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Una sfilata rosso sangue: Un'altra indagine per taglie forti
Una sfilata rosso sangue: Un'altra indagine per taglie forti
Una sfilata rosso sangue: Un'altra indagine per taglie forti
E-book288 pagine4 ore

Una sfilata rosso sangue: Un'altra indagine per taglie forti

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Info su questo ebook

Sono passati due anni da quando Clara, Patti e Rosanna, proprietarie della Boutique “Tutta Curve” per taglie forti nel cuore di Genova, hanno risolto il caso di Vico dell’amor perfetto. La vita sembra procedere tranquilla per le tre amiche diversamente rotonde, ma le cose stanno per cambiare. Tutto comincia il giorno in cui Clara sale su un treno diretta a Milano. Nella borsa ha un invito per la sfilata di Apollonia C., la sua stilista curvy preferita, che inaugura la Fashion Week milanese con un evento che rivoluzionerà la dittatura della taglia 38. Non sa che sta per imbarcarsi in un’avventura piena di insidie. Già, perché tra abiti spettacolari e modelle capricciose, giornaliste eccentriche e furti inspiegabili, qualcuno sta tramando nell’ombra un orribile delitto. E non è che l’inizio! Il suo intuito la porterà a indagare insieme alle socie nel luccicante mondo della moda dove nulla è come appare, in cerca di una mente criminale assetata di sangue. Nessuno è al di sopra dei sospetti. Le straripanti top model curvy Stella LaForesta e Dodi Remora, per esempio, sono davvero amiche o, in realtà, si odiano? E come mai la tirannica neodirettrice della rivista di moda “Femme” è così sulle difensive? Senza contare che Tito Livio, marito toy boy di Apollonia con la passione per la musica rap, ha un’aria poco raccomandabile. Perfino Dominique, l’amabile pierre che ha invitato Clara alla sfilata, potrebbe non essere quello che sembra. Ma alla fine, anche grazie all’aiuto della commissaria Pia Onorato, implacabile femminista con un debole per i travestimenti e il giardinaggio in vaso, la verità verrà a galla.

Adelaide Barigozzi è giornalista. Lavora per “Cosmopolitan” e ha scritto per diversi giornali e periodici tra cui “Corriere Mercantile”, “Corriere della Sera”, “Bella”, “Marie Claire” e “Donna Moderna”. Cresciuta a Genova, ha abitato per alcuni anni in Brasile. Da tempo vive a Milano. Per Fratelli Frilli Editori ha pubblicato Vico dell’Amor Perfetto. Un’indagine per taglie forti (2017).
LinguaItaliano
Data di uscita31 gen 2020
ISBN9788869434167
Una sfilata rosso sangue: Un'altra indagine per taglie forti

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    Una sfilata rosso sangue - Adelaide Barigozzi

    1.

    Un treno nella nebbia

    Alla fine del tunnel, il nulla. Sembrava la metafora rovesciata di un luogo comune, pensò Clara sforzandosi di distinguere qualcosa nell’impenetrabile foschia che le scorreva accanto. Insieme all’ultima galleria si era lasciata indietro il paesaggio. Il cielo grigio, i campi ricoperti da una glassa di neve sporca, le cascine sparse lungo il tracciato della ferrovia, tutto all’improvviso era stato fagocitato da quella spessa coltre fumogena che ammantava la Pianura Padana. Clara distolse lo sguardo dal finestrino e sospirò. Se c’era una cosa che non sopportava, era imbattersi in un ostacolo che le impediva la visuale. La nebbia, la penombra, una congiuntivite che da giorni non le consentiva di mettere le lenti a contatto. Per fortuna, esibire un paio di occhiali da sole opportunamente graduati a febbraio non la imbarazzava nemmeno un po’, tanto più che la montatura Chanel era strepitosa. Il risultato in ogni caso era notevole. Chi in quel freddo mattino invernale si fosse trovato sull’Intercity partito da Genova P. Principe alle 07:21 e diretto a Milano Stazione Centrale, non avrebbe potuto fare a meno di restare colpito da quella imponente passeggera, fortunosamente incastrata nello scomodo sedile di classe economica. E pazienza se Clara aveva viaggiato per almeno metà del tragitto nella quasi totale cecità: le enormi lenti scure non facevano che aggiungere un tocco di eccentrica eleganza, e lei ne era più che consapevole. Peccato che nella luce sepolcrale dello scompartimento distinguere un poggiatesta da una persona fosse un’impresa.

