Gratta e scappa: Thriller noir italiano
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In una notte di bufera due colleghi fanno sosta in un autogrill. Uno riparte subito rigettandosi nel temporale. L'altro aspetta che spiova, ordina un caffè e vince centomila euro con un gratta e vinci. Ed è allora che inizia per lui la notte più lunga della sua vita.
Andrea Lombardi
Andrea Lombardi è autore poco prolifico di sceneggiature di scarso successo, fiabe per bambini e racconti quasi sempre poco seri, vagamente surreali e almeno in parte autobiografici.È nato a Roma, dove per fortuna o per disgrazia abita da sempre.
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Gratta e scappa - Andrea Lombardi
Andrea Lombardi
Gratta e scappa
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Indice
Gratta e scappa
1
Era giugno, ma sull’A1 tra Parma e Campegine pioveva come non pioveva neanche a novembre. L’acqua scendeva a secchiate e le raffiche di vento prendevano a schiaffi i campi ai due lati dell’autostrada, quasi invisibili dietro un muro di pioggia mentre a bordo di una Volvo station wagon che sembrava una nave nella tormenta ci lasciavamo alle spalle l’autostrada e imboccavamo la statale per Sorbolo.
C’erano poche cose più fastidiose e stressanti che guidare in quelle condizioni, una delle quali era senz’altro ritrovarsi in mezzo a un temporale mentre a guidare era Claudio, che oltre ad essere l’automobilista più imbranato che avessi mai conosciuto era anche l’unica ragione per cui quel sabato non fossi sdraiato sul divano di casa mia, al riparo da un diluvio che a Roma sarebbe arrivato soltanto tre giorni più tardi.
Claudio, che guidava malissimo la macchina e non aveva mai neanche pensato di guidare una moto, aveva invece pensato di acquistarne una d’epoca. Questo dopo aver scoperto che le moto d’epoca piacevano praticamente a chiunque e dopo essersi convinto che, oltre a farlo evadere da una routine familiare fatta di battibecchi con la moglie e pomeriggi passati tra gli scaffali di un supermercato, la Honda CB Four che aveva scovato tramite un forum di appassionati lo avrebbe trasformato di colpo in un figo.
Il problema era che Claudio non solo non aveva la patente per guidarla, ma non conosceva neanche nessuno se non il sottoscritto in grado di valutare lo stato effettivo di una moto destinata comunque ad arrugginire in un angolo del garage o nel salotto della casa in montagna. Soprattutto, non conosceva nessuno al di fuori di me disposto a imbarcarsi in un viaggio di quasi mille chilometri tra andata e ritorno, buona parte dei quali li avrei percorsi tra l’altro da solo e a spese mie.
Proprio perché Claudio non aveva altri a cui rivolgersi mi ero sentito moralmente obbligato a non negargli il mio aiuto, confortato anche dal fatto che – per quanto fosse dura da ammettere – quel weekend non avevo comunque niente di meglio da fare.
Da bravo contabile e da programmatore quasi spietato del suo tempo libero, Claudio era invece riuscito a infilare il viaggio verso Sorbolo – dove quella che mi aveva descritto come un gioiello della meccanica riposava protetta dalle mura di un box – tra la visita a una zia di Modena – presso la quale Claudio avrebbe pernottato per ripartire con calma il mattino seguente – e quella a un concessionario Volvo dove aveva scovato una station wagon in offerta con cui rimpiazzare la sua.
Un’offerta che gli avrebbe fatto risparmiare quasi mille euro, anche se a Claudio dovevano sembrare probabilmente diecimila. Un po’ per quanto era tirchio, un po’ per i problemi economici di cui si lamentava incessantemente dal giorno in cui l’avevo incontrato in ufficio ormai sei anni prima.
Come potesse un contabile meticoloso e per giunta tirchio avere problemi economici restava un mistero, così come il riuscire a giustificare alla moglie l’acquisto di una moto d’epoca nonostante quei problemi.
Dopo esserci dati appuntamento presso una stazione di servizio con annesso autogrill a qualche chilometro da Sorbolo, avevamo raggiunto insieme il proprietario della Honda, il quale ci aveva mostrato con orgoglio un rottame abbandonato di fianco a una catasta di legna. Un rottame che non ricordava neanche lontanamente la moto delle foto che mi aveva girato Claudio il giorno prima e che in ogni caso non avrei potuto provare neanche volendo per via della pioggia che aveva già iniziato a cadere a dirotto.
Dopo un rapido e intenso scambio di opinioni con il proprietario della moto, per non lasciarmi allo sconforto di un viaggio a vuoto Claudio mi aveva trascinato fino a Reggio Emilia, destinazione un negozio di antiquariato nel quale – dopo una comparativa estenuante tra una natura morta dipinta ad olio e un vecchio comodino – aveva infine scelto di ripiegare su una balestra da esposizione.
Ma è finta, che te ne fai?
chiesi a Claudio dopo che l’aveva già pagata, sospettando che se c’era una cosa che gli importava meno delle moto d’epoca fossero appunto le armi medievali.
Capirai, non ci vuole niente a modificarla,
rispose lui con un’alzata di spalle. E poi la devo appendere in salotto, non ci devo mica andare a caccia.
Erano quasi le sette di sera quando con la balestra di Claudio nel bagagliaio e una valanga d’acqua che continuava a pioverci addosso avvistammo l’insegna della stazione di servizio da dove eravamo partiti.
Missione compiuta, pensai tra me e me. Poi la prospettiva di altre cinque ore in macchina per tornare a Roma annullò di colpo la gioia del ritrovare la mia Fiesta tirata a lucido dal temporale, nel parcheggio di un autogrill che – per quanto squallido e malmesso – sotto quel diluvio sembrava un’oasi nel deserto.
2
Alla destra dell’autogrill una freccia e il disegno di un camion su un cartello arrugginito puntavano all’officina sul retro, mentre alla sinistra dell’edificio – vecchio almeno cinquant’anni – ce n’era un altro in costruzione. Un edificio davanti al quale – come aveva già fatto quattro ore prima – Claudio si era fermato per sbaglio, senza notare come fosse ancora solamente uno scheletro di cemento e senza accorgersi del cartello che chissà da quanto puntava verso l’entrata dell’autogrill quaranta metri prima.
Mentre facevamo retromarcia fino all’ingresso del vecchio edificio pregai che la marmitta bucata che borbottava tra un tuono o l’altro avrebbe messo in guardia eventuali pedoni, sopperendo al tergilunotto rotto e alle luci di posizione fulminate che Claudio si ostinava a non far riparare.
Fortunatamente non investimmo nessuno, e dopo una corsa sotto l’acqua senza l’ombrello che nessuno dei due si era preoccupato di portarsi dietro arrivammo finalmente davanti alla porta a vetri dell’entrata, sovrastata da un’insegna spenta e con di fianco un signore in k-way che scrutava il cielo con l’aria del vecchio marinaio. Un cielo che si faceva sempre più nero con l’avvicinarsi della sera, talmente nero da chiedersi se il