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Ch’ a ‘t vègna ‘n canchêr!
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Ch’ a ‘t vègna ‘n canchêr!
E-book145 pagine1 ora

Ch’ a ‘t vègna ‘n canchêr!

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Info su questo ebook

L'autore, velista e psichiatra, vuota il sacco rispetto alle sue esperienze personali, non quelle professionali, ma rispetto alle sue due malattie più gravi, il cancro e la schizofrenia, di cui dichiara di soffrire da sempre.

Ripresenta il suo libro di 33 anni fa che portava il titolo di "ENIGMA CANCRO".

Il titolo attuale, "CH' A T' VE'GNA 'N CANCHÊR", è forse dissacrante, ma ora i tempi son maturi e si può finalmente abbandonare infingimenti e falsi pudori.

La lotta per la vita comporta l'accettazione di ogni forma di malcelata maledizione, che un ostile e competitivo ambiente di lavoro ti può riservate, ma che l'utilizzo del lessico dialettale reggiano aiuta a superare brillantemente ed allegramente.
LinguaItaliano
Data di uscita6 feb 2024
ISBN9791221460490
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    Anteprima del libro

    Ch’ a ‘t vègna ‘n canchêr! - Anacleto Realdon

    PREFAZIONE

    Chi è abituato a curare gli altri ha enormi difficoltà ad accettare il ruolo di paziente.

    Lo psichiatra Anacleto Realdon fa eccezione. Fin dall’inizio della malattia che lo ha colpito, decide di subire gli eventi quasi con distaccata indifferenza (e diffidenza) abbandonandosi completamente e passivamente a chi si era appropriato del suo corpo medici, amici, e parenti. È la sua fortuna. Sottoponendosi ordinatamente alle cure (anche se con qualche comprensibile ribellione psicologica) riesce a completare il piano di trattamento ottenendo il massimo dei risultati: la regressione della malattia, il cardine della guarigione definitiva.

    Sono eccezionali i casi di medici che raccontano per iscritto la storia delle proprie vicende cliniche, le impressioni di un ricovero ospedaliero, il loro punto di vista quando si trovano dall’altra parte.

    Ed ecco il particolare interesse del racconto del collega. Soprattutto perché la diagnosi fu di tumore, una diagnosi che ancora ai nostri giorni viene (purtroppo) sovente taciuta anche quando esistono considerevoli possibilità di guarigione. Di fronte alla malattia cancro, troppi clinici non sanno ancora trovare le parole adatte per comunicare con il paziente, usando tatto, franchezza e semplicità. Ed è noto che il paziente poco informato rimane con le sue paure e combatte meno efficacemente al fianco dei sanitari impegnati nella complessa strategia diagnostico-terapeutica.

    Utilizzando uno stile letterario molto scorrevole, il collega Anacleto traccia con molta umanità un quadro vivace della sua personale esperienza oncologica. Il suo messaggio è per tutti. Ricorda a noi medici le difficoltà reali in cui si dibattono gli ammalati affetti da una malattia importante, il loro bisogno di conforto quotidiano anche quando la tecnologia moderna riesce ad avere successo, il bisogno di sentire da vicino l’antica tradizionale alleanza tra medico e paziente.

    Gli siamo profondamente grati e debitori per questa testimonianza.

    Dott. Gianni Bonadonna

    Già Direttore Divisione di Oncologia Medica

    Istituto Nazionale Tumori Milano

    SEI ZERO, SEI UNO

    Un punteggio tennistico inequivocabile.

    Così avevo liquidato in quel pomeriggio di maggio il mio partner abituale, giovane e brillante collega ginecologo.

    All’apice di tale smagliante forma atletica, testimoniata sul campo, dovetti piegarmi ai voleri di mia moglie che si ostinava a volermi ammalato, perché da circa un mese infastidivo tutta la famiglia con una tossetta stizzosa. Dovevo assolutamente recarmi da un medico per la pace familiare.

    È nota la ritrosia dei medici nel curare sé stessi, quasi che pensino d’essere immuni dalle malattie, ma in effetti – a parte quella tossetta – erano giorni in cui mi sentivo veramente bene, come in rare altre occasioni, quasi in uno stato di grazia. Conducevo un’intensa vita lavorativa densa di incarichi ed impegni professionali, ma riuscivo a riservarmi ampi spazi di tempo libero, dedicati soprattutto ad attività sportive. E non solo a quelle.

