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Per amore del mare
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E-book176 pagine2 ore

Per amore del mare

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Info su questo ebook

Il mare, oasi di pace e meraviglie in cui si intrecciano le vite di creature straordinarie. Mino Carbone ci immerge letteralmente in quegli abissi che tanto ci affascinano, città sommerse mirabilmente scolpite da Madre Natura, popolate da specie variegate, coloratissime e vivaci o solitarie e discrete, desiderose solo di nascondersi sul fondale sabbioso. Sono loro, delfini e pesci, calamari e squali, i protagonisti di queste pagine, che, minacciati dall’avidità degli uomini, dimentichi di quanto preziosi essi siano nel grande cerchio della vita, superano le evidenti differenze che li caratterizzano, diffidenza e paure, istinto e pregiudizi, e insieme lottano per amore del mare, desiderosi di conservarne equilibrio e bellezza.
Una lettura destinata a una vasta platea di lettori, da condividere con le nuove generazioni, nel comune impegno di preservare un patrimonio che appartiene a tutti.

Mino Carbone è nato a Brindisi e ha vissuto l’infanzia nel monastero di Piazza Marco Antonio Cavalerio, edificio trasformato in abitazioni subito dopo la seconda guerra mondiale, dove ha respirato il mistero che spingeva i cavalieri templari e i crociati ad andare in Terra Santa, nutrendosi di storie leggendarie.
Ragazzo, frequenta la facoltà di Lettere e Filosofia a L’Aquila, dove si laurea in Lingue. 
Ha esercitato la professione di insegnante e guida turistica. Questa è la sua prima pubblicazione.
LinguaItaliano
Data di uscita31 dic 2022
ISBN9791220136129
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    Anteprima del libro

    Per amore del mare - Mino Carbone

    Capitolo I

    Era una di quelle tipiche mattine di aprile, assolate e con la giusta umidità nell’aria. Un banco di stenelle gioiose saltava fuori dall’acqua calmissima, luccicavano sotto il blu terso del cielo.

    L’irreale e insostenibile calma del Pelagio si estendeva fino all’orizzonte dove un’invisibile linea staccava nettamente l’aria dall’acqua, oltre la quale un millenario reef creava una barriera a pelo d’acqua invalicabile per il resto del mondo.

    Era un luogo speciale, unico angolo ancora incontaminato, mentre il resto del vasto mare diventava giorno dopo giorno deposito dei rifiuti, un luogo triste che l’uomo stava trasformando in un deserto d’acqua fatto di desolazione e di morte.

    Quando il soffio della brezza si sollevava leggera, la superficie dell’acqua diventava all’improvviso color argento e dava a tutta quella regione un’aria celestiale; ogni volta era un miracolo che solo la natura sapeva compiere; una manifestazione misteriosa del bello divino che si svelava tra le meraviglie del paesaggio.

    La giovane delfina femmina che, nella sua piena stagione fertile, saltellava ripetutamente e sfrontatamente cercando di attirare tutte le stenelle striate dell’intrigato dedalo dell’arcipelago, apparve spocchiosa e sfidante al suo appuntamento nella stagione degli amori.

    Ginger era un raro delfino color bianco latte che quando saltava fuori dall’acqua, abbagliava, e quando si emozionava, la sua pelle diventata di un colore tra il rosso e l’arancione, proprio come il suo nome.

    I delfini maschi iniziarono ad apparire da lontano esibendosi in acrobazie sempre più difficili e pericolose per conquistarla.

    Ginger, che si fingeva svenuta, li osservava con un solo occhio aperto. Guardava chi fra il branco fosse il maschio più intrepido, quello che avrebbe scelto e col quale si sarebbe accoppiata.

    Abbandonata a pancia in su, galleggiava. A peso morto in quel luogo di pace e silenzio rotto solo dagli sprazzi d’acqua dei salti acrobatici, Ginger godeva del suo momento di gloria e di potere quasi innaturali.

