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Storie strambe di periferia: Racconti brevi divertenti
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E-book293 pagine4 ore

Storie strambe di periferia: Racconti brevi divertenti

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Info su questo ebook

Scimmie in calore e chihuahua indemoniati, ninfomani incomprese ed ex-pugili in agguato, pappagalli mannari, finti sushi-bar e il fast food più sudicio del mondo. Nelle parole di chi li ha vissuti, subiti e incontrati di persona, Storie strambe di periferia offre un campionario di eventi e personaggi neanche troppo surreali, sullo sfondo della periferia a tratti bucolica e a tratti sinistra di una Roma sempre piena di sorprese.

La raccolta contiene i seguenti racconti:
- Spazzatour de force
- L'audace colpo della scimmia in calore
- Un tranquillo giovedì di fine agosto
- Un giorno di ordinaria illegalità
- Piacere di non conoscerti
- La ronda di capodanno
- L'alba del pianeta delle formiche
- La rivincita del non villeggiante
- Take away​

Andrea Lombardi è autore poco prolifico di sceneggiature di scarso successo, fiabe per bambini e racconti quasi sempre poco seri, vagamente surreali e almeno in parte autobiografici. È nato a Roma, dove per fortuna o per disgrazia abita da sempre.
LinguaItaliano
Data di uscita10 mag 2024
ISBN9783759216700
Storie strambe di periferia: Racconti brevi divertenti
Autore

Andrea Lombardi

Andrea Lombardi è autore poco prolifico di sceneggiature di scarso successo, fiabe per bambini e racconti quasi sempre poco seri, vagamente surreali e almeno in parte autobiografici.È nato a Roma, dove per fortuna o per disgrazia abita da sempre.

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    Anteprima del libro

    Storie strambe di periferia - Andrea Lombardi

    Spazzatour de force

    Il sole era ancora alto, quel venerdì, quando rientrai a casa con la camicia sbottonata e un sorriso rilassato in faccia. La giornata in ufficio – come del resto tutta la settimana – era stata quasi un giorno di ferie, una di quelle giornate in cui l’impegno più arduo è la scelta dei calzini prima di uscire di casa e della tavola calda in cui godersi una pausa pranzo più lunga del solito.

    A casa mi aspettavano una serata e un weekend altrettanto riposanti. Ringraziando il cielo un paio di mesi prima avevo avuto il buon senso di abbandonare la palestra, e Marina, la mia coinquilina, sarebbe stata fuori per una trasferta di lavoro fino al martedì successivo. Prima di partire aveva anche avuto la delicatezza di dare una pulita a casa, forse in segno di riconoscenza per quasi due anni di passaggi in macchina e per il fatto che non mi pagasse l’affitto ormai da quasi otto mesi.

    Insomma, quelli che avevo davanti erano quattro giorni di libertà assoluta, con la casa in ordine e l’utilizzo esclusivo e incondizionato di TV, stereo e bacinella da pediluvio. Davvero non potevo chiedere di più!

    Whiskey, otto chili di gatto raccolti da un marciapiede nove anni prima, mi seguiva con aria annoiata mentre guardavo compiaciuto i riflessi sul pavimento e sui ripiani spolverati della libreria, il frigorifero pieno zeppo di birra e di Spuma e la credenza carica di patatine, popcorn e buste di pistacchi, pregustando con la bava alla bocca due giorni e quattro ore di ozio assoluto, ancorato al divano, al telecomando e a un cuscino formato orso polare.

    La situazione era semplicemente perfetta, ogni cosa al suo posto ed io in pace con me stesso. Tornando a casa avevo persino fatto l’elemosina a un senzatetto dall’aria simpatica e perfettamente sobrio, e l’aