distrutte Sodoma e Gomorra?

I segreti dell'umanità... saranno svelati...

LinguaItaliano
EditoreBadPress
Data di uscita29 gen 2024
ISBN9781667469171
Il giudizio degli specchi

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    Anteprima del libro

    Il giudizio degli specchi - Alexander Copperwhite

    IL GIUDIZIO DEGLI SPECCHI

    Le lacrime di Dio

    ––––––––

    Alexander Copperwhite

    A tutti coloro che sognano

    Non tutti i viaggi devono avere un punto di partenza e una destinazione

    I – Il meteorite

    È curioso come il nostro passato ci perseguiti nello stesso modo con cui inseguiamo il nostro futuro, così che, alla fine, voltiamo le spalle al presente, che è forse ciò che conta davvero. Quanto sarebbe inquietante riscoprire la nostra figura tra le ombre del tempo, e poterci elevare più in alto calpestando l'apice dell'umanità che ancora sopravvive dentro di noi.

    *

    Uno sguardo fermo dal cielo controllava tutto ciò che accadeva sotto il suo dominio. Le sue enormi ali scuotevano con forza il polline che fluttuava nell'aria, creando minuscoli vortici di vento appena percettibili agli esseri del creato. Il suo ampio piumaggio danzava al ritmo del suo cuore, avendo come musica il cielo irraggiungibile e l'umida frescura della terra, che lentamente evaporava e formava un sottile strato di nebbia intorno a lui. La sua gola gonfia, piena di carne di pesce appena triturata per nutrire i suoi piccoli, gli impediva di manovrare con scioltezza. A volte si aiutava spingendosi con gli artigli dopo essersi avvicinato a un sostegno invisibile, che solo lui poteva vedere. Inciampava nel nulla e tornava a svolazzare vigorosamente. Si guardava intorno nel caso in cui il pericolo fosse in agguato, ma riusciva a distinguere solo una parte del suo piumaggio che, a volte, gli sembrava verde-azzurro, e altre volte giallo-rossastro. Non distingueva chiaramente i colori, né li aveva mai nominati. Nel suo becco, sentiva la sensazione di libertà e tranquillità, poiché era senza dubbio l'uccello più potente che volava nei cieli in quel momento.

    Un allosauro passeggiava vicino alla pozza fangosa che decorava il paesaggio selvaggio e primordiale. Alzò il collo lungo e pesante, che lo aiutava a nutrirsi delle foglie degli alberi più alti, e guardò con indifferenza lo pterodattilo che volava verso il suo nido per nutrire i suoi piccoli. La sua pelle squamosa, metà rettile metà mammifero, si deliziava con le morbide carezze della fresca brezza che veniva dal nord. Camminava seguendo il suo istinto e seguendo il dolce profumo di una femmina in calore. Lasciava le sue pesanti impronte nella terra spugnosa mentre allungava il collo per raccogliere le foglie più fresche e gustose che un animale come lui potesse desiderare.

    Lo pterodattilo deviò dal suo tragitto per dare un'occhiata più da vicino al grande ma innocuo invasore che aveva osato entrare nel suo dominio. Un forte battito d'ali e virò verso destra. Un altro forte battito d'ali e virò verso sinistra. Dopo aver verificato che aveva cose più importanti da fare, si allontanò riprendendo il suo tragitto precedente. Il grosso rigonfiamento nella sua prominente gola lo rendeva brutto e lo faceva sembrare più goffo del solito, ma aveva comunque marcato il suo territorio in modo che gli estranei sapessero che stavano camminando su terra straniera. Tranquillo e fiducioso, allungò il collo e ingoiò un po' del pesce che stava trasportando. Non lo disgustò anzi, al contrario, gli piacque, ma non voleva ingoiarne ancora o sarebbe stato costretto a tornare al fiume e prendere altro pesce, a più di due chilometri di distanza. Quando le sue pupille dilatate guardarono l'orizzonte, improvvisamente una grande palla di fuoco si delineò sulle sue retine di vetro.

