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Microcosmi: Saggi brevi su economia, società e territorio
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E-book224 pagine3 ore

Microcosmi: Saggi brevi su economia, società e territorio

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Una raccolta di saggi brevi sulle dinamiche sociali, antropologiche ed economiche dello sviluppo territoriale. Dagli scenari internazionali ai distretti produttivi locali. Gli editoriali e i commenti scritti negli anni più recenti da Aldo Bonomi per “Il Sole 24 Ore”, nella rubrica Microcosmi, sono qui organizzati in percorsi tematici che mettono in luce il contributo di uno dei sociologi più eminenti del nostro paese alla riflessione sul mondo produttivo e le relazioni con i territori e la società circostante. Un lavoro di ricerca portato avanti negli anni nel tentativo mai interrotto di “continuare a cercare per continuare a capire”, attraverso una scrittura nitida che rivela un pensiero lucido e una visione alta e chiara delle dinamiche sociali.

Si tratta di un ulteriore passo avanti della ricerca socioeconomica sul territorio come base di conoscenza per continuare a capire le nostre realtà territoriali. Possiamo tirare le somme del nostro modo di lavorare e avanzare l’ipotesi che nella trasformazione italiana di questi decenni abbiamo visto in opera un processo complesso di “divenire” più che un più ordinato e quasi programmato processo di sviluppo.

dall’introduzione di Giuseppe De Rita

LinguaItaliano
Data di uscita26 apr 2024
ISBN9791254843130
Microcosmi: Saggi brevi su economia, società e territorio

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    Anteprima del libro

    Microcosmi - Aldo Bonomi

    Premessa

    di Fabio Tamburini

    Coesione

    L’Italia, si sa, è ben conosciuta per essere il Paese dei mille campanili. E continua a essere così, perché è una caratteristica scolpita nel suo dna e soprattutto nel dna degli italiani. È certamente un punto di forza in quanto garantisce una miscela positiva di comportamenti, tendenze, capacità. Ma è anche un punto di debolezza perché significa frammentazione e divisioni, spesso laceranti. Di sicuro riduce la portata di una identità nazionale che sarebbe preziosa per contribuire con maggior peso alle scelte di una Europa vaso di coccio nella grande sfida tra Stati Uniti e Cina.

    La scelta più virtuosa è trovare denominatori comuni, dare la spinta necessaria a una visione unitaria del Paese. Unica possibilità per una Italia in grado di farsi rispettare e portatrice di saggezza in un mondo che ha perso la bussola, messo sottosopra da 60 guerre, di cui una in Europa (l’Ucraina) e l’altra a un tiro di schioppo (in Palestina). Questo passa per la crescita, prima di tutto economica, del Mezzogiorno. Ma anche per il contrasto alla desertificazione di larga parte dei territori, tendenza comune all’intero Paese.

    L’ultimo libro di Aldo Bonomi, sociologo che può mettersi la medaglietta di antesignano dell’analisi dei microcosmi che compongono l’Italia, è un contributo importante per capire quanto sta accadendo, passaggio preliminare indispensabile per intervenire in modo adeguato prima che sia troppo tardi. Il rischio è evidente: la dispersione di un patrimonio di risorse umane e beni economici sedimentato nei secoli e che è un errore grave non salvaguardare.

    È l’Italia dei piccoli comuni in via di abbandono, e non è una decrescita felice. Per la verità c’è un aspetto positivo: la crescita dei terreni che diventano boschi e perfino foreste. Ma per il resto il problema è sempre più grave e non va sottovalutato. Il Bel Paese è tale per la ricchezza dei contenuti, per la bellezza dei territori, per la qualità della vita. La tendenza di segno opposto, quella che sta dilagando, come documenta il libro di Bonomi, è la desertificazione di larga parte dei territori marginali, un problema vero e che non va sottovalutato.

    La risposta a cui lavorare, possibilmente in tempi brevi, è come ridare logiche di sviluppo economico e sociale ad aree sempre più marginalizzate. In alcuni casi ci sono esperienze significative, di cui si può immaginare una replica. Sono la declinazione virtuosa dei distretti, che uniscono le forze in funzione di un’attività produttiva di successo sul territorio, che finisce per caratterizzarlo. Il valore a cui fare riferimento è la coesione, che genera obiettivi comuni e nuove spinte al rilancio e alla crescita.