    Nonostante fuori imperversasse la nebbia, però, adesso che si era fatto giorno la visibilità interna era migliorata notevolmente. Pur con qualche difficoltà, Clara riusciva a mettere a fuoco con un raggio di almeno 3 metri. Il treno era affollato fino all’inverosimile. Età media, qualsiasi fra i 20 e i 60, in pratica tutte le fasce anagrafiche atte al lavoro, considerò con il suo proverbiale acume sociologico. Studenti, impiegati, funzionari, addetti alle mansioni più diverse, con in comune una vita dedita al pendolarismo, avanti e indietro 5 giorni su 7 ogni dieci-undici ore, da Genova a Milano e ritorno, in balìa di ritardi, scioperi selvaggi, cancellazioni. E mai un cedimento, un rimpianto, un contratto d’affitto breve nell’hinterland milanese a due passi da una fermata della metro, ma sempre troppo lontano dal mare. Le ragioni del portafoglio (e della sopravvivenza) li portavano di buon mattino là dove c’era lavoro, ma allo scoccare delle sei di sera, quelle del cuore li richiamavano di nuovo a Sud, verso l’amata costa. Come falene operaie accecate dal fascio luminoso della Lanterna.

    A riprova di quanto intuito, sulla sua destra, oltre al corridoio di passaggio, una ragazza occhialuta dal rossetto cremisi e l’aria intellettuale rivolgendosi a un uomo sulla quarantina chiese sbigottita:

    – Mi sta dicendo che va a Milano a lavorare e poi torna la sera a Genova tutti i giorni da dodici anni? Sul serio? Io ci vado da tre mesi due volte la settimana e non ne posso già più…

    – Carissima, al mio lavoro ci tengo, ma non abiterei lontano dal mare nemmeno se l’azienda mi pagasse un appartamento in piazza Duomo! E non è che non ci abbia provato, eh!

    – Ma davvero? Le avevano offerto un appartamento in piazza Duomo? -

    Forse quella ragazza non era poi così intellettuale. Clara alzò gli occhi al cielo. Alle sue spalle, intanto, si stava svolgendo un dramma.

    – Sai, volevo dirti che ieri ti ho visto, e ti ho pure salutato, ma tu, non so, è come se fossi stato trasparente – recriminò una voce maschile, vibrante di mestizia e rancore.

    – Ieri? Sei sicuro? Ma io non me ne sono accorta! Dove mi hai visto? – squittì in propria difesa una donna.

    – Ero il portiere che ti ha aperto la porta all’Hotel Bulgari.

    Silenzio.

    – Forse non mi hai riconosciuto… con la divisa – precisò lui, più conciliante.

    – Eri tu? Giuro, non mi ero resa conto! Stavo andando a un appuntamento di lavoro con dei clienti russi, ero stressatissima perché era un incontro importante e poi sì, ho sentito qualcuno dirmi Ciao, ma mi è parso così strano, in quella situazione, e poi ero pure in ritardo… Non credo di averti quasi guardato in faccia! Non sapevo che lavoro fai e non mi è proprio passato per la mente che avrei potuto conoscere un portiere di Bulgari… Scusami!

    – E com’è andata poi?

    – Cosa?

    – Con i russi, intendo, è andato tutto bene?

    – Di m… guarda. Meglio non parlarne…

    Parecchi sedili più avanti una donna sbraitava al telefono dando ordini perentori a qualcuno, probabilmente il suo schiavo, mentre un tizio divorava una sleppa di focaccia alle cipolle spargendone per tutto il vagone l’effluvio, per alcuni forse paradisiaco, ma per altri pestilenziale, a quell’ora del mattino.

