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Il proiettile fantasma
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E-book385 pagine5 ore

Il proiettile fantasma

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Info su questo ebook

Da quando hai cominciato a fare l’avvocato hai avuto una sola ambizione: volevi essere il numero Uno. Poi invece ti sei fatto sorprendere da un colpo partito da lontano che si è insinuato tra le pieghe del processo e ti ha colpito senza preavviso.
Ora ti chiedi se tu sia veramente il migliore e per la prima volta ti rendi conto di temere la risposta.
LinguaItaliano
Data di uscita2 gen 2023
ISBN9788866604280
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    Anteprima del libro

    Il proiettile fantasma - Massimiliano Rossi

    Tavola dei Contenuti (TOC)

    Titolo pagina

    PROLOGO UNO

    PROLOGO DUE

    1.

    2.

    3.

    4.

    5.

    6.

    7.

    8.

    9.

    10.

    11.

    12.

    13.

    14.

    15.

    16.

    17.

    18.

    19.

    20.

    21.

    22.

    23.

    24.

    25.

    26.

    27.

    28.

    29.

    30.

    31.

    32.

    33.

    34.

    35.

    36.

    37.

    38.

    39.

    40.

    41.

    42.

    43.

    44.

    45.

    46.

    47.

    48.

    50.

    EPILOGO UNO

    EPILOGO DUE

    POSTFAZIONE

    È solo questione di tempo

    cover.jpg

    Dallo stesso Autore del Legal Thriller

    È SOLO QUESTIONE DI TEMPO

    Massimiliano Rossi

    Il proiettile fantasma

    img1.png

    ISBN versione digitale

    978-88-6660-427-3

    Legal Thriller

    IL PROIETTILE FANTASMA

    Autore: Massimiliano Rossi

    © CIESSE Edizioni

    www.ciesseedizioni.it

    info@ciesseedizioni.it - ciessedizioni@pec.it

    I Edizione stampata nel mese di gennaio 2023

    Impostazione grafica e progetto copertina: © CIESSE Edizioni

    Immagine di copertina: Licenza Creative Commons CC0

    (libero uso commerciale, attribuzione non richiesta)

    img2.png

    Collana: I NOSTRI NOIR

    Editing a cura di: Renato Costa

    Editore e Direttore Editoriale: Carlo Santi

    PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA

    Tutti i diritti sono riservati.

    È vietata ogni riproduzione dell’opera, anche parziale, pertanto nessuno stralcio di questa pubblicazione potrà essere riprodotto, distribuito o trasmesso in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo senza che l'Editore abbia prestato preventivamente il consenso.

    Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi ed eventi narrati sono il frutto della fantasia dell’autore o sono usati in maniera fittizia. Qualsiasi somiglianza con persone reali, viventi o defunte, eventi o luoghi esistenti è da ritenersi puramente casuale.

    Ai miei figli

    Non troverai mai la verità se non sei disposto

    ad accettare anche quello che non ti aspetti.

    Eraclito

    PROLOGO UNO

    Qualche anno prima.

    L’autovettura procedeva a velocità sostenuta lungo l’autostrada quasi deserta. Una leggera foschia, abituale in quel periodo dell’anno, rendeva irreale il paesaggio notturno della Pianura Padana. In sottofondo si sentivano le note malinconiche di una canzone di Jim Croce.

    L’uomo alla guida, appena più di un ragazzo, teneva lo sguardo fisso sulla striscia d’asfalto che si stendeva monotona davanti a lui. Era evidente che stava pensando ad altro. Al suo fianco Carlo Pellegrini, brillante avvocato penalista, non faceva altro che rispondere al telefono.

    Improvvisamente al guidatore scappò un sorriso. Aveva ancora negli occhi la scena cui aveva assistito qualche ora prima nell’aula di udienza del palazzo di giustizia di Padova. A cosa posso paragonare quello che ho appena visto?

    In quel momento, senza neanche rendersene conto, si trovò a vivere le fantasie più imprevedibili. In un attimo era diventato Maarbale, il comandante della cavalleria di Annibale che, nella pianura di Canne, aveva visto l’esercito romano andare incontro a un’umiliante disfatta.

    Sorrise di nuovo.

    «Che cosa hai da sorridere continuamente?», gli chiese Annibale, cioè Pellegrini, mentre chiudeva l’ennesima telefonata con la speranza di essere lasciato in pace per qualche minuto.