    È una Italia tutta da immaginare e costruire, ma che potrebbe risultare una carta vincente vera, decisiva per il Paese. Certo ne trarrebbero giovamento le aree spopolate o in via di spopolamento. Ma non solo. Non può esserci un futuro positivo perfino nelle aree più forti, come per esempio la Lombardia, se manca la capacità di lavorare a nuove prospettive e a nuovi orizzonti. Nel nome della salvaguardia di valori relazionali di base e della ricchezza di terre che è un peccato lasciare al loro destino.

    Prefazione

    di Giuseppe De Rita

    L’ultimo miglio

    Quando nei primi anni ’70 noi del Censis scoprimmo che in Italia esistevano un’economia sommersa ed un localismo economico, non ricevemmo un immediato e spontaneo applauso. La dialettica sociopolitica di quegli anni pascolava altrove: nelle tensioni sociali del post ’68 e dell’autunno caldo; nelle confusioni iniziali del terrorismo politico; nella fragilità italiana verso l’arrivo della globalizzazione; nelle sofferenze delle nostre grandi imprese; nella tentazione della finanza internazionale a disinvestire in Italia; arrivando al culmine di un governatore di Bankitalia che chiedeva al governo di non far attaccare petroliere nei porti italiani (perché non c’erano risorse per pagare il petrolio). È comprensibile quindi che non si avesse attenzione a quello che di vitale avveniva nella cosiddetta periferia, anche se qualcuno faceva notare che l’avanzo attivo di due localismi molto sommersi (Prato e Sassuolo) era più alto del bilancio passivo di tutta l’industria manifatturiera del Paese. Quei localismi (Prato, Valenza Po, San Miniato, Fermo, Parma, Carpi, ecc.) sembravano ininfluenti, certo non presenti, al preoccupato dibattito sul nostro futuro economico. Al punto che Gerardo Chiaromonte il più lucido degli intellettuali comunisti del periodo, volle dedicare una paginata ironica alle mie convinzioni di allora – «De Rita si dà al folklore economico» –, anche se in seguito ci capimmo e dialogammo con grande cordialità.

    Mi domando oggi, leggendo le pagine che seguono, cosa direbbero i commentatori di cinquant’anni fa a Bonomi che li chiama a interessarsi alle vicende non più di città intermedie e di storia civile (da Prato a Fermo) ma a luoghi più remoti, addirittura a comuni polvere come Cerignale, Montappone, Novellara, Castigliano, Castel San Giovanni, Tavazzano e via dicendo. Qualcuno di essi reagirà dicendo che si tratta solo dell’aggravamento ulteriore di quel darsi al folklore che già negli anni ’70 era considerato una pericolosa botta di devianza culturale.

    Ed invece si tratta di un ulteriore passo avanti della ricerca socioeconomica sul territorio come base di conoscenza. Non è pura difesa di chi, come alcuni di noi (Bonomi, Rullani, Becattini, Bagnasco, Borgomeo e me stesso), ha dedicato il proprio lavoro ad andare sempre più in profondità per continuare a capire le nostre tante realtà territoriali.

    La moltiplicazione dei territori di cui tener conto non è stata, infatti, un processo di nostro sperdimento nel localismo più remoto; ma è stato il segreto annuncio che la società italiana è sempre più una realtà di mondi locali, dove abita un radicale primato del micro: dalle microaziende ai microcomportamenti, dai microsoggetti sociali ed istituzionali alla microcoesione; cioè, di tutto quello che negli anni abbiamo chiamato sviluppo molecolare. E per chi (come Bonomi e me) ha creduto nella struttura molecolare della nostra società, forse sta arrivando il momento in cui possiamo tirare le somme del nostro modo di lavorare; ed avanzare l’ipotesi che nella trasformazione italiana di questi decenni abbiamo visto in opera un processo complesso di divenire, più che un più ordinato e quasi programmato processo di sviluppo.