    I suoni emessi dai maschi più intrepidi ravvivavano il creato marino, davano gioia con le loro acrobazie agli spettatori del cielo.

    Lei era appagata solo nel vederli tutti di fronte a lei a improvvisare salti impossibili per compiacerla, sebbene di tanto coraggio Ginger non sapesse cosa farsene.

    Laconica, stava al loro gioco.

    Era un piccolo universo in armonia, l’equilibrio assoluto del creato, uno di quei rari momenti dove la vita trionfa e si compie di perfezione.

    Un tonfo sordo e improvviso squarciò il gioco delle stenelle, lo interruppe violentemente: un possente peschereccio d’altura aveva speronato Ginger con la prua colpendola alla pinna caudale e facendole perdere il senso dell’orientamento.

    Stordita, scivolò verso il fondo come un sasso e in un attimo raggiunse il letto del mare, sbatté il rostro su di un soffice strato di sabbia, restò immobile.

    Le vennero in mente immagini, ricordi di quando fu abbandonata a causa del suo peso, ben al di sotto della media, e del suo diverso e strano colore della pelle, e di quando Lola, l’anziana delfina del branco che viveva nel Pelagio la trovò durante la sua solita ispezione quotidiana, così impaurita, piccola, indifesa e malnutrita, che sarebbe sicuramente morta se non l’avesse vista.

    Lola, che aveva partorito da poco e aveva abbastanza latte per sfamare dieci cuccioli, si prese cura di lei come una figlia e la chiamò Ginger come il colore che la sua pelle assumeva quando veniva allattata.

    Fu così che Ginger divenne una della famiglia delle stenelle del Pelagio. Una delfina senza paura, intelligente, a volte sfacciata, ma generosa e piena di coraggio.

    Intanto, in superficie, i delfini smisero di saltare, interdetti e confusi, si ritirarono, non capivano; rimasero a pelo d’acqua.

    Jejei, un maschio di stenella giovanissimo, appena entrato in età riproduttiva e al suo primo rendez vous di accoppiamento, seguì la caduta della delfina che era scomparsa tra i gorgoglii della scia del peschereccio che si allontanava.

    Immobile e stordito da quell’avvenimento, vedendo che la delfina non riemergeva, andò a cercarla.

    La trovò adagiata sul fondo ancora priva di sensi; la raggiunse e la scosse, la sollevò col rostro e la spinse in superficie per farla respirare.

    «Che è successo?» chiese ancora intontita. Riconobbe in quel giovane delfino uno dei suoi preferiti, era quasi riuscito a conquistarla se non fosse stato per la maggiore abilità del salto triplo con avvitamento a testa indietro di Tom, che l’aveva grandemente stupita.

    «Grazie per l’aiuto» disse con un flebile scricchiolio.

    «Dovere» le rispose Jejei.

    Tom, che aveva visto tutto, si avvicinò e mandò delle cliccate¹ di disappunto a Jejei che si allontanò.

    «Stai bene?» chiese a Ginger.

    «Dov’eri quando sono scivolata senza sensi?» gli chiese con tono sferzante mentre guardava Jejei allontanarsi.

    «Mi spiace, ho pensato che stessi fingendo».

    Tom era giunto alla sua ultima stagione di accoppiamento e aveva impiegato le sue ultime energie esibendo il suo pezzo forte, quello che nessuno era riuscito ancora a imitare o superare, il triplo salto mortale all’indietro con un solo colpo di pinna.

    Ormai l’aria spensierata era passata; quell’imponente imbarcazione aveva interrotto la magia e il mistero che accompagnavano l’accoppiamento; la sua ombra lontana disturbava il banco che, incuriosito, gli si avvicinò e iniziò a perlustrarlo girandogli intorno.

    Erano nervosi e sulla difensiva, scrutavano lo scafo di ferro e cercavano di scoprire che cosa ci facesse lì.