    Guido Manfredi, il suo giovane collega di studio, smise di inseguire la cavalleria romana in rotta e tornò nel mondo reale.

    «Stavo ripensando alla scena».

    In un angolo remoto della sua mente rivisse, in pochi attimi, il processo che si era appena concluso. La sicurezza del pubblico ministero prima dell’udienza, la sua finta cordialità – tipica di chi è talmente sicuro del risultato finale da permettersi di essere affabile con il proprio avversario – l’ingresso solenne della Corte d’assise, i visi dei giudici con un’espressione allo stesso tempo severa e annoiata, come se già sapessero come sarebbe andata a finire.

    Poi la semplice eccezione, geniale nella sua imprevedibilità, che con fare fintamente innocente veniva sollevata dalla difesa dell’imputato. Il pubblico ministero, in un attimo, perdeva tutta la sua sicurezza e si affannava inutilmente a cercare tra i numerosi faldoni il documento che potesse salvare lui e il processo. Ma quella carta non esisteva da nessuna parte. In pochi secondi, incredibilmente, era tutto finito.

    «Sai come chiamano gli americani quello che hai appena visto?»

    Era un classico. Il maestro si divertiva a porre domande di cui già sapeva la risposta, certo che il suo interlocutore la ignorasse. In fondo, di maestro ce n’era uno solo e al discepolo restava ancora molto da imparare.

    «Lo chiamano "il proiettile fantasma". È il colpo che arriva senza farsi vedere e quando te ne accorgi è troppo tardi per rimediare. Rappresenta una delle possibili conseguenze di un processo preparato con approssimazione. Devi studiare con attenzione le carte, verificare tutto, valutare anche il più piccolo dettaglio. Quando osservi un comportamento anomalo del tuo avversario, non pensare che sia uno stupido e non abbia capito nulla.  Sii umile. Prendi in seria considerazione l’ipotesi che stia solo fingendo e che in realtà sia molto più furbo di te».

    Per dare maggiore efficacia a quello che aveva appena detto, rimase per qualche secondo in silenzio. La mente di Manfredi ritornò a Canne, cercando di immaginare che cosa avessero pensato i Romani quando avevano visto il bizzarro schieramento dell’esercito cartaginese senza intuire in quale trappola stavan0 per cacciarsi.

    Passato il tempo necessario per valutare l’effetto delle sue parole, Pellegrini riprese il suo ragionamento.

    «L’esperienza di questo pomeriggio ti deve insegnare anche un’altra cosa. L’udienza è andata in modo perfetto, esattamente come l’avevamo preparata. Ma, ricordati, oggi la fortuna è stata dalla nostra parte. Non commettere l’errore di cercare di ripeterla a tutti i costi. Ogni processo ha la sua storia… e la tua abilità consisterà proprio nel riuscire a interpretarla nel modo corretto».

    In quel momento avvertì una vibrazione del cellulare. Prese in mano l’apparecchio e questa volta toccò a lui sorridere.

    «È Claudia. Dice che se ci sbrighiamo a tornare, c’è un piatto caldo di tortellini che ci aspetta».

    Istintivamente Manfredi spinse il pedale dell’acceleratore, mentre ripensava alle parole che aveva appena ascoltato, in particolare quelle relative alla necessità di restare umili.

     In sottofondo Jim Croce continuava a blaterare dei suoi problemi senza soluzione.

    PROLOGO DUE

    Qualche giorno prima.

    Cesare Bonini aveva due passioni.

    La prima erano i soldi: farli e spenderli. Fare soldi non era mai stato un problema per lui. Da molti anni ormai era probabilmente il migliore avvocato penalista del Foro di Grosseto. Comunque – e in fondo era la cosa più importante – era il meglio pagato. In pratica non c’era professionista o imprenditore della zona che, una volta nei guai con la giustizia, non corresse da lui nella speranza di trovare il rimedio meno doloroso ai propri problemi giudiziari.

    Anche spenderli era una cosa che gli veniva bene, soprattutto grazie alla moglie siberiana, che da qualche anno aveva lasciato il suo lavoro da modella per avere più tempo per sé e per i suoi innocenti capricci.

    La seconda era la bicicletta.

