La Calabria che non si arrende. Storie speciali di persone normali
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Per questo le loro storie meritano di essere raccontate, ed è questa la Calabria che ci piace raccontare. Una Calabria che non s’arrende, impegnata a cambiare in meglio la società. Le loro storie parlano della realizzazione di un’accoglienza vera e non finalizzata alla speculazione; di una politica pulita mossa da nobili e generose idealità; di una Chiesa impegnata contro le ingiustizie che ha come riferimenti il vangelo e la Costituzione; di un’economia solidale attenta ai diritti e non al profitto; di una scuola che sollecita gli studenti al sapere critico; di una legalità fatta di persone che dicono no alla ’ndrangheta e non hanno paura di denunciare e testimoniare in tribunale.
Leggendo queste storie s’incontra una Calabria che sfata il luogo comune che è soltanto ’ndrangheta. Non è così. La Calabria è tante altre cose positive, solo che non sono sufficientemente conosciute.
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Anteprima del libro
La Calabria che non si arrende. Storie speciali di persone normali - Umberto Ursetta
Sommario
Prefazione
Premessa
1. Accoglienza
L’utopia della normalità
Il sindaco arbereshe
Modello Drosi
2. Ultimi tra gli ultimi
Medici senza frontiere
Emergency
Medici per i Diritti Umani
Nulla è cambiato
3. Etica e antimafia
Goel
SOS Rosarno
4. Chiesa e ’ndrangheta
Don Pino Demasi
Don Giacomo Panizza
5. Buoni sindaci
Rosarno
Gioiosa Ionica
Rizziconi
Cinquefrondi
6. A schiena dritta
Antonino De Masi
Gaetano Saffioti
7. Donne in rivolta
Lo faccio per i miei figli
Vestita di bianco
8. La mafia teme la scuola
La scuola dei libri
Per riflettere
Bibliografia
collana
Mafie
diretta da Antonio Nicaso
24
UMBERTO URSETTA
La Calabria
che non si arrende
Storie speciali di persone normali
Prefazione di Piero Bevilacqua
Proprietà letteraria riservata
© by Pellegrini Editore - Cosenza - Italy
Stampato in Italia nel mese di giugno 2019 per conto di Pellegrini Editore
Via Camposano, 41 - 87100 Cosenza
Tel. (0984) 795065 - Fax (0984) 792672
Siti internet: www.pellegrinieditore.it
E-mail: info@pellegrinieditore.it
I diritti di traduzione, memorizzazione elettronica, riproduzione e adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi.
Prefazione
Mi è spesso capitato di riflettere, specie quando mi sono occupato dei problemi del nostro Sud, sugli effetti che sull’immaginario collettivo, sull’opinione pubblica nazionale, ha la rappresentazione sociale da parte degli analisti. Chi prende in esame le realtà materiali del nostro tempo con attitudine critica, per non dire con la volontà politica di contribuire alla loro modificazione, non può non mettere in luce le vaste zone d’ombra, la corruzione, il degrado civile, le trame criminali che spesso le marchiano e le condizionano. Tuttavia, questa doverosa pratica, frutto di un necessario e lodevole atteggiamento non conformistico del ricercatore sociale, o del semplice osservatore occasionale, può avere effetti indesiderati, anche controproducenti rispetto ai fini che la ispirano. Essa ha come esito indiretto una rappresentazione della società, interamente segnata, spesso uniformemente contraddistinta, dai guasti e dai problemi più gravi che essa si trascina. Con il risultato che le questioni particolari, le fragilità, ancorché gravi e diffuse, finiscono con l’assorbire interamente l’immagine di una intera comunità, creando l’effetto scoraggiante di una immodificabilità storica della realtà presente. Da decenni, com’è noto, tale problema riguarda l’analisi e la rappresentazione del nostro Mezzogiorno, soprattutto in ragione della presenza endemica nel suo territorio di forme di criminalità che hanno una durata ormai secolare. È stata ed è tuttora la rappresentazione di questo fenomeno nelle sue varie articolazioni regionali – cui una popolare serie televisiva ha dato il marchio indelebile della piovra – a creare nell’opinione pubblica meridionale e nazionale l’idea di un Sud totalitariamente sottomesso alle trame oscure di una criminalità pervasiva e onnipotente. Una raffigurazione unilaterale e sbagliata che ha gravemente danneggiato e continua a rendere svantaggiate le economie, la vita nel suo complesso delle nostre regioni.