    Non ci impalchiamo a tentare la sintesi teorica, ma la curiosità per un’evoluzione sociale spontanea ed autopropulsiva è tentazione forte. La cosa però non sta nelle nostre corde e lasciamo volentieri l’argomento a Massimo Cacciari, nostro frequente sodale di ricerca, che già nel suo splendido Il lavoro dello spirito pone le basi per un lavoro teorico impegnativo. A noi rimane non la metafora concreta su quello che sta avvenendo, ma il lavoro dappertutto e rasoterra che contraddistingue da decenni la parabola professionale e culturale del nostro lavoro, anche prima e dopo quella stagione dei patti territoriali del Cnel in cui insieme più che programmare sviluppo facemmo accompagnamento di popoli e luoghi in divenire.

    Con questo spirito va allora guardato l’ampliamento del lavoro di ricerca compiuto sui microcosmi visti in questo libro di Bonomi. La prima constatazione è che, come si è detto, è in atto una moltiplicazione dei territori. Noi dagli anni ’70 sottolineammo la forza di alcuni localismi economici ed il loro consolidarsi in distretti, e buona parte dello sviluppo degli ultimi decenni ha visto il protagonismo dei distretti e la loro moltiplicazione. Che però non è stata fine a se stessa: buona parte dei distretti ha avuto infatti l’intelligenza di non chiudersi ai flussi di innovazione (tecnologica, finanziaria, logistica) che sgocciolavano dall’alto e che avrebbero potuto sbriciolare la dimensione locale; essi hanno invece lentamente attuato meccanismi di ulteriore trasformazione. Basta pensare a quanto sia stata recepita nei luoghi dello sviluppo la logica e la prassi della filiera che si è ben legata alle dinamiche dei distretti, specie di quelli a forte caratterizzazione settoriale, recuperando e valorizzando anche le realtà di margine (i comuni polvere e i saperi artigiani).

    Ma era logico che distretti e filiere dovessero trovare un assetto (e una denominazione culturale) più complessa ed articolata; e Bonomi arriva così al concetto ed alle politiche di piattaforma, un tema forse oggi troppo abusato visto che l’usiamo in tante e diverse occasioni; ma, al di là delle mode, la piattaforma sta diventando anch’essa un concetto a forte carica di territorio e di localismo.

    Basta verificare come le piattaforme siano in fondo la base delle filiere; siano il luogo di valorizzazione dei margini (i piccoli comuni, i saperi artigiani, le imprese di servizi, gli articolati spazi della gestione del welfare); siano lo spazio in cui includere anche le dinamiche della città (non più in orgogliosa autoreferenza); siano il modo in cui rimettere in circuito l’esercizio di zonizzazione (non più quello osso/polpa di Rossi Doria, ma quello legato alle zone rosse e gialle della pandemia); e siano in fondo anche il luogo in cui si ricostruisce – su basi nuove e moderne – il necessario lavoro di intermediazione, dopo la pericolosa decennale vocazione alla disintermediazione.

    C’è, tuttavia, qualcosa di più e di potente nella crescente dinamica vitalità delle piattaforme: da un lato la crescente rilevanza dei meccanismi di giuntura; dall’altro la crescente importanza dell’ultimo miglio. La piattaforma, infatti, non è un luogo fisso, ma un sistema di relazioni, dove vige l’intelligenza e il potere di soggetti sempre complessi.

    Il metterli insieme e farli funzionare unitamente diventa arduo perché occorre coltivare le giunture fra di essi, siano soggetti mondiali o localistici, economici o di protezione sociale, digitali o di civica convivenza. Senza il complesso giuoco delle giunture fra tali soggetti non esistono piattaforme, quale che sia l’enfatico titolo cui esse aspirano. E la professione di ricercatore/accompagnatore che Bonomi esercita non avrebbe una realistica base di responsabilità; perché è il lavoro di capire, curare, gestire le giunture che sta diventando il fuoco di concentrazione della funzione delle piattaforme.