    Luminosa, calda ed enorme. La grande palla di fuoco penetrò l’atmosfera terrestre, lasciando dietro di sé una scia di fumo bruno-verdastro e l’oscurità. Non si sentì nulla. Il bolide luminoso viaggiava sfondando le nuvole e attirando l'attenzione di tutti gli animali, e l’indescrivibile Fenice gigante ammutolì. Lo pterodattilo guardava incantato e allo stesso tempo spaventato, sbattendo le ali in modo goffo e confuso, perdendo il senso dell'orientamento. Senza preavviso, la Fenice parlò. Il ruggito assordante delle sue viscere fece tremare l'acqua fangosa della pozza, e la terra, i cespugli, gli alberi e persino la carne rigonfia del potente allosauro. Gli uccelli più piccoli si erano nascosti nei loro fragili nidi, sotto un mantello invisibile e con un falso senso di sicurezza, rannicchiati con i loro pulcini, uova non schiuse e resti di gusci rotti. Rimasero in silenzio. Un’ondata di calore soffocante accompagnò il grido della Fenice, e all'improvviso il sangue dello pterodattilo divenne così caldo che sembrò ribollirgli dentro. Contorcendosi per il dolore, sputò il pesce triturato e soffocò. Cominciò a roteare, precipitando verso il suolo in una spirale indefinita di svolazzi e stridii di disperazione, tale era la forza della Fenice che la gravità terrestre non era più al suo posto e i poli avevano perso il loro magnetismo. Sbatté la testa, gli faceva male il becco e le viscere gli bruciavano. Alzò lo sguardo al cielo, che prima aveva dominato, e vide il gigantesco uccello di fuoco che si allontanava, portando con sé il suo orribile stridìo e il calore insopportabile. Impunito dopo la sua sfacciata aggressione. Lo pterodattilo si calmò e si preparò a tornare al fiume per catturare altro pesce, triturarlo con i suoi denti a sega e nutrire i suoi piccoli. Forse avrebbe mangiato un po' anche lui, visto che quanto era accaduto gli aveva stuzzicato l'appetito. Pronto a volare, vide un altro pterodattilo che giaceva morto su una roccia piatta. Non era stato fortunato come lui.

    *

    L'animale, ormai estinto, posa orgoglioso ma timoroso, al Museo di Storia Naturale di Londra. Niente ha più importanza per lui. Sulla pozza fangosa, milioni di anni dopo, l'uomo ha costruito una delle città più belle e cosmopolite del mondo: Parigi. Oggi i suoi abitanti camminano su vestigia di mondi perduti, anche se è difficile rendersene conto. La gigantesca palla di fuoco, l'inaspettata Fenice che ha attraversato i cieli in un'epoca dimenticata, è stata l’artefice di quello che oggi chiamiamo il cratere di Chicxulub nella penisola dello Yucatan, in Messico. Sterminò più dell'ottanta per cento della vita animale e vegetale sul nostro pianeta. Prima l'impatto, poi l'esplosione, poi le nubi di cenere che oscurarono il mondo dal sole, facendo appassire le piante e avvelenando le acque, e infine un gelo nucleare che abbracciò la superficie terrestre e spazzò via il resto della vita. Apocalittico ma allo stesso tempo miracoloso. Un meteorite era caduto dal cielo, strappato dalle viscere dell'universo dalla divinità delle coincidenze matematiche, e aveva devastato un ecosistema per poi crearne un altro. Uno più docile e gestibile, dove un animale più piccolo e debole degli altri sarebbe diventato il predatore più temuto di tutti i tempi, un ricercatore dell'inimmaginabile e un esploratore del cosmo.

    II – Il maestro

    Nell’attualità...

    La città di Tokyo ospita più di dieci milioni di abitanti e, come New York dall'altra parte del mondo, non dorme mai. Illuminata da infinite luci al neon, che pubblicizzano di tutto, dal prodotto più fantasmagorico e favoloso alla sciocchezza più semplice che non serve a niente. Visitata da artisti, lodata da poeti e invidiata da mercanti, la città non dà tregua a chi la vuole conquistare. Durante il giorno, l'inquinamento condensato nell'atmosfera crea uno strato scuro di foschia che impedisce alla luce naturale di raggiungere il terreno della città, protetta dalla megalomania umana. La notte è più luminosa del giorno, ma durante il giorno non impera la notte. È difficile distinguerli. Sono diventati un palindromo contorto, creato dai discendenti di Edison e Tesla, insieme alla rotazione infinita del nostro pianeta attorno a se stesso. Naturale ma egoista. Dal cielo si vedono le piccole formiche che costruiscono le loro colonie sulle sabbie mobili, costantemente scosse dalla furia del mare e dall'impazienza della terra. Una meraviglia moderna, ma molto lontana dal Giardino dell'Eden, dove Eva amò Adamo incondizionatamente, all'ombra di alberi centenari e su letti di fresca erba verde. Coloro che hanno raggiunto il potere e la ricchezza vivono alla periferia di Tokyo; in enormi ma modeste dimore, in sintonia e in armonia con la cultura e la tradizione della millenaria isola del Giappone.