    Anzi, per essere più precisi, la sua vera passione era andare in bicicletta. In qualsiasi stagione dell’anno e con qualsiasi tempo, non appena aveva un paio d’ore libere, si precipitava in garage e inforcava una delle sue biciclette per un giro tra le colline attorno alla sua splendida villa con vista sull’isola d’Elba.

    Quel sabato pomeriggio d’inizio giugno, come al solito, era a fare un giro. Non gli restava molto tempo per rientrare a casa e prepararsi per andare a teatro con la moglie, quindi, per non fare tardi, non si era allontanato troppo.

    Bonini sorrideva, mentre lanciava la sua bicicletta lungo una ripida discesa che terminava con un ampio curvone. In basso, sotto lo stretto ponte di mattoni rossi, scorreva faticosamente un fiumiciattolo che, durante la stagione estiva, non arrivava a scaricare le acque in mare. Sentiva il vento caldo entrargli nei polmoni e fargli vibrare il cappellino con cui si copriva la testa ormai calva e, incredibile a dirsi, gli bastava questo per essere felice come non gli capitava da nessun’altra parte.

    Sorrideva, mentre la bicicletta divorava la strada, sullo sfondo le soleggiate colline ricolme di viti e ulivi si alternavano con un mare dall’azzurro intenso. Non poteva fare a meno di pensare che quella era vita.

    Forse non avrebbe sorriso se avesse saputo che quello sarebbe stato il suo ultimo giro in bicicletta e che di lì a poco sarebbe morto.

    L’uomo appoggiò il binocolo sul sedile, quindi ricollegò i fili di accensione sotto il volante e ripartì lentamente, mentre una leggera nube di polvere si sollevava dalla strada sterrata. Lo stato della pavimentazione, per effetto dei temporali del mese precedente, era pessimo e varie linee di frattura attraversavano la sede stradale. Era saggio procedere con cautela per evitare di danneggiare l’autovettura e lui, avendo lungamente studiato i luoghi, poteva permettersi di procedere senza fretta.

    L’autovettura, sufficientemente datata per non dare nell’occhio, era stata rubata poche ore prima in una strada secondaria non molto lontana da lì. Aveva preparato tutto con cura ed era sicuro che non ci sarebbero stati problemi. In quel momento si sorprese a pensare che, in fondo, non provava un particolare piacere a fare quello che stava per fare.

    Mentre si avvicinava all’uomo in bicicletta che gli stava venendo incontro, si guardò intorno per sincerarsi che in giro non ci fosse nessuno. Vide per l’ennesima volta le dolci colline intorno a lui e per un attimo nella sua mente si fece strada l’idea che una volta in pensione gli sarebbe piaciuto abitare in un posto del genere.

    Solo per un attimo.

    Poi premette con decisione all’acceleratore, mentre l’autovettura, seguendo docilmente i suoi comandi, si diresse verso il ciclista. Era chiaro che la pensione poteva aspettare.

    1.

    La stagione estiva era agli inizi e i turisti non erano ancora arrivati. L’autovettura correva veloce lungo l’Aurelia nel traffico scorrevole di metà giugno. Alla guida c’era Jerry, l’autista filippino, che dalla stazione ferroviaria di Grosseto non era stato zitto neanche per un attimo.

    Ero seduto al suo fianco e, ignorando il climatizzatore, tenevo il finestrino aperto per assaporare l’aria che portava con sé il sapore del mare e per godermi fino in fondo il paesaggio che mi stava intorno. Ogni tanto, ascoltando Jerry, mi veniva da sorridere. Il suo modo di parlare era un misto di dialetto del luogo, di italiano non ancora assimilato e un terzo idioma di difficile collocazione. Ma a mettermi di buon umore, in realtà, era la sua pretesa di descrivermi luoghi che conoscevo molto meglio di lui.

    Io, infatti, Guido Manfredi, avvocato penalista del Foro di Bologna, ero nato da quelle parti e in quei luoghi ero vissuto fino a quando non ero andato via per l’università. I ricordi della mia infanzia e della mia adolescenza erano indissolubilmente legati a quelle dolci colline, a quel mare azzurro e a quel vento così forte e caldo da togliere il respiro.