    Era un motopeschereccio d’altura che navigava in una latitudine molto distante e mai e poi mai sarebbe potuto entrare nella laguna naturale protetta dalla barriera corallina.

    Tom ripensò a quello che aveva detto Lola qualche tempo prima, di quando una volta, portando i piccoli delfini ad ispezionare i confini del loro territorio, s’accorse di una lenta erosione, come una breccia nel reef.

    Era una cosa insolita, non naturale, che sicuramente era stata causata dalla mano dell’uomo ma quando Tom andò a verificare, non avendo notato nulla di strano, credette che fosse la conseguenza di un crollo naturale.

    Adesso era tutto più chiaro: quella breccia era stata aperta dai pescatori per entrare in una nuova zona di caccia, nel loro santuario.

    Un improvviso e stridente rumore metallico scosse il banco che si immerse repentinamente e si nascose tra la posidonia.

    Un’enorme àncora era stata calata. Raggiunge velocemente il fondo e si agganciò pesantemente ad uno scoglio, la caverna dove viveva Cecil.

    La vecchia murena, scossa dall’insolito fragore, mise fuori il muso e cercò di mordere chiunque le passasse davanti.

    I delfini, dal fondo, restarono a guardare ammutoliti. Vedevano le ombre dei marinai che armeggiavano freneticamente fuoribordo.

    Calavano in acqua degli strani oggetti galleggianti che scivolavano silenziosamente a distanze regolari. Erano boe gigantesche, quelle usate per la pesca d’altura.

    Alla prima fu agganciata il capo di un’enorme struttura reticolare e man mano che la corrente l’allontanava dallo scafo, altre ne seguirono a distanze regolari e tutte agganciavano l’enorme trappola che continuò a stendersi per molte leghe.

    «Quando è troppo, è troppo!» sbottò Tom guardandoli con occhi severi che mettevano in risalto la brutta cicatrice che aveva sul rostro.

    «È ora di agire, questo specchio d’acqua è nostro e non permetteremo loro di pescare. Dobbiamo riprenderci il nostro spazio!».

    Gli altri delfini sembravano impauriti, videro per la prima volta il vero volto di quel capo delfino che, quasi sempre taciturno, aveva vinto i giochi amorosi delle ultime stagioni.

    «Dobbiamo fare qualcosa altrimenti scompariremo tutti e con noi il mare e col mare la vita stessa».

    Il banco di delfini, ancora incredulo, gli si avvicinò per capire meglio cosa volesse significare.

    «A cosa ti riferisci Tom?» con una vocina flebile si fece strada tra il branco Ginger che non si era ancora ripresa.

    «Guardate in alto, vedete quella rete che stanno estendendo lungo tutto il braccio d’acqua? È una trappola lunghissima e quando sarà calata del tutto e tirata a dovere, prenderà in una sola calata tonnellate di pesce».

    «L’importante è non finirci dentro noi…» si udì dal fondo del gruppo.

    «È questo il problema! Prima o poi ci finiremo dentro anche noi!». Tom cercò di individuare chi avesse parlato, ma senza successo.

    «Non possiamo più fare finta di niente».

    Il banco dei delfini non riusciva a comprendere, anche perché aveva sempre vissuto con allegria e spensieratezza.

    «La questione è più seria di quanto la si possa immaginare. Pensate a quanti di questi pescherecci sono in questo momento sparsi per tutti i mari della terra. Ogni anno, con le loro dannate tecnologie e attrezzature sofisticate, prendono più pesci di quelli che si riproducono e stanno svuotando il mare. Noi stessi ultimamente facciamo fatica a trovare cibo e invece loro mangiano più di quello che necessitano».

    «Che vuoi dire? Che mangiano tantissimo anche se non hanno bisogno?».

    «Esattamente! Gli umani si dividono in due gruppi: quelli che non mangiano quasi mai e sono i più deboli, quelli dei paesi meno sviluppati, e quelli che si sentono padroni perché hanno mezzi più potenti, si ingozzano come squali, ognuno di loro mangia per dieci!».