    – E vogliamo parlare della lentezza pachidermica della linea Genova-Milano? Dei ritardi continui? Dei nostri crescenti disagi?! – concionava la folla insonnolita un tipetto occhialuto con una lanosa zazzera sale e pepe, appoggiato alla porta della toilette mentre il treno percorreva alla velocità di un vagone merci dell’inizio del secolo scorso le ultime decine di chilometri che li separavano dai rispettivi, amati e odiati, luoghi di lavoro. Che poi, anche lei stava facendo un viaggio di lavoro, si disse Clara. Piacevole, ma di lavoro.

    Rassicurata dal fatto che in quel momento nessuno sembrava badare a lei, mise da parte la vanità e la spettacolare montatura Chanel e inforcò finalmente gli orridi occhiali da vista. Che scocciatura! Meno male che in serata avrebbe potuto rimettere le lenti a contatto senza alcuna conseguenza, le aveva assicurato l’oculista. Ci mancava solo presentarsi alla sfilata della nuova collezione autunno inverno di Apollonia C., nonché al suo grandioso party, con gli occhiali!

    Un brivido di orrore la colpì, facendo sussultare il suo corpo imponente dalla profonda scollatura da portatrice di quinta coppa C all’immenso deretano. Per il viaggio aveva indossato uno splendido abito in maglia di cachemire misto yak color giallo banana con impunture blu cobalto. Due colori che, casomai ce ne fosse stato bisogno, la rendevano ancora più appariscente, creando un certo contrasto con il rosso Purple Savage della chioma fluente, raccolta in uno chignon. Naturalmente, il vestito era un capo griffato Apollonia C., come pure la mantella in loden blu cobalto, la stessa nuance dell’abito, foderata in piumino grigio argento. Entrambi facevano parte del campionario in vendita nella Boutique Tutta Curve, il negozio per taglie extralarge che due anni prima aveva aperto con le amiche Patti e Rosanna, le sue partner in crime, come le chiamava suo marito Totò quando voleva fare lo spiritoso.

    Non più miope, Clara si mise a sfogliare distrattamente la rivista che aveva acquistato all’edicola della stazione. Era spessa come cinque tavolette di cioccolato impilate l’una sull’altra e pesante come almeno quattro sacchetti di zucchero da un chilo. Una volta letta, l’avrebbe abbandonata sul sedile per i prossimi viaggiatori, decise. Il fatto è che era andata apposta a prendere il treno con una buona mezz’ora d’anticipo per acquistare con calma la Settimana Enigmistica, mica quella micidiale zavorra. Ma quando una gentile ragazzina in total look prugna le aveva proposto «La nuova Femme, la famosa rivista cult degli anni Ottanta, tornata in edicola completamente rinnovata dopo una lunga pausa, un numero da collezione», non aveva resistito. Tanto più che sulla copertina sorrideva radiosa Stella LaForesta, la burrosa top model taglie plus il cui poster faceva la sua figura anche in un angolo della Boutique Tutta Curve.

    Finalmente uscita dall’oscurità, rimase abbagliata da uno splendido zainetto Prada indossato con nonchalance da una donna scarmigliata e dall’espressione attonita, intenta a spingere un carrello del supermercato colmo di altre borse costose di marchi assortiti. Nella didascalia veniva definita una cittadina senza fissa dimora. Il servizio era intitolato Bag Lady. Nel sommario a caratteri cubitali si spiegava che It bag preziose erano abbinate a situazioni e mestieri di ordinaria quotidianità urbana. Nelle pagine seguenti l’ultimo modello di un bauletto Louis Vuitton pendeva dal polso nodoso di una postina in versione cool, appollaiata sullo scooter d’ordinanza. Una pochette Yves Saint Laurent sbucava insieme a un paio di baguette da sotto l’ascella di una graziosa panettiera mentre una clutch in raso Gucci veniva brandita da una vigilessa nell’atto di multare per divieto di sosta la postina di prima. Qualche pagina più in là facevano bella mostra di sé una serie gli outfit in black & white, uno speciale sullo stile country da città e una rubrica con gli ultimi modelli di stivali stile biker.