    Ma ancor più centrale è il nodo delicato di ogni piattaforma: il problema dell’ultimo miglio. Ogni piattaforma può essere oggi alimentata e gestita al meglio, tanto che si è anche creata l’illusione che possa bastare a se stessa, nel suo sistemico esistere. Ma non c’è piattaforma che possa fare a meno di un atterraggio sul territorio: vale per la grande piattaforma di Amazon che deve far arrivare fin dentro casa i prodotti di e-commerce; vale per le più o meno programmate piattaforme alimentari che devono usufruire delle tante forme di food-delivery; vale per le piattaforme di fronteggiamento delle pandemie, che alla fine stringono su una farmacia o un infermiere per fare il singolo tampone o le singole vaccinazioni; vale per le piattaforme gestite dal mitico algoritmo che hanno bisogno anche e specialmente di coloro che magari da freelance gestiscono i canali remoti dei flussi generati dalle macchine. E lucidamente Bonomi scrive che «l’algoritmo si divide fra chi ce l’ha e quelli cui dà il ritmo». Con una conseguenza visibile un po’ ovunque: un mercato del lavoro in movimento sia in alto, con i creativi, sia in basso, con chi fa le consegne nell’ultimo miglio.

    Questa complessa dinamica delle piattaforme su cui si basa la vita economica del Paese porta in evidenza un vecchio pallino di Bonomi e mio: il primato delle comunità locali dove si svolge l’ultimo miglio e il conseguente bisogno di gestire e sviluppare la coesione sociale dentro tali comunità. Dice giustamente Bonomi che non c’è transizione socioeconomica, anche la più ricca di intenti, senza che ci sia una coesione sociale comunitaria.

    Potrebbe essere un’affermazione legata alla storia di chi ha fatto per professione ricerca e coesione sociale, quasi un tornare su processi da anni ’50 e ’60. Ed invece queste pagine sono la testimonianza che tutto lo sviluppo moderno, con la sua iperindustrializzazione, non riduce il peso della realtà sociale: della tradizione costantemente rivissuta come della vitalità del lavoro artigiano; dell’esigenza di coesione comunitaria come del farsi della stessa coscienza di luogo. È il costante valore dell’internalità in un mondo forse troppo esternalizzato.

    E Bonomi può così riprendere con spirito antico e nuovo il tema comunitario, un tema di gran moda nella crescita della cultura sociale italiana, anche oltre il fascino del pensiero di Adriano Olivetti e dei tanti che hanno seguito quel tipo di impegno (da Danilo Dolci a Manlio Rossi-Doria). Ma in questa lettura per microcosmi di Bonomi il riaffacciarsi delle ipotesi comunitarie è meno politicamene intenzionale che nel passato, perché si lega con tutta la tematica della mediazione di luoghi e flussi e con il potente sovrapporsi delle reti e delle piattaforme. Così il lettore dei microcosmi, da buon conoscitore del capitalismo del territorio, deve abbandonare l’idea della comunità come strumento di coagulo e di azione di uno sviluppo programmato e deve fare i conti con una realtà locale molto poco olivettiana. Una realtà dove si affollano tanti e diversi soggetti che si interfacciano quotidianamente; dove è necessario decifrare e governare il modo in cui sul territorio si formano le ragnatele del valore; dove vince una microgeografia di fili d’erba spesso invisibili; dove si moltiplicano gli interessi ed i soggetti ultimi e penultimi; dove resta alto il numero ed il peso delle microimprese e del lavoro individuale, magari operanti nel sommerso; dove sono importanti i tanti soggetti dipendenti da decisioni prese dall’alto, magari con l’algoritmo; dove è spesso essenziale quella artigianalità professionale che circola anche al di là del blocco sociale costituito dall’artigianato; dove diventa importante la dinamica espressa dal mondo della cooperazione, del terzo settore, del volontariato; dove è decisiva la presenza e il ruolo degli operatori locali del welfare; dove in ultima analisi diventa chiara la presenza e il peso del capitale sociale accumulato sul territorio. Il mondo dell’ultimo miglio (usiamo per comodità questo termine) si presenta davvero come un cosmo vitale.

    Viene in proposito la tentazione di capire quanto questa realtà modifichi la nostra composizione sociale, la sempre citata nostra struttura di classe. È l’aspetto che meno mi attira in questa lunga carrellata di bonomiani microcosmi. Nelle dinamiche di territorio e nelle sue straordinarie invenzioni degli ultimi trent’anni (distretti, filiere, piattaforme, ultimo miglio, ecc.); è compito arduo studiare come in esse si sono rivelate o condensate direttrici di articolazione sociale. Si rischia anzi di cadere nelle facili diatribe su ultimi, penultimi, precari e invisibili, più o meno prigionieri in quelle ormai condensate tematiche su squilibri e diseguaglianze; che ogni giorno di più si dimostrano incapaci di andare da qualche parte. Per fortuna Bonomi si astiene da un tale esercizio, resta con i piedi per terra, resta cioè sul quel binomio capitalismo molecolare-capitalismo dei territori cui è fedele da anni e che si presenta la sola base per approfondire l’assetto del mondo del lavoro.