    *

    «Maestro! Per favore... vieni.»

    Il grido del servo Hiro attraversò la carta sottile che ricopriva le pareti di legno di sequoia importato dal Cile. Il luccicante parquet del corridoio, che separava l'alloggio del giovane Ryo dal resto della casa, non rimbombava sotto i bruschi passi del servo. Di aspetto goffo, i suoi piedi nudi scivolavano fluidi sulla superficie del legno invecchiata dagli anni e levigata da una vernice incolore, mentre le gambe lunghe e robuste tremavano al fatto di essere portatore di cattive notizie.

    «Silenzio, Hiro! E non chiamarmi maestro. Lo sai che lo detesto.»

    In ginocchio e senza fiato, il servo ignorò le parole di Ryo e chinò la testa fino ad appoggiare la fronte a terra, come era usanza nei tempi antichi.

    «Maestro!»

    «Ti ho detto di non chiamarmi maestro. Cosa devo fare per...!»

    «Tuo padre ti chiama.»

    Il giovane, di ventinove anni, perse la spavalderia. Hiro, il suo servo, era stato come un padre per lui, ma Ryo non gradiva essere interrotto durante la sua meditazione pomeridiana. Il servo lo chiamava maestro per irritarlo. Lui era solo il discepolo e Hiro il suo saggio maestro. Gli voleva bene, anche se le sue ultime parole l’obbligarono a odiarlo per qualche secondo.

    «Andiamo» disse Ryo.

    Hiro si era occupato della sua educazione da quando aveva diciassette anni. A quattro anni, lo aveva protetto durante una gelida tempesta invernale, mentre i suoi genitori erano in viaggio per affari, come al solito. Si rivelò essere amore a prima vista. Un amore puro, come quello di un padre per il figlio, quello del tuo migliore amico o quello del tuo più intimo confessore. Vuoto di ogni vanità e pieno di sincerità, tenerezza e talvolta dolore.

    Perché la verità fa male era solito dire Hiro.

    Gli insegnava tutto ciò che sapeva e tutto ciò che di nuovo imparava. Se da giovane studiava e si allenava con entusiasmo, adesso studiava il doppio e si allenava il triplo in modo da poter infondere più saggezza nel suo giovane pupillo. Non si era mai sposato, né lo aveva mai desiderato. Si era imposto il celibato proprio come un monaco, ma senza la veste arancione; senza nessun voto solenne o contratto imperiale. Il suo amore per quel bambino era tutto ciò di cui aveva bisogno e la speranza per un futuro migliore risiedeva in lui.

    «Per favore, Hiro, non rallentare.»

    «Sì, maestro.»

    «Non chiamarmi così!»

    «No, maestro.»

    La frangia del giovane Ryo danzava con i suoi passi. Non voleva correre e non voleva arrivare tardi. Doveva mantenere la calma e comportarsi come un Nagato. Un cognome ancestrale, ricco di gloria e vittorie, ma anche di ingiurie e sconfitte. Molto presto avrebbe scoperto tutta la verità. L'albero genealogico risaliva a oltre mille anni prima. Mancavano rami e ramoscelli, foglie e fiori, radici e tronco per poter disegnare tutta la famiglia su un pezzo di carta. In realtà mancava più la carta che altro. Erano potenti, una delle famiglie più ricche del Giappone.

    «Tirati indietro la frangia, che a tuo padre non piace.»

    «Sai benissimo che...»

    «Tiratela indietro e non discutere. Non è il momento.»

    «Non sono già più il maestro?»

    «Sarai sempre il maestro, ma fallo.»

    I fiori di ciliegio nel giardino appassivano e cadevano a terra. La primavera era appena arrivata, ma il giardino sembrava rattristato dalla perdita imminente e piangeva inconsolabile e silenzioso. L'ultima volta che era successo, era stato quando la madre di Ryo aveva deciso di lasciare la casa di famiglia per vivere da sola nella piccola residenza estiva di Okinawa. Il ragazzo aveva solo nove anni e non riuscì a capirlo fino ai ventidue anni, ma non aveva comunque voluto accettarlo. Aveva fatto una promessa al cielo e alla terra.

    Non mi taglierò più la frangia finché mia madre non tornerà da noi aveva dichiarato.