Eppure una considerazione basilare sarebbe sufficiente, se non a rovesciare, certamente a rendere infondata questa immagine di una società civile interamente controllata dalle varie mafie insediate nei nostri territori. La criminalità, anche quella organizzata, è un fenomeno sociale necessariamente minoritario. Lo è per necessità. La sua operatività clandestina, al riparo dal controllo della legge – siamo pur sempre uno stato di diritto – la costringe, per ragioni di sicurezza, a non ampliare i propri ranghi, a rimanere in dimensioni di cellula che opera in forme sotterranee e celate. Certamente, queste cellule hanno una straordinaria capacità di penetrazione e di infiltrazione nel mondo degli affari e nelle istituzioni pubbliche (come la sanità o la gestione dei rifiuti) che utilizzano flussi di danaro. Esse estendono la propria influenza su persone, settori, territori e soprattutto condizionano pesantemente le iniziative imprenditoriali. Talora, in alcuni quartieri della Campania o della Sicilia, godono anche di una certa protezione popolare, per via del consenso che sono riuscite a creare, tramite reti di protezione e di assistenza, presso frange emarginate di popolazione. E tuttavia la società civile meridionale è una realtà infinitamente più vasta e non solo dall’ovvio punto di vista numerico, ma per la sua ricca articolazione interna, grazie alla gran varietà di ceti e figure che la caratterizzano, per le sue innumerevoli istituzioni culturali, le sue scuole, università, musei, archivi, i suoi vari presidi civili, ecc. Spesso si confonde la legittima paura dei cittadini, restii a collaborare con gli investigatori in occasione di fatti criminosi, con il consenso dato ai criminali, se non addirittura con una espressione di omertà. Quando, nella maggioranza dei casi, altro non è che timore di rappresaglie da parte di una criminalità feroce, e al tempo stesso una espressione di sfiducia nei confronti dello stato italiano, considerato incapace di presidiare il territorio con la forza della legalità: dunque il frutto di un’usura, spesso di durata storica, del rapporto fiduciario fra le popolazioni e lo stato. Una sfiducia che si alimenta, e che è tornata a crescere per i problemi sociali aggravatisi negli ultimi decenni in Italia e più acutamente nelle ragioni meridionali. Disoccupazione endemica, soprattutto fra i giovani, restrizione dei margini di assistenza sociale da parte del potere pubblico, erosione dei risparmi, caduta in povertà di un numero ogni anno crescente di famiglie. Vecchi e nuovi problemi di questo pezzo d’Italia che si sono sommati gli uni sugli altri.
È evidente, dunque, che nella rappresentazione del Sud, anche quella animata dalle migliori intenzioni, si rischia di dipingere una notte in cui tutte le vacche sono nere. Con il risultato politicamente controproducente di creare un comprensibile scoramento nelle forze politiche, nelle associazioni, tra le nuove generazioni, tra tutti i soggetti politici e i gruppi animati dalla volontà di reagire, di superare problemi e cambiare gli assetti esistenti. Per questo, tanto i testimoni e gli osservatori quotidiani, come i giornalisti, quanto gli studiosi, devono farsi carico, nel rappresentare le vaste ombre che gravano sui cieli del nostro Mezzogiorno, di mostrare anche gli ampi squarci di sole che lo illuminano e che incoraggiano all’impegno e alla lotta.