    Erano ormai diversi anni che non tornavo da quelle parti. Mio padre, all’epoca un militare in servizio presso la base aeronautica lì vicino, era morto molti anni prima. Mia madre, subito dopo, si era trasferita a Roma per stare vicino a mio fratello e ai nipoti. Mi ero ritrovato a non avere più una famiglia da andare a trovare da quelle parti e, un po’ alla volta, quasi senza accorgermene, non ci ero tornato più. In quel momento mi rendevo conto che, negli anni successivi, mi era sempre mancato qualcosa anche se, fino a quel giorno, non avevo mai capito cosa.

    Improvvisamente, quasi senza rallentare, l’autovettura sterzò bruscamente a destra allontanandosi dalla Statale per inerpicarsi lungo una salita che portava alle colline che in quella zona arrivano a pochi chilometri dal mare. Nel frattempo Jerry, senza che nessuno glielo avesse chiesto, stava declamando le qualità di un ristorante dov’era possibile mangiare un ottimo pesce senza dover spendere una follia. Ormai quasi non lo ascoltavo più, mentre cercavo di ricordarmi con esattezza il punto dove, con Riccardo, il mio compagno di mille avventure degli anni del liceo, ero uscito di strada con il motorino che avevamo preso in prestito alla sorella. Per quanti sforzi facessi non ci riuscii. Forse, mi dissi, i luoghi erano molto cambiati da allora. Ma in realtà avevo l’impressione che, come per un incantesimo, tutto fosse rimasto esattamente com’era.

    In quel momento fui investito dalla consapevolezza che, in realtà, ero io a essere cambiato. Fu una sensazione spiacevole che mi colse proprio nel momento in cui l’automobile, senza neanche rallentare, superò un cancello elettrico apertosi un attimo prima. Jerry era diventato meno loquace mentre percorrevamo una strada di ciottoli bianchi, quasi completamente riparata dalle chiome frondose di alberi di alto fusto che le correvano ai lati. L’inconfondibile rumore delle gomme sull’acciottolato copriva i deboli suoni della campagna al tramonto.

    Dopo qualche metro l’automobile si fermò nello spiazzo davanti alla villa. Lì vicino, seminascosta dietro una siepe, era parcheggiata un’utilitaria. Appena uscito dall’abitacolo mi guardai intorno per ammirare il panorama che si godeva in direzione di Follonica. Le luci della città non erano ancora accese mentre il vento, come per effetto di una magia che ben conoscevo, si era improvvisamente fermato. Tra non molto avrebbe ricominciato a soffiare in direzione del mare.

    In fondo non era cambiato nulla.

    La villa era impressionante, immensa, con tante finestre di varie dimensioni. La facciata era di un rosa pallido e l’unica nota di vivacità era data dalle tapparelle color mattone.

    Dalla porta principale uscì una piccola donna di origine asiatica, che lanciò un’occhiataccia al mio accompagnatore, mentre lo apostrofava con brevi parole in una lingua a me sconosciuta. Anche Jerry biascicò qualche parola in tono difensivo. Dall’espressione del suo volto, mentre cercava con lo sguardo un cenno di comprensione da parte mia, si capiva che non stava più pensando al pesce del ristorante lì vicino.

    La donna quindi chiuse il siparietto che si era creato con un’ultima occhiataccia e si rivolse a me con il migliore dei suoi sorrisi.

    «Buonasera, avvocato Manfredi. Io sono Jane. La signora Norton ti sta aspettando nel salone. Ti faccio vedere la strada».

    Era una buona notizia. In fondo ero lì proprio per quello.

    2.

    L’interno della villa non deludeva le attese. Superata la porta, si entrava nell’ingresso vero e proprio che, dopo un maestoso arco a volta, metteva in un ampio salone. Sulla parete di destra si notava una porta quasi nascosta che, come avrei scoperto in seguito, conduceva al garage.

    In sottofondo si sentivano un paio di voci femminili che sparirono non appena si richiuse la porta alle mie spalle. Una sensazione di attesa era nell’aria.

    Le pareti erano tappezzate con un tessuto di raso dai colori tenui, mentre alcuni ritratti, costretti dentro impegnative cornici d’epoca, riempivano i pochi spazi lasciati liberi dalle imponenti librerie. I ripiani erano ricolmi di oggetti di vario tipo e dalle forme vagamente esotiche. In corrispondenza dell’arco che introduceva al salone c’erano due armature quasi identiche: guerrieri medioevali con tanto di alabarde.