    Suo padre aveva pensato che fosse un’esagerazione e non gli aveva dato molta importanza. Non lo guardava; gli parlava solo di onore, di rispetto e di quanto fosse importante la famiglia Nagato per il Giappone e per il mondo. Un giorno, dopo un lungo viaggio d'affari attraverso le Americhe, lo aveva guardato con la coda dell'occhio e aveva notato la lunga frangia che gli arrivava fino al collo.

    «Cos'è quella roba che ti pende dalla testa?» gli aveva chiesto suo padre.

    Ryo gli aveva ricordato la sua promessa, e poi era rimasto in silenzio. I suoi capelli scuri, sempre ben lavati e curati, gli davano un aspetto signorile. Tipico giapponese. Solo la sua frangia era stonata, che a questo punto gli arrivava alla vita. La raccoglieva solo per allenarsi con la sua katana e nient'altro.

    «Mi disturba, ma ne ho bisogno» gridava durante gli allenamenti.

    Anche oggi si vide costretto a raccoglierla.

    «Molto meglio» fece notare Hiro. «Potrebbe non essere importante per te, ma mitigherà il suo brutto carattere e lo aiuterà a passare dall'altra parte in pace.»

    "Stupida frangia" pensò Ryo.

    «Sei sicuro che stia per morire?»

    «Non ti avrebbe fatto chiamare se non fosse così!»

    «Certo... di questo non ho dubbi.»

    I disegni di margherite e ninfee che adornavano la carta da parati su quel lato della casa diventarono grigi e anonimi, prima ogni fiore era diverso e di un colore differente. Erano stati dipinti a mano da dodici artisti, provenienti dalle prestigiose accademie del sud, per tre mesi consecutivi, in autunno.

    «La cosa più bella di questo mondo per la più bella di tutte le donne» aveva detto una volta suo padre. Ma qualche anno dopo, quando aveva perso il suo secondo figlio durante il parto, aveva perso anche il desiderio di amarla.

    Quel piccolo pezzo di casa era diventato il suo palazzo, il suo santuario, lontano dal carattere distante e sgradevole del padre; più vicino a sua madre.

    «Non so cosa fare!»

    «Perdonalo!» esclamò Hiro. «Fai pace con lui e lascialo andare con serenità.»

    «E se non voglio?»

    «Vuoi» affermò il servitore..

    Ryo lanciò un'occhiata di traverso al suo servo e borbottò. Hiro era un uomo serio e umile. Un uomo d'onore. Dal giorno in cui aveva rinunciato alla sua vita personale per educare Ryo, si rasava la testa due o tre volte alla settimana.

    «Perché non hai i capelli?» aveva chiesto una volta Ryo quando aveva sei anni.

    Il devoto servo lo aveva guardato, aveva sorriso e gli aveva colpito la mano con la sua bacchetta di ciliegio per non aver prestato attenzione alla lezione. Due giorni dopo aveva risposto che si rasava la testa per arieggiare meglio le sue idee e, due ore dopo, Ryo, imitandolo, si era rasato la sua. Kokomi, la madre di Ryo, che non se ne era ancora andata, aveva rimproverato sia il bambino che il maestro. E poi se ne era andata ridendo. Il kimono a motivi di bambù che indossava quel giorno le stava molto bene. Il colore verde la ringiovaniva e accentuava la bellezza del suo sorriso, sottolineato da un rossetto rosso sulle sue labbra sottili. La madre di Ryo sorrideva sempre. Il bambino non si era mai più rasato la testa e non aveva più fatto domande a Hiro. Nel corso degli anni fu contento che il suo saggio maestro lo facesse, avendo notato di recente le profonde intuizioni che aveva quando trascurava il suo taglio cerimoniale. È così che lo chiamava.

    Gli uomini sono animali così lo giustificava.

    «Non dirmi che è il dottore quello che sta fumando come una scimmia fuori dalla porta della camera di mio padre.»

    «Sì» rispose Hiro, e deglutì. «Cosa importa?»

    «In realtà, niente. È solo che non sapevo che il dottore fumasse.»

    «Non fuma.»

    Due gorilla vestiti e con la faccia scontrosa, l'avvocato delle loro imprese, e il dottor Takaeto, da sempre medico della famiglia Nagato, sorvegliavano l'ingresso degli alloggi del magnate morente.

    «Signor Nagato... voglio dire, maestro... voglio dire Ryo... io...» balbettò il dottore.

    «Calmati. Sapevo che prima o poi sarebbe successo. Dimmi solo quanto tempo ho.»

    «Minuti. Forse nemmeno quelli.»

    Gettò in giardino il sigaro appena acceso e se ne infilò un altro in bocca. Scosse un accendino rosso, senza gas, e cercò di accendere il sigaro. Si arrabbiò e lo gettò in giardino a cercare il fratello gemello.

    «Calmati, dottore, mi rendi nervoso.»

    Ryo gli prese il pacchetto di sigari e ne accese uno con l'aiuto di uno dei due gorilla.

    «Che schifo!» Ryo tossì e fece un altro tiro di veleno.

    «Non perdere tempo con sciocchezze, maestro. Non ti darà forza, né allungherà la vita di tuo padre.»

    «Adesso torno a essere il maestro? Che opportunista sei!»

    Per molti anni, tra lui e suo padre, si era alzato un muro di granito così solido che nessun congegno tradizionale o futuristico era in grado di penetrare. I giorni estivi trascorsi con sua madre a Okinawa avrebbero dovuto addolcire il suo cuore, ma non l'avevano fatto. Ora il muro infrangibile era crollato, trasformandosi in schegge di vetro sparse nei suoi innumerevoli ricordi, impercettibili. Era suo padre. Solo una misera porta di carta si frapponeva tra l'uomo che l'aveva sollevato tra le sue braccia orgogliose quando ancora sembravano capirsi, e il ragazzo che era cresciuto troppo in fretta.

    Si allontanarono tutti e Ryo fece scivolare la porta che cigolò contro il binario consumato del pavimento. Un letto da re, di colore rosso ciliegia e con arazzi usati come coperte, sostituivano il tradizionale futon. Ordini del medico. Occupava la maggior parte della stanza, tranne quel poco spazio rimasto per le attrezzature mediche, un corridoio per i visitatori e un'armatura logora su un piedistallo improvvisato.

    Che ci fa qui quell’affare? pensò Ryo.

    Il bip assordante e intermittente dell'elettrocardiogramma gli ricordava che stava per perdere suo padre, ma gli diceva anche che era ancora vivo. Ora si lamentava perché non sarebbe durato a lungo. Lo guardò dall'alto in basso come un essere superiore ma poi si inginocchiò per la vergogna, appoggiandosi alla testata del letto, pronto a scusarsi.

    «Perdonami, figlio mio», sussurrò suo padre.

    Sorpreso, Ryo abbassò la testa e iniziò a piangere.

    «Sei tu che devi perdonarmi. Sono stato un peso per te e una vergogna per la nostra famiglia.»

    Soffrendo per il dolore e sul punto di esalare il suo ultimo respiro, Wataru Nagato allungò la mano cercando il volto di suo figlio.

    «Non erediterai la vergogna della nostra famiglia. Non erediterai le nostre imprese.»

    «Padre...»

    «Non interrompermi, non ho molto tempo. Nessun Nagato è stato benedetto con il buon senso e la forza fisica per compiere il suo vero destino. Il denaro è solo un oggetto triviale, vuoto e sporco. Non avrei mai pensato di odiarlo così tanto, finché tuo nonno non mi ha rivelato sul letto di morte che ero caduto in disgrazia, proprio come lui, condannato a combattere per una causa meschina per il resto della mia vita.»

    «Non ti capisco.»

    «Dal primo momento in cui ti ho tenuto tra le mie braccia, ho capito che eri l’eletto. Nel tempo, la mia ammirazione per te si è trasformata in invidia. Ho invidiato mio figlio.»

    Il moribondo respirava affannosamente.

    «Non importa.»

    «Sì che importa! Almeno Hiro è rimasto al tuo fianco. Ti ha insegnato bene.»

    «È vero.»

    Il vecchio si irrigidì ed ebbe delle convulsioni come se un milione di volt attraversasse la sua fragile carne.

    «Padre!»

    «Ti lascio l'armatura dei nostri antenati. Promettimi che ti allenerai con lei in giardino durante la prossima luna piena.»

    «Per favore, io...»

    «Promettimelo!»

    «Te lo prometto.»

    «Mi dispiace, figlio mio. Perdonami.»

    La sua voce si spense come quando si bagna la fiamma di una candela. Il suo fuoco si spegne finché un rivolo di fumo non scompare nell'oscurità. Non lo vedi, ma sai che c'è. Il bip intermittente divenne costante e un brusco strattone sul cavo lo fermò completamente. Ryo strappò via gli arazzi, staccò i dispositivi medici e accarezzò la fronte di suo padre.