    «Wow… è così innaturale…» disse qualcuno nel banco.

    «Infatti, non solo sprecano cibo inutilmente e si ammalano, ma aggravano tutto il sistema a danno dei meno abbienti. Consumano più di quello necessario per vivere e tutto questo comporta uno squilibrio nella catena alimentare e gli effetti devastanti arriveranno prestissimo».

    Tutti volsero lo sguardo alla superficie e nello specchio di acqua soprastante. Le chiazze tondeggianti luminose e traballanti a pelo d’acqua, che normalmente irradiavano i raggi del sole sugli abissi, erano adombrate dalla massa oscura e minacciosa della rete.

    L’intricata maglia da pesca, dalle trame grosse e fitte, si estendeva per oltre un miglio; era stata posta con precisone matematica di traverso alla direzione della corrente che da nord dirigeva verso la costa, la rotta preferita da molti pesci che, chiaramente, sarebbero stati intrappolati.

    Già si intravvedevano alcuni banchi di spigole che, per risparmiare energia, si erano abbandonati al flusso della corrente lasciandosi da essa piacevolmente cullare mentre li trascinava dritti nella trappola.

    La traiettoria era incontrovertibile e la sua velocità aumentava man mano che si avvicinava alla rete, come se fossero aspirati; il loro destino era ormai segnato.

    Improvvisamente Jejei, senza pensarci due volte, dà un colpo di pinna e si lancia verso la rete nuotando velocemente al di sotto delle spigole, le sorpassa, sale alla loro stessa quota, gli si mette davanti di pancia e con la coda fa segno di tornare indietro.

    «Cosa fa quel matto?» qualcuno clicca nel banco dei delfini senza farsi vedere. Ginger, con disappunto e senza chiedere agli altri, lo raggiuge e lo affianca e insieme muovendo velocemente la coda deviano la rotta delle migliaia di spigole che, terrorizzate dai due predatori, scendono verso il fondo, al sicuro, tra le alghe.

    Celatesi tra l’oscura vegetazione e guardinghe, si accorgono della trappola mortale sopra di esse e del pericolo che hanno appena scampato.

    Fanno una rotazione su loro stesse e con la loro migliore performance di geometrie concentriche, ringraziano i due delfini di aver salvato loro la vita.

    «Il limite di questa rete, come tutte le altre, è la profondità, ricordate! Più scendete a fondo, più eviterete la trappola!». Jejei si mise davanti al banco e facendogli segno di seguirlo, insegnò loro come evitarla.

    Le spigole si attorcigliarono tra di loro in una spirale vorticosa disegnando una colonna elicoidale di una perfezione mai vista. Con un balzo velocissimo scesero di quota e in tutta sicurezza continuarono il loro viaggio passando a debita distanza dalla rete mortale.

    «Grazie» disse Jejei a Ginger, timidamente.

    «Veramente, sono io a doverti ringraziare per quello che hai fatto prima».

    «Davvero, io non ho fatto nulla. Mi è venuto spontaneo soccorrerti... e comunque grazie per avermi aiutato con le spigole».

    «Era mio dovere intervenire. Vedere tutti gli altri indifferenti mi ha infastidito. E poi, è un problema di tutti noi esseri marini. Il mare è di tutti, anche nostro, e come ha detto Tom, lo stanno distruggendo».

    «Forse non hanno ancora compreso il pericolo». Jejei cercava di giustificare gli altri delfini. Era sorpreso della forza e della determinazione che si avvertiva in Ginger.

    «La pensi esattamente come me! Possiamo fare ancora qualcosa» aggiunse.

    «Cosa?» pensò Ginger guardandolo incuriosita. «Quando i giovani e inesperti delfini dicono così, è pericoloso!».

    «Perché?» rispose Jejei. «Possiamo smontare quella rete e mandarla a fondo!».

    «Ma

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