    Clara girava le pagine senza soffermarsi più di tanto, eccitata com’era per quell’escursione fuori programma. Altro che riviste, tra poche ore avrebbe ammirato con i propri occhi abiti meravigliosi nella prima sfilata della sua vita! Estrasse dalla borsa l’invito, un elegante cartoncino color magnolia e rosa cipria e rilesse per l’ennesima volta l’indirizzo della sfilata stampato in caratteri gotici: via Passione 12. Si era informata: si trattava di un palazzo ottocentesco tutto stucchi, affreschi e scalinate di marmo, che sorgeva ai limiti di un vasto parco proprio a due passi dal Quadrilatero della Moda.

    L’edificio un tempo ospitava il Collegio Reale delle Fanciulle, un educandato fondato nientemeno che da Napoleone, frequentato dalle pargole della crème de la crème dell’alta società cittadina. Dopo aver mantenuto quel polveroso nome per fin troppo tempo, la vetusta istituzione era stata rimodernata e promossa a liceo classico e linguistico statale, conservando una certa allure e, soprattutto, la sede sfarzosa. Un prezioso scrigno traboccante buona educazione che, quasi ignorando quanto accadeva nel mondo, o anche solo appena fuori lo spesso portone, era sopravvissuto pressoché identico per oltre due secoli, sebbene con qualche concessione alla contemporaneità. Una di queste era la facoltà di affittare alcune aree di rappresentanza non utilizzate dalla scuola per eventi e manifestazioni, come la sfilata dell’ultima collezione di Apollonia C., che sarebbe stata allestita nelle ex scuderie del palazzo, magnificamente restaurate. E dopo aver ammirato creazioni in grado di trasformare qualsiasi donna formosa in una dea voluminosamente sexy, una ristretta cerchia di eletti tra cui Clara, si sarebbe spostata in un salone al piano nobile dell’edificio per proseguire i festeggiamenti in un party superesclusivo cui era stato dato perfino un titolo: «Curvy in Red».

    Un’occasione imperdibile per incontrare finalmente lei, la geniale Apollonia, nome d’arte di Annamaria Cipollini, 37 anni dichiarati (47 all’anagrafe) e una fama da agguerrita self-made-woman. La stilista plus che, alla guida dell’omonimo marchio, aveva osato invadere il tempio delle taglie 40 con un esercito di over 48! Clara sorrise tra sé e sé al sol pensiero. Dominique Giampieri, l’addetto all’ufficio stampa e relazioni esterne del brand, era stato davvero gentile a invitarla. Viveva a Milano da parecchio tempo, ma era genovese di nascita: lei gli aveva scritto una mail per chiedergli delle informazioni su un evento che il brand avrebbe organizzato in Riviera e avevano subito simpatizzato. Chissà che tipo era di persona? All’inizio, quando si sentivano solo per posta elettronica, per via del nome Clara aveva creduto fosse una donna. Poi, dopo l’inevitabile gaffe si era chiarito l’equivoco. Va detto che lui ne aveva riso, rivelando un notevole senso dell’umorismo. Spinta da Rosanna, che faceva largo uso dei social network, Clara era andata a curiosare sul profilo Facebook di Dominique, ma l’unica foto esibita ritraeva Marlon Brando in Fronte del porto. Una scoperta che l’aveva fatta pensare: una volta uno psicologo le aveva detto che chi sceglie di celare il proprio aspetto sui social, per giunta dietro il volto di un attore defunto, tradisce una certa dose di insicurezza. Oppure, ha qualcosa da nascondere. Dunque dietro quell’apparente solarità il suo nuovo amico custodiva un oscuro segreto?