    Si capiva che i soldi per il proprietario non erano un problema ma questo non significava che le cose stessero andando per il verso giusto.

    In fondo all’ampio salone c’erano due donne sedute su un divano che mi studiavano senza nemmeno fingere di avere altro di meglio da fare. Del resto, anch’io ero arrivato preparato e sapevo chi mi sarei trovato davanti.

    La donna più alta e dai tratti orientali era Eva Norton, la mia futura cliente. Sembrava uscita da una rivista di moda piena di splendide quarantenni che, come per magia, mostrano quindici anni di meno e un fascino difficile da trovare in una donna più giovane. Il suo sorriso di cortesia, timido e determinato allo stesso tempo, sembrava le costasse una certa fatica. C’era qualcosa di enigmatico in lei che consigliava di non sbilanciarsi in giudizi sulla sua persona. L’unico pensiero era che la stragrande maggioranza degli uomini avrebbe fatto carte false per portarsela a letto.

    Indossava un abito estivo in tinta pastello che quasi si confondeva con il colore del divano alle sue spalle. Era, come molte donne orientali (pur avendo in realtà – a detta dei giornali – il padre americano), estremamente sensuale e, senza entrare troppo nei particolari, a dir poco bellissima.

    L’altra donna era Gaia Pistolesi, avvocato e amica della Norton. Di qualche anno più giovane, riusciva a  reggere il difficile confronto con la sua amica, soprattutto grazie a una sensualità naturale che si sforzava inutilmente di celare. Da seduta sembrava piuttosto alta e mostrava un fisico snello e scattante che emanava una certa energia. Era, per utilizzare l’espressione del mio amico Paolo Pinardi – un cultore della materia – una ragazza che aveva un suo perché. Anzi, come avrei avuto modo di scoprire in seguito, molti più di uno.

    Gaia portava i capelli scuri raccolti in una coda di cavallo da cui uscivano dei ciuffi che le incorniciavano i lati del viso. Unitamente alle lentiggini, contribuivano a darle un’aria giovanile e leggera. Era gradevolmente abbronzata e teneva le gambe scoperte fin sopra il ginocchio strette l’una all’altra.

    Eva si alzò dal divano e mi strinse la mano con una certa energia. L’espressione del viso palesava un’evidente preoccupazione. Il suo sguardo mi soppesava, cercando di capire se la persona che le stava davanti fosse la soluzione al suo problema.

    «Avvocato Manfredi, è un vero piacere conoscerla di persona. La ringrazio per essere stato così rapido a raccogliere il mio invito».

    «Il piacere è davvero tutto mio, gentile signora. E poi, stando a quello che mi ha riferito al telefono, mi è sembrata una situazione che richiedeva la mia immediata presenza. Spero davvero di esserle di aiuto».

    «Ne sono convinta. Io e la mia amica Gaia stavamo prendendo un aperitivo prima di cenare. Gradisce anche lei qualcosa?»

    «Quello che state prendendo voi andrà benissimo».

    Dopo qualche istante di indecisione, anche Gaia aveva deciso di alzarsi e mi aveva salutato con una rapida stretta di mano e un sorriso appena accennato. Intuivo, prima ancora di coglierla in gesti concreti, una dissimulata forma di ostilità nei miei confronti. Non bisognava essere degli studiosi del linguaggio non verbale per capire che la mia convocazione non era stata certamente una sua idea. Ma non era un aspetto fondamentale, visto che comunque non era lei a comandare ma, almeno in teoria, chi le stava a fianco. Una donna che evidentemente doveva avere un certo carattere, se aveva deciso di nominare un avvocato sconosciuto a pochi giorni dall’inizio di un processo in cui era accusata dell’omicidio del convivente.

    Eva fece quindi un cenno a Jane, che stava aspettando istruzioni in fondo al salone. La domestica diede segno di aver capito e sparì rapidamente dietro una porta a scomparsa che chiuse alle sue spalle.

    Intanto mi ero accomodato sul divano di fronte a quello su cui erano sedute le due donne. Tra di noi c’era un tavolino basso di cristallo ricoperto di riviste femminili accatastate alla rinfusa. Era l’unica cosa in disordine di tutta la sala. La casa trasmetteva una sensazione di tranquillità, come se nulla di brutto potesse accadere in un luogo così sicuro. Era evidente che si trattava di una sensazione ingannevole.

    Mentre Gaia si limitava a sorseggiare la bibita che teneva con entrambe le mani osservandomi dalla testa ai piedi alla ricerca di un particolare fuori posto, fu Eva a prendere la parola con un tono di voce caldo e avvolgente.

    «Gentile avvocato, come ben sa a volte la vita ci riserva sorprese non proprio piacevoli. Se solo qualche mese fa mi avessero detto che mi sarei trovata nelle condizioni in cui mi trovo adesso, mi sarebbe venuto da ridere. Ma purtroppo ora non ne ho più voglia...»

    Un velo di tristezza le oscurò lo sguardo, ma solo per un attimo. In quel momento non potei fare a meno di pensare che era sincera o era una grande attrice.

    «Visto che non abbiamo molto tempo, direi di farle un quadro preliminare della situazione molto più completo di quello che ho potuto fare per telefono».

    La donna, dopo una breva pausa, riprese con un tono di voce assolutamente inespressivo, completamente diverso da quello usato fino a un attimo prima.

    «Come le ho accennato l’altro giorno, sono accusata dell’omicidio del mio convivente, Leonardo Paci, avvenuto in questa villa la notte tra il 9 e il 10 settembre dell’anno scorso. Il processo comincerà davanti alla Corte d’assise di Grosseto il 4 luglio prossimo, ossia tra meno di un mese».

    Non appena sentii quanto poco tempo avrei avuto a disposizione per preparare la difesa in un processo che si preannunciava così delicato e complesso, non potei evitare di fare un movimento istintivo con il collo, quasi che non volessi credere a quello che avevo appena sentito. Se fossi stato un avvocato dotato di normale buon senso mi sarei alzato, avrei salutato le mie gentili ospiti e tolto il disturbo.

     Ma io ovviamente non praticavo la professione per essere soltanto un buon avvocato. Avevo l’ambizione di essere il migliore e un’impresa disperata era proprio quello che cercavo.

    Eva, che evidentemente era un’ottima osservatrice, si era resa conto della mia reazione e aveva ripreso a parlare con un tono della voce che lasciava trasparire una nota di preoccupazione dissimulata fino a quel momento.

     Gaia, nel frattempo, teneva il bicchiere vuoto tra le mani, mentre continuava compulsivamente a muovere il piede della gamba accavallata. L’espressione sul suo viso era quella di una persona consapevole che il tempo a disposizione era poco e quel poco lo stavano sprecando con un tizio che non era in grado di aiutarle.

    «Sì, lo so, è un tempo maledettamente breve per preparare un processo che non si conosce minimamente. Ma purtroppo in questo caso ci troviamo a dover giocare una partita in cui non siamo noi a dare le carte. Il motivo per cui è stato convocato è che il mio difensore, l’avvocato Bonini, ha perso la vita in un incidente stradale qualche giorno fa. Si trattava di un professionista estremamente preparato, esperto e affidabile, che mi difendeva insieme alla mia amica Gaia qui presente, sua collega di studio».

    Gaia, sentendosi chiamata in causa, alzò il bicchiere vuoto che teneva in mano come per fare finta di bere alla mia salute. Rimaneva in silenzio. Col passare dei minuti si rafforzava in lei l’idea che io fossi l’ultima persona con cui era il caso di condividere le informazioni sul processo.

    «Che tipo di incidente stradale?», mi affrettai a chiedere al tempo stesso incuriosito e preoccupato dalla coincidenza.

    «Bonini è stato investito da un pirata della strada mentre andava in bicicletta a pochi chilometri da casa. I Carabinieri stanno svolgendo indagini scrupolose, anche in considerazione della notorietà della vittima, ma al momento il colpevole non è stato identificato. Stando alle indiscrezioni raccolte, non pare ci siano molte possibilità di rintracciarlo. In pratica ci vorrebbe un miracolo».

    Non riuscii a trattenermi dal fare una piccola smorfia. Per esperienza ero portato a non credere ai miracoli. E neanche alle coincidenze.

    A quel punto Eva, evidentemente più preoccupata della sua sorte giudiziaria che degli sviluppi delle indagini sulla morte del suo precedente difensore, riportò il discorso sulla questione che le stava davvero a cuore.