È questo il fine dichiarato del presente libro di Umberto Ursetta – uno studioso che si è già distinto per le sue ricerche serie e scrupolose sulla criminalità organizzata – dedicato alle esperienze positive e virtuose che animano la vita civile della Calabria. Un lavoro davvero benemerito e benvenuto. L’autore non poteva essere più programmaticamente esplicito nel suo intento:
Il motivo per cui vengono raccontate le storie di coloro che non si rassegnano e reagiscono alla realtà esistente, è perché si spera che esse possano essere di esempio per altri e spingerli ad intraprendere la stessa strada. Solo se queste storie non restano delle isole felici in mezzo a un mare di illegalità e di accondiscendenza, la Calabria potrà uscire dalla condizione di marginalità in cui è precipitata e trovare la forza per iniziare un cammino nuovo che la porti a un approdo dove possano affermarsi i valori della legalità, della giustizia sociale e della solidarietà umana.
È significativo che l’autore abbia scelto questa regione, non tanto perché è la sua per nascita ed esperienza di vita, ma perché rappresenta, esemplarmente, un caso limite. La Calabria è oggi la regione più povera del nostro Paese, il Sud del Sud, e anche quella su cui gravano i più tenaci stereotipi che dominano l’immaginario conformistico del nostro Paese:
Tutti gli indicatori degli istituti di ricerca – ricorda Ursetta – la collocano quasi sempre in fondo alle classifiche nazionali per ciò che attiene il reddito pro capite e in testa invece per quanto riguarda la disoccupazione, soprattutto quella giovanile. Così come risulta all’ultimo posto tra le regioni italiane nelle quali gli imprenditori sceglierebbero di investire i loro capitali.
Dunque nessun pericolo, per l’autore di cadere in errori di sopravvalutazione nell’illustrazione dei casi positivi che egli privilegia nella propria ricostruzione e nel suo racconto. Tanto più che Ursetta non è uno studioso provinciale che indaga sulle vicende del proprio campanile. Conosce bene non solo il contesto italiano ed europeo in cui si inseriscono le vicende recenti e meno recenti della Calabria, ma ha ben presenti anche le tendenze di fondo della nostra epoca. Egli ad esempio ricorda un dato storico, che dovrebbe essere tenuto costantemente in considerazione da tutti gli osservatori, e soprattutto dal ceto politico attivo sulla scena dei nostri giorni. Ed è l’irresistibile tendenza del capitale – accentuatasi negli ultimi decenni per l’assenza di un antagonismo globale, prima rappresentato dai partiti e dai paesi comunisti – a creare disuguaglianze sempre più gigantesche. Opportunamente l’autore ricorda:
Qualche dato fornito dai rapporti annuali dell’Onu sullo sviluppo umano dà la misura di come la forbice nel corso del tempo si è allargata a dismisura. Nel 1820 il divario tra Paesi ricchi e Paesi poveri era di 1 a 3; nel 1911 era diventato di 1 a 11; nel 1992 era di 1 a 72; e oggi il divario è di 1 a 100. Se da soli questi dati non bastassero per avere un’idea precisa degli squilibri esistenti nel pianeta, se ne può aggiungere qualche altro fornito dall’organizzazione non governativa britannica Oxfam. Secondo la ricerca di qualche mese fa, risulta che le 26 persone più ricche possiedono quanto la metà della popolazione mondiale. Ma le disuguaglianze non aumentano solo tra Paesi, ma anche all’interno di uno stesso Paese. Sempre dalla ricerca dell’Oxfam, si apprende che in Italia il 5% più ricco possiede quanto il 90% più povero. Questi dati fotografano un divario tra ricchi e poveri senza precedenti nella storia dell’umanità. Con il paradosso che oggi gli uomini sono molto più uguali rispetto al passato sul piano giuridico, ma sono anche molto più disuguali sul piano economico. «L’era dei diritti» – come l’ha chiamata Norberto Bobbio – è anche l’era delle più forti e inaccettabili disuguaglianze.