    La voce di Dominique, comunque, non aveva nulla di quella di Marlon Brando, squillante e garrula com’era. Clara se l’era immaginato piccolo e ossuto, con una larga fronte spaziosa. Se proprio doveva somigliare a un attore vintage, sarebbe stato più simile a Fred Astaire. Comunque, era un uomo di una gentilezza squisita. Invitandola alla sfilata, le aveva perfino consigliato un albergo che applicava tariffe speciali per gli ospiti della casa di moda. Il party sarebbe durato fino alle ore piccole ed era quindi necessario trovare un alloggio per la notte. Clara lo aveva ringraziato di cuore, ma non aveva bisogno di nessun hotel. Sarebbe andata da una parente, che poi non era altro che Gigliola, altrimenti nota in famiglia come la Zia di Milano. Molte volte l’aveva invitata per trascorrere insieme un paio di giorni di chiacchiere e shopping, ed ecco che se ne presentava l’occasione. Quando le aveva telefonato, a dire la verità, non le era parsa particolarmente felice all’idea. Sembrava titubante, come se avesse altri piani e quella richiesta di ospitalità glieli scombinasse. Ma era stata solo un’impressione di un attimo, perché Gigliola subito dopo si era dichiarata addirittura entusiasta.

    – Anche se la sfilata è il pomeriggio sul tardi arriva pure la mattina. Alle otto, alle nove, alle dieci, quando vuoi! Così vieni qui a casa, chiacchieriamo un po’ e poi ti aiuto a prepararti con calma. Mi devi raccontare tutto del negozio! E anche dei delitti! – le aveva detto eccitatissima.

    Gigliola si riferiva agli incresciosi eventi che erano accaduti a Genova qualche mese prima, proprio nel palazzo di vico dell’Amor Perfetto, sede della Boutique Tutta Curve. Ne avevano parlato anche i quotidiani nazionali e Gigliola era molto fiera del fatto che la nipote, aiutata dalle sue amiche, si fosse trasformata in un’investigatrice così brillante da risolvere un caso alquanto spinoso.

    La Stazione Centrale con le sue grandi arcate come gigantesche bocche spalancate che inghiottivano e sputavano fuori treni a ripetizione, la accolse gettandole addosso un freddo pungente. Ma lei, ben equipaggiata com’era, quasi non se ne accorse. Maestosamente avvolta nella cappa che le arrivava fin sotto gli stinchi, Clara si diresse con passo deciso verso il tapis roulant che l’avrebbe condotta all’accesso della metropolitana, trascinandosi dietro il trolley viola metallizzato che aveva acquistato per il viaggio.

    Dall’ultima volta che era stata a trovare la zia dovevano essere passati almeno due anni, ma si ricordava con precisione il tragitto da fare. Avrebbe preso la metro Verde fino a Loreto e poi la Rossa per un paio di fermate.

    Gigliola abitava in un quartiere popolare della periferia Nord che stava registrando i primi segni di una vivace mutazione immobiliare e, di conseguenza, sociale. Pur essendo poco distante da un’arteria trafficata, e a nemmeno dieci minuti a piedi dalla fermata della metro, costituiva un piccolo mondo a sé, un angolo decentrato di Vecchia Milano che conviveva con la recente immigrazione. Era difficile capitare lì per sbaglio, nascosto com’era da un lato da un vasto parco comunale che aveva visto tempi migliori e dall’altro dalla massicciata della ferrovia. Forse per questo la zona si era preservata, mantenendo quell’aria familiare e sonnacchiosa di paese. Le strade strette a senso unico, i muri ricamati di rampicanti sempreverdi, la fontanella zampillante a tutte le ore, le panchine, la rastrelliera per le biciclette… C’era perfino una vecchia cascina recuperata e trasformata in biblioteca comunale.

    Il condominio dove abitava la zia si affacciava su una piazzetta ombreggiata da imponenti alberi di magnolia. Come la maggior parte degli edifici circostanti, era una casa di ringhiera ristrutturata, dalla popolazione alquanto variegata. Anzi, si poteva dire, e Gigliola amava ripeterlo spesso, che quel palazzo fosse la rappresentazione plastica della lenta ma inarrestabile evoluzione sociale del quartiere. Per conoscerne i dettagli, bastava prendere l’ascensore, una scatola in vetro e acciaio aggiunta nel cortile interno pochi anni prima.

    I fondi dell’edificio un tempo ospitavano diversi negozi, ma grazie all’immaginifica ristrutturazione ora venivano proposti come loft, termine dall’ingiustificata allure che indicava monolocali soppalcabili con ampie vetrate ad altezza marciapiede, opportunamente munite di spesse grate onde evitare l’arrembaggio di passanti ubriachi e ladri non acrobati. Tali accomodazioni, descritte da agenti immobiliari creativi come simpatiche soluzioni abitative su due piani di stampo newyorkese, al momento ospitavano alcuni studenti, una famiglia di filippini e un intero villaggio di cinesi, almeno così pareva dal continuo viavai di uomini, donne e bambini. Al primo piano erano sopravvissuti alcuni abitanti originari del luogo, in fatale attesa dello sfratto esecutivo: un’anziana audiolesa e fan di Maria De Filippi, peculiarità in sé innocenti, ma che sommate insieme risultavano assai moleste, una coppia di mezza età, una famiglia con un figlio adolescente, un pensionato che ogni sera usciva in tuta per fare footing. Più si saliva, più gli appartamenti diventavano di pregio, gli abitanti abbienti, i ballatoi fioriti, fino all’apice della scala sociale e condominiale, il terzo piano e le mansarde sovrastanti. Lassù era un tripudio di portoncini lucidati, pomelli d’ottone, portaombrelli in rame e piante in vaso. E proprio al terzo piano, tra la crème de la crème, aveva il suo regno la zia di Milano.

    – Eccoti finalmente! Fatti abbracciare!

    Gigliola e i suoi 75 chili per 1,50 m d’entusiasmo profumato Roma di Laura Biagiotti si precipitarono su Clara ancora prima che riuscisse a mettere entrambi i piedi sul ballatoio, l’acchiapparono fin quasi a soffocarla e la trascinarono dentro casa, ovvero nel soggiorno, un ampio ambiente dal pavimento in cotto tirato a lucido, separato tramite un basso muretto dalla cucina a vista.

    In realtà, più che una casa sembrava una foresta. Una foresta densamente popolata di orsi, orsetti e orsacchiotti di ogni foggia, materiale e dimensione, che sbucavano da dietro ficus benjamina imponenti come baobab, spatifillo in piena fioritura, pothos ipertrofici che insinuavano le loro fronde prensili lungo le pareti, nella disperata ricerca di finestre, lucernai, pozze di luce.

    A Clara quella folla diversamente pelosa faceva sempre una forte impressione: le ci voleva qualche tempo per abituarsi. Non era facile restare indifferente di fronte a tutti quegli occhietti di bottoni, vetro e madreperla, incastonati, disegnati, scolpiti, ricamati, che ti fissavano da ogni dove. Orsi bruni, bianchi, rossi, verdi, gialli, blu. Piccoli e grandi. Alti e bassi. Grassi e magri. Teneri e minacciosi. Naturalistici e fiabeschi. Orsi pompieri, orsi poliziotto, orsi direttore d’orchestra, orsi padri di famiglia insieme a mamme orso circondate dai loro teneri cuccioli. Nudi e vestiti. In peluche, pannolenci, latta, ceramica, cristallo Swarovski, plastica, bachelite, pneumatici riciclati. Seduti sul divano – ricoperto da un drappo ricamato a piccoli orsetti rossi su fondo bianco – appollaiati sugli scaffali della libreria, di guardia, uno per parte, al televisore, accampati su ogni superficie libera tranne il pavimento. E almeno una mezza dozzina se ne stava nascosta sotto il tavolo e dietro la credenza di artigianato tirolese.

    La spiegazione di quell’assembramento era molto semplice. Gli orsi erano l’unica ragione di vita di Gigliola. Collezionarli era la sua missione. Solo dopo veniva sua figlia Dona.

    Capelli corvini in modo sospetto, un paio di sopracciglia che parevano tracciate con il carboncino e due occhi verdissimi e penetranti, Gigliola era una donna estremamente esuberante che viveva i suoi settant’anni come fossero venti. Aveva perso il marito all’improvviso per un infarto quando non ne aveva ancora trenta ed era rimasta sola con una bambina piccola da tirar su. In famiglia si diceva che Gigliola, poverina, non era più riuscita a rifarsi una vita. La sua versione, però, era che per rimettersi un uomo in casa ci voleva troppa pazienza. E lei non ne aveva. Nulla le era stato regalato dalla vita, eppure non aveva mai perso il buonumore. Il suo ottimismo era concreto, quasi fatalista. L’ottimismo del contadino che spera sempre in un buon raccolto, nonostante sappia quanto la natura sia imprevedibile. Dopo aver lavorato per quasi quarant’anni come assistente del direttore generale in una multinazionale, avrebbe potuto godersi la pensione, ma il riposo non era fatto per lei. Fiera delle sue doti di supersegretaria, per giunta abilissima nell’uso di Excell e applicazioni varie per la rendicontazione digitale, a sfatare certi pregiudizi contro le impiegate âgé, ora metteva il suo talento al servizio degli altri. Un paio di pomeriggi a settimana, infatti, dava una mano come volontaria contabile in un’associazione no profit che assisteva le donne vittime di violenza domestica. Nel frattempo, Dona era cresciuta e di anni ne aveva 36. Dopo vari lavori a tempo determinato, tra cui commessa di intimo e dimostratrice di sigarette elettroniche, da qualche tempo aveva un buon posto come rappresentante in una società per la conservazione di cellule staminali. L’attività andava a gonfie vele e le assicurava laute provvigioni. Ma, a quanto pare, l’idea di andarsene di casa non la sfiorava neppure. Anno dopo anno, madre figlia erano scivolate senza soluzione di continuità in una convivenza da coinquiline. Proprio in quei giorni, però, Dona non c’era: un meeting di ginecologi a Fiuggi aveva richiesto la sua presenza. Peccato, pensò Clara. Le sarebbe piaciuto fare due chiacchiere con lei: il suo lavoro la incuriosiva; avrebbe avuto un sacco di domande da farle.

    – Anche Dona era dispiaciuta di non riuscire a incontrarti, e non sai quanto. Ti adora! Comunque, la buona notizia è che invece di accamparti in sala nel divano letto, questa sera potrai sistemarti nella sua stanza. Starai comodissima! – disse festosa Gigliola, facendole strada per il corridoio verso la zona notte. Sopra le loro teste, acquattati nella penombra su due lunghe mensole gemelle, decine di pupazzi orsacchiotteschi fissavano il vuoto con aria innocente, sebbene sembrassero sul punto di balzare giù mettendo in atto un suicidio collettivo. Ma Clara, che ormai si era abituata alla loro presenza, non ci fece caso. Quanto a Gigliola, degli amati orsetti coglieva solo il lato tenero e mai avrebbe sospettato la possibilità di una tragedia.

    – E allora, cosa mi racconti? Come vanno le cose al negozio? – chiese la zia, versandole ancora una cucchiaiata di vellutata di porri e zucca nella scodella dipinta a mano a motivi Teddy Bear. Una chiacchiera via l’altra, infatti, si era fatta l’ora di pranzo. Nel forno si stava riscaldando l’arrosto. Dal profumo prometteva di essere delizioso. Gigliola era la solita Gigliola, placida e sorridente, ma a Clara non era sfuggito un che di forzato in quella calma apparente. Lei la conosceva bene. Qualcosa la preoccupava.

    Avevano trascorso la mattinata a parlare amabilmente ma nell’aria aleggiava un che di non detto. La zia si tolse il grembiule. Sotto indossava una felpa color crema con una stampa di un orsacchiotto rosa, tenero e bamboleggiante. I suoi occhietti neri e tondi come capocchie di spillo fissavano Clara con sorprendente intensità. Per un attimo, ebbe l’impressione che le stessero chiedendo aiuto.

    Dopo pranzo si concessero un riposino. Mentre Clara si rilassava sul divano, però, Gigliola si aggirava inquieta per l’appartamento. A

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