    Al colmo della felicità, da un mese circa, avevo persino riacquistato senza fatica il peso forma dei miei vent’anni: alla faccia delle inutili rinunce gastronomiche e degli immondi beveraggi dietetici, più volte tentati senza successo.

    Solo chi ha superato i fatidici anta sa cosa rappresenta il raggiungimento di tale meta estetico-salutistica per l’equilibrio psicofisico di una persona di mezza età.

    Ciononostante, accontentai mia moglie: mi recai, solo per una visita di cortesia s’intende, dal comune amico medico internista, al quale sottoposi, tra il serio ed il faceto, tre ipotesi autodiagnostiche: asma bronchiale, asma cardiaco e, da bravo psichiatra, asma psicosomatico, che forse bastava a spiegare tutto. Il verdetto della visita medica fu per un leggero screzio di bronchite asmatica, ma, nel congedarmi, il collega mi fece un invito che si rivelò fatale: Proprio per accontentare la Vittoria fai una radiografia del torace.

    Non l’avesse mai detto!

    Una banale Rx del torace ha segnato il mio ingresso tumultuoso e precipitoso in un mondo cui mai avrei pensato di dover appartenere: quello popolato dai malati di cancro!

    Il dato evidenziato al diafanoscopio, quello schermo illuminato con il quale si esaminano in trasparenza le lastre radiografiche, era incontestabile: Voluminosa massa mediastinica.

    Grossa come un melone aggiungeva con un ghigno forzato l’amico radiologo, alludendo all’incauta esperienza politica della moglie che qualche tempo prima aveva accettato una candidatura per una lista civica che aveva come simbolo questo frutto; ma non aveva molta voglia di scherzare e nemmeno io, ovviamente.

    Rimasi infatti impietrito di fronte a quella lastra, sapendo già da me (anche se, come psichiatra, avevo per così dire abiurato la medicina da circa vent’anni) che tale reperto si prestava alle ipotesi più catastrofiche; ma nello stesso tempo provavo una freddezza ed una tranquillità che non riesco oggi ancora a spiegarmi.

    Associai subito tale mia esperienza a quella di mio suocero, deceduto qualche anno prima per tumore polmonare, il quale, pur essendo anche lui medico, ma medico vero, con una quarantennale esperienza di buon medico di famiglia, quando veniva ripetutamente messo di fronte alla sua lastra Rx, si lasciava convincere (e voleva convincere anche i radiologi) che quella patacca che faceva bella mostra di sé sul polmone, non era nient’altro che una banale pleurite.

    No, io non avrei mai negato l’evidenza!

    Ero compiaciuto di me stesso, perché avevo d’istinto accettato la realtà più dura, senza fughe nell’immaginario o nell’inconscio.

    Chi invece ad un primo esame della radiografia si mise subito in agitazione fu lo stesso radiologo: intreccio di telefonate per ottenere, con la massima urgenza, l’esecuzione di una TAC; rinvio al medico internista per urgenti esami ematici e via dicendo.

    Tralascio l’elenco di tutti gli altri esami laboratoristici e strumentali cui dovetti sottopormi a tamburo battente, una volta entrato in quell’infernale ingranaggio.

    Devo dire che ho iniziato a subirli quasi con distaccata indifferenza (e diffidenza), abbandonandomi completamente e passivamente a chi s’era appropriato del mio corpo: medici, amici e parenti.

    La mia prima ed unica iniziativa personale fu quella di recarmi subito presso un’agenzia assicurativa e tentare di firmare – seduta stante – una sostanziosa Polizza Vita, dal premio più alto che si potesse sottoscrivere senza una visita medica, a favore del coniuge o degli eredi: dovetti rinunciare per non mentire sull’esistenza della radiografia eseguita qualche ora prima.

    Onestamente, però, devo ammettere che a tale fulminea iniziativa non so se sia stato sospinto più dal senso di responsabilità di capo famiglia verso i miei cari, quanto magari da un innato diabolico impulso a fregare finalmente gli assicuratori, i quali da decenni mi ronzavano intorno, succhiando avidamente i miei soldi con la promessa di una tutela dai più improbabili e strampalati eventi catastrofici.