    Ci sarà tempo per riprendere il discorso, magari ripartendo dalla coscienza comune, di Bonomi e mia, di quanto sia stato parallelo negli anni ’70 lo sviluppo del capitalismo molecolare e di territorio da un lato e dall’altro il grande processo di cetomedizzazione. Se non ho capito male, Bonomi non rifugge dall’idea che la grande evoluzione dei suoi microcosmi (con tutta la sua carica di società di sabbia) possa essere uno spazio di uscita in avanti del processo di cetomedizzazione, solo che si pensi al potenziale spazio per nuovi modi e strumenti di mediazione; di gestione culturale della prossimità; di sviluppo di quel terziario riflessivo sempre necessario nei grandi processi di territorio.

    Ci torneremo sopra, allora. Come è stato ed è nella fedeltà che per decenni Bonomi ed io abbiamo coltivato verso il continuo evolversi dalle componenti territoriali della realtà italiana. Sulla quale torno a ripetere che siamo stati e siamo non solo esperti e politici dello sviluppo, ma partecipi accompagnatori del divenire sociale.

    Introduzione

    Il libro che avete in mano propone un itinerario territoriale che restituisce tracce e rappresentazioni della lunga metamorfosi del Paese nelle accelerazioni del presente indotte dai processi di modernizzazione che impattano sulle lunghe derive della storia. L’insieme di questa selezione di microcosmi offre un racconto sociale, di una sociologia non convenzionale fatta con i piedi di chi calca il territorio quotidianamente da oltre un quarantennio, per professione e per passione. Il Sole 24 Ore ospita la rubrica Microcosmi da ormai vent’anni, dal 2005, quando fui chiamato a collaborare al giornale da Ferruccio De Bortoli, allora appena giunto alla sua direzione. Sin da allora avevo maturato uno schema interpretativo del cambiamento nel salto di secolo di un Paese in uscita dal fordismo novecentesco, imperniato sulla dialettica tra capitale e lavoro, con lo Stato in funzione redistributiva, verso assetti imperniati su un nuovo paradigma della dinamica economica, sociale e culturale, basato sulla dialettica tra flussi e luoghi. In questo senso il filo rosso dei microcosmi è costituito dalle specifiche forme che va assumendo nei territori la relazione tra lo spazio dei flussi, da una parte, e le società locali, i luoghi appunto, dall’altra. Con i primi s’intendono i network integrati su scala planetaria che interessano la finanza, le imprese transnazionali, le agenzie di consulenza globale, la digitalizzazione, che ha nel web e nelle piattaforme digitali l’ambiente di riferimento, la logistica e i trasporti per la circolazione di merci e persone, le reti dell’energia alla base dell’economia circolare, ma anche motore di una nuova geopolitica, le migrazioni, con le sue ricadute antropologiche, le paure e le speranze sociali, sino alla pandemia e alle guerre vicine e lontane, che in tempi recenti hanno indotto alla logica dei flussi una curvatura drammatica verso scenari complessi quanto cupi. Ed esistono poi i luoghi, che non sono spazi eterotopici, bensì – per riprendere un’espressione di Saskia Sassen – non sono solo localizzazioni del globale, ovvero territorializzazione dei flussi, ma piuttosto un mix creativo tra simultaneità dei flussi e culture locali di prossimità. Le reti globali ridefiniscono le coordinate spazio-temporali dello sviluppo a livello territoriale determinando una geografia mobile, mutevole e ubiquitaria delle dinamiche centro-periferia. L’identità territoriale è il processo dinamico che scaturisce incessantemente da questa continua dialettica tra flussi e luoghi, non essendo mai l’identità, è bene tenerlo a mente, un prodotto definito una volta per tutte, ma appunto un processo in fieri. I fattori identitari che permangono nel tempo non sono infatti quelli

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