Ed è tale potente forza globale, non efficacemente contrastata, che ha la sua parte anche nel destino di questa regione che chiude la Penisola in mezzo al Mediterraneo. Senza contrastare i meccanismi globali che la alimentano è difficile venire a capo dei problemi, ovviamente non solo della Calabria e dell’Italia, ma del mondo intero.
Ursetta racconta con grande scrupolo documentario e con chiarezza espositiva i vari casi, davvero esemplari, di resistenza, di lotta, di accoglienza, di costruzione di economie alternative, che giustificano ampiamente il suo tentativo di raccontare la storia di un’altra Calabria. Senza la pretesa di dar conto di tutte le esperienze di questa natura, egli seleziona con precise motivazioni le più significative, collocandole in vari ambiti che sono le esperienze di accoglienza, le iniziative recenti e meno recenti delle varie Ong attive nel territorio, l’opera di alcuni sindaci, il ruolo assistenziale e antimafia di certi settori della chiesa, singoli personaggi, la rivolta delle donne, soprattutto delle mamme, all’interno delle organizzazioni ’ndranghetiste, dell’importanza della scuola nella formazione delle giovani generazioni. Tuttavia ogni sezione in cui si raccontano esperienze positive è sempre preceduta da una più ampia analisi del contesto in cui la vicenda si svolge. La sezione dedicata all’Accoglienza, ad esempio, non è solo preceduta da un essenziale ma efficace excursus storico, che mostra il nostro passato di emigranti discriminati e umiliati non solo nelle lontane Americhe, ma anche nel nostro stesso Paese. Essa ha come sfondo l’erroneo, criminogeno quadro legislativo che ancora regola i flussi degli immigrati (la Legge Bossi-Fini) e illumina la trama di abusi, la corruzione, e il conseguente sfruttamento delle donne, degli uomini e dei bambini che sbarcano sulle nostre terre. Una legislazione di emergenza che tratta l’immigrazione come un fenomeno di ordine pubblico e che spinge uomini e istituzioni locali a lucrare su fenomeni difficilmente controllabili. Ursetta racconta a tal proposito vicende assai significative, soprattutto in relazione al ruolo della Protezione civile e delle Prefetture, mostrando come concretamente viene favorita la corruzione, e non può non concludere:
La verità è che manca la volontà di governare il sistema dell’accoglienza, perché farlo significherebbe trasferire le competenze a un altro ministero e non considerarlo solo in un’ottica di emergenza e di sicurezza, dove hanno gioco facile a inserirsi non solo le varie mafie capitale , ma anche partiti che fanno del voto di scambio la loro ragione di esistere. Ne è un esempio il CARA di Mineo (provincia di Catania), un vero e proprio lager con migliaia di richiedenti asilo tenuti per un tempo indefinito in condizioni che dire disumane è dire poco e dove le centinaia di persone che ci lavorano sono costantemente sottoposti al ricatto politico, voto in cambio di lavoro, come dimostrano le indagini della magistratura.
In tale contesto, corrotto e di fatto criminogeno, svettano dunque quali clamorose inversioni le esperienze di accoglienza di alcuni centri della Calabria come quella attivata da Mimmo Lucano a Riace. L’autore, tuttavia, prima di soffermarsi nel racconto di questa vicenda – diventata ormai universalmente nota a causa delle recenti vicissitudini che hanno riguardato Lucano – ricorda a giusta ragione il precedente storico che ha anticipato l’accoglienza a Riace:
Prima ancora di Lucano, ad avere l’idea di accogliere i migranti nelle case vuote era stato Gerardo Mannello sindaco di Badolato, un piccolo borgo medievale arroccato su una collina a 20 km. da Riace, ricco di antiche tradizioni. Il 24 agosto del 1997 sulla spiaggia di Badolato era attraccata la nave Ararat con a bordo 836 disperati, la metà dei quali curdi. Non era mai accaduto prima di allora di avere uno sbarco di profughi così numeroso. Si trattava di un’emergenza che aveva colto tutti di sorpresa, nessuno si aspettava l’arrivo di tante persone tutte in una volta. C’era da trovare delle strutture dove accoglierle. Il sindaco Mannello s’inventò un progetto di accoglienza diffusa, con il quale sistemò venti famiglie nelle case dei badolatesi emigrati all’estero. Il progetto non nasceva da una spinta esclusivamente solidaristica, ma c’era qualcosa che andava oltre. C’era l’ambizione di rianimare un paese che stava morendo, dandogli nuova linfa anche attraverso un miscuglio di culture.