    «Non perderò la calma, mai più» sussurrò, e si sedette accanto a lui. Voleva dirgli molte cose, e lo fece. Trascorse tre ore a parlare con lui senza interruzioni né riposo. Diede sfogo alla sua anima. Alla fine, pensò alle sue ultime parole e provò una profonda confusione, anche se non gli importava. Si avvicinò all'armatura dei suoi antenati che, per qualche strano motivo, non era stata nemmeno spolverata. La katana attirò la sua attenzione. La sguainò magistralmente e si rese subito conto che la sua lama era ancora affilata; tagliava perfino l’aria.

    Incredibile, davvero incredibile.

    La rimise a posto e tornò al fianco di suo padre.

    III – Funerale di facciata

    Due giorni dopo, durante il funerale, non pioveva. Il calore accarezzava le guance dei presenti che, invece di sentirsi tristi, erano pieni di gioia. C’era da aspettarselo. Bugiardi, burocrati, farisei e sanguisughe; tranne un paio di veri amici, tutti gli altri erano andati per interesse e per salvare la faccia.

    Quanto è falso il mondo! sorrideva Ryo, ma li detestava.

    All’inizio decine di presenze, poi centinaia, addirittura migliaia: dirigenti, impiegati, collaboratori, politici... di tutti i tipi e per tutti i gusti. Avevano saputo che Ryo non avrebbe ereditato le imprese ed erano venuti come testimoni. A lui non importava. Sorrideva stoicamente e dava la mano a chi glielo chiedeva. Sua madre era al suo fianco e non poteva deluderla. Piangeva con veemenza senza preoccuparsi delle persone intorno a lei, o di quello che pensavano. Nel suo piccolo rifugio aveva imparato ad amare senza essere amata e ad ascoltare senza essere ascoltata. Suo figlio non la lasciava sola neanche un secondo.

    Il tragitto verso casa, dove l’anziana donna aveva assaporato la felicità per un breve momento della sua vita, si svolse nel silenzio. Ryo la guardava desiderando un abbraccio. Il dolce amore della madre avrebbe potuto mitigare la sua tristezza, ma l'ampiezza dell'interno della limousine nera non incoraggiava la vicinanza. In un'auto più piccola almeno sarebbero stati più vicini.

    «Hai ereditato la testardaggine da tuo padre. E tutto il resto da me.»

    Hiro, che era seduto accanto a lei, rise sommessamente.

    «È vero, caro maestro. Mio figlio combina l'eleganza, l'intelligenza, la grazia e la disinvoltura di sua madre, con la... perseveranza di suo padre. Una combinazione tanto bella quanto potente, non credi?»

    «Sì, signora» assentì Hiro e chinò la testa in segno di rispetto.

    «Non credo che questo sia il momento migliore per questa conversazione, madre.»

    «Sciocchezze! È un momento come un altro. Inoltre, non potremo parlare quando tornerò a Okinawa.»

    A Hiro scappò un’altra piccola risata e, rendendosene conto, tossicchiò.

    «Non siate così formali, nessuno ci ascolta. Sono troppo vecchia per nascondermi e mi resta poco tempo per essere ascoltata. Comunque... Dimmi, Ryo, come ti senti ad essere l’eletto?»

    «L’eletto? Madre, non mi interessano i soldi, ma una vecchia armatura non è molto.»

    Il volto infuriato della donna spaventò i due uomini. Molte volte si erano allenati e molte volte avevano combattuto in vicoli bui per cause perse, ma mai prima d’ora si erano sentiti così angosciati.

    «Tu sei l’eletto. Sei cresciuto nelle mie viscere, hai sanguinato nel mio sangue e ti sei nutrito di me. Il destino del mondo è nelle tue mani e tu non sei capace di rendertene conto. Giovane insensato, per fortuna lo farai presto.»

    «Sì, madre.»

    «Oh, mi dispiace, figlio mio. Non voglio angustiarti, voglio solo che tu capisca che per settecento anni tutti i Nagato hanno voluto portare a termine il compito che ti è stato affidato. Non disprezzare il minuscolo per essere piccolo, lodalo perché si distingua e resista in un ambiente più grande di lui.»

    «A proposito, quanto pensi di restare?»

    «Parto stasera.»

    «Come? Ma perché?»

    «Non devo distrarti, sii forte

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