    LA DIAGNOSI

    Gli eventi sembravano precipitare già nella prima settimana.

    Di giorno in giorno la bestia che ormai sapevo esserci e che sentivo in gola, sembrava dovesse prendere il sopravvento: avevo iniziato a conviverci ed a tentare di sopravviverci.

    Sapere di avere, al tuo interno, un corpo estraneo, che vive di vita propria ed autonoma nel tuo corpo, che si nutre del tuo sangue e che si espande ora dopo ora a spese dei tuoi organi vitali, è una consapevolezza terribile, capace di fare rapidamente giustizia della freddezza e quasi baldanza che avevo ostentato nei primi giorni dalla scoperta.

    Sarà la forza dell’autosuggestione, ma è certo che solo dopo aver visto e rivisto le mie radiografie, ed ancor più dopo aver visualizzato l’esito della TAC, sono iniziati i primi disturbi, rivelatisi subito drammatici: Dispnea e disfagia ingravescente, come sentenziavano i miei vecchi libri da studente di medicina, che subito mi sono precipitato a consultare avidamente.

    E così fu: ho iniziato a sentire subito fisicamente (e psichicamente), quello che radiografie e TAC evidenziavano come una vistosa compressione sia della trachea che dell’esofago.

    Era una precisa ed angosciante sensazione di avere quasi tappati ambedue questi tubi vitali per la sopravvivenza, quello respiratorio e quello alimentare, proprio vicino alla loro apertura superiore.

    Mi vedevo già morto soffocato.

    Avevo seguito, qualche anno addietro, un corso di addestramento per immersione subacquea; da allora menavo vanto delle mie doti di apneista, che mettevo a buon profitto, per esempio, quando si trattava di immergersi sott’acqua per disincagliare l’ancora della barca: ma vi assicuro che un conto è mantenersi in un’apnea volontaria anche per due, tre minuti, un conto esservi costretti anche per pochi secondi, perché l’aria non ti entra in gola.

    Non passa l’aria (dispnea), ma non vi entra nemmeno il cibo (disfagia), il quale per di più, trovando ostruita la via naturale dell’esofago, può cercarne un’altra prospiciente: quella appunto della trachea. Va a finire insomma che ci si soffoca mangiando.

    Ironia della sorte, era quanto accaduto pochi giorni prima – per ben altre cause – nel mio manicomio a carico di un povero frenastenico. È classicamente, questo, un incidente banale, ma il più delle volte mortale, descritto frequentemente nei vecchi manicomi.

    Ora, per chi non lo avesse ancora capito, io sono uno degli ultimi direttori di manicomio sopravvissuti in Italia.

    Fare la stessa fine di un mio vecchio ricoverato! C’era una logica perversa, quasi una nemesi storica: Ed il cerchio si chiude! commenterebbe un gruppo di noti comici.

    Devono essere state queste ed altre considerazioni, ancor meno allegre, che in sostanza mi hanno aperto subito le porte del reparto di rianimazione, dopo la prima (e credetti anche la definitiva) crisi asfittica: naturalmente s’è distinta per tutta la sua drammaticità, ma anche per la sua teatralità.

    Fame d’aria improvvisa, nel bel mezzo di un incubo notturno, chiamate concitate all’ospedale, trasporto a sirene spiegate allo stesso, nel bel mentre tiravo gli ultimi (respiri): curioso che si chiami "tirage", anche in termine clinico, quell’affannosa e rumorosa ricerca dell’ultima aria disponibile.

    Ma non fu un vero dramma: la mia crisi respiratoria si risolse (come spesso vediamo accadere d’incanto noi medici, anche per altre patologie) dopo aver varcato, in semi-incoscienza, la soglia dell’ospedale. Fu invece vero teatro, nel senso che tale episodio mi mise in piazza!

    Un primario, e per giunta direttore di manicomio, non poteva passare inosservato, entrando in quella maniera, seppure con il favore delle tenebre, in un pronto soccorso di un piccolo ospedale di una piccola città e, soprattutto, uscendone precipitosamente la mattina dopo, così come ne sono uscito: imbarellato nella più attrezzata, nuova, fiammante autoambulanza di cui si disponesse, appeso ad una

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