Dunque un esempio dimenticato che è giusto riportare alla memoria. Così come è giusto non dimenticare altre esperienze analoghe, talora di non lunga durata come quella di Caulonia, che per qualche tempo accompagnò l’esperimento in corso a Riace. Ursetta non manca di diffondersi in informazioni circostanziate su altre esperienze significative:
Oltre a Mimmo Lucano, a seguire la strada dell’accoglienza con iniziative che meriterebbero tutte di essere raccontate sono in tanti, soprattutto tra i giovani amministratori. Per la buona politica, dunque, c’è ancora spazio, basta volerlo, come lo ha voluto Giovanni Manoccio, sindaco di Acquaformosa, un comune di 1100 abitanti della provincia di Cosenza, dal 2004 al 2014 e attualmente vicesindaco con delega all’accoglienza. Acquaformosa è un paese di etnia albanese la cui nascita risale al XV secolo ad opera di profughi provenienti dall’Albania che secondo alcuni fuggivano dal loro Paese per sottrarsi alle persecuzioni religiose, per altri invece lo lasciavano per ragioni economiche.
Esemplare per capacità organizzativa è anche l’esperienza di accoglienza di Drosi. Un piccolo borgo di circa 800 abitanti, frazione del comune di Rizziconi, nella Piana di Gioia Tauro, che dista una decina di chilometri dalla tendopoli di San Ferdinando (Rosarno) e di una fabbrica dismessa, che ospitano in condizioni igieniche pessime, durante il periodo della raccolta degli agrumi, più di mille braccianti provenienti dall’Africa e dall’Europa dell’Est. A partire dal 2010, grazie a una iniziativa della Caritas diocesana, è stata realizzata una ospitalità perfettamente stabile funzionante, dotata di moderni servizi, che ha accolto 150 migranti integrandoli nella comunità del borgo. Si tratta di alcuni dei giovani africani sfuggiti alla caccia all’uomo scatenatasi nella piana di Rosarno, nel 2010, in seguito alla rivolta dei braccianti che erano stati fatti oggetto di violenza omicida.
Se in Calabria non manca la solidarietà dei calabresi non meno attiva ed efficace è stata negli ultimi anni, e continua a esercitarsi, quella di chi proviene da altre regioni d’Italia. Ursetta ricorda a tal proposito il ruolo importante svolto in un’area di particolare concentrazione e sfruttamento del lavoro bracciantile (la piana di Rosarno, denominata anche di Gioia Tauro) da Ong come Medici senza frontiere. Dal 2003 in quest’area l’organizzazione di assistenza è stata presente per una decina d’anni, curando direttamente gli immigrati malati e aiutandoli anche concretamente ad essere soccorsi nelle strutture locali del sistema sanitario nazionale.
Oggi tuttavia in questo ambito la struttura più dinamica ed efficiente è rappresentata da Emergency. Qui in un palazzo sequestrato alla cosca mafiosa dei Versace, nel 2013 è nato un Poliambulatorio che fornisce una vasta assistenza ai migranti, ma sempre di più anche agli emarginati calabresi che non riescono a godere a pieno dell’assistenza pubblica. I medici e i volontari di Emergency che si occupano della salute degli ultimi nei territori della Piana danno anche impulso ad altre attività e irradiano nel territorio circostante una nuova energia civile:
Oltre all’ambulatorio di Emergency, – ricorda Ursetta –