    «Quindi la situazione è questa. Gaia è un ottimo avvocato ma non si è mai occupata di processi penali. Mi rappresenta solo per amicizia e perché faceva da collegamento tra me e Bonini. Io ho disperatamente bisogno di un avvocato preparato e brillante che, in poco tempo, sia in grado di assumere la mia difesa e mi faccia assolvere da un’accusa totalmente infondata. In altre parole, abbiamo bisogno di lei, avvocato Manfredi. Mi rendo conto, le sto chiedendo un impegno molto gravoso, ma sono sicura che solo lei può tirarmi fuori da questo pasticcio».

    «Perché ha pensato a me per questo incarico?»

    Eva fu come percorsa da un tremito e impiegò qualche istante a cambiare la posizione delle gambe mentre riordinava le idee. Quindi mi rivolse uno sguardo difficile da decifrare, seguito dall’imitazione di un sorriso.

    «Avvocato Manfredi, io ho origini molto umili e sin da bambina ho dovuto contare, per la mia sopravvivenza, esclusivamente su me stessa, sulle mie forze e sulla mia capacità di valutare le persone. In questo periodo mi trovo agli arresti domiciliari e ho molto tempo a mia disposizione. Appena saputo della disgrazia che è capitata all’avvocato Bonini ho subito pensato a lei. Non mi chieda quale sia stato il motivo perché non saprei indicarglielo. Sono una persona che non sta tanto a ragionare sulle cose. In questo caso il mio intuito, che di solito non sbaglia, mi ha indicato lei come la persona giusta per difendermi. So che, pur essendo ancora giovane, ha già ottenuto importanti successi professionali. Da ciò che ho letto sui giornali ho potuto valutare la sua professionalità, la sua capacità di leggere i fatti senza fermarsi all’apparenza, la sua determinazione nello scoprire la verità. Non ho avuto alcun dubbio: lei l’unica persona che può salvarmi da questa situazione. Sempre che voglia accettare l’incarico».

    Fa sempre piacere ricevere dei complimenti, al di là che siano meritati o meno. Nel caso specifico, poi, erano sicuramente sinceri e nulla può lusingare di più un professionista. Posai il bicchiere e, senza la minima espressione, mi preparai a rispondere.

    In quel momento, però, comparve in fondo al salone Jane: la cena era pronta.

    Eva si alzò e con un sorriso che la rendeva ancora più intrigante disse: «La cena è pronta e so per esperienza che non è il caso di far arrabbiare Jane.  Approfittando della splendida giornata, ho fatto apparecchiare in veranda, dove potremo proseguire la nostra conversazione».

    Ovviamente la cosa non mi dispiaceva affatto. Tenni per me la risposta che avevo in mente e seguii la scia di profumo delle due donne che mi facevano strada. Nel frattempo mi auguravo che, anche in quel caso, l’intuito di Eva ci avesse preso.

    3.

    «Forse non è stata una buona idea…»

    Il tono della voce di Davide Sottani evidenziava che non lo era stata affatto. Il suo sguardo si soffermava con un certo rimpianto in direzione del tavolo verde, visibile oltre la porta-finestra che dava sul giardino, completamente ricoperto di carte e gettoni colorati. La partita di poker tra amici era stata interrotta proprio quando il suo mucchio di gettoni era più ricco di quello degli altri tre giocatori. Ma non era questo il motivo del suo rammarico.

    Sottani era ricco e il denaro per lui aveva un’importanza relativa. Il problema era che senza Leonardo la serata tra amici non era più quella di prima. Era allo stesso tempo molto simile e completamente diversa, e la nuova situazione non gli piaceva proprio per niente.

    «Un tempo facevamo lunghi viaggi tutti insieme e adesso non riusciamo neanche a stare qualche ora a giocare a carte. Se continua così, non ci resterà che darci alle bocce… In un certo senso non siamo neanche più un gruppo di amici ma degli estranei che hanno l’abitudine di ritrovarsi di tanto in tanto a parlare non si sa bene di cosa».

    Era stato il padrone di casa a parlare, Giorgio Vincenzi, socio di minoranza della società calzaturiera di cui il defunto Paci era stato il presidente del consiglio di amministrazione e socio di maggioranza assoluta. Aveva, come Sottani, oltre sessant’anni e, considerando il suo stile di vita, si poteva considerare un risultato lusinghiero che ne dimostrasse appena pochi di più. Una barba ben curata, ormai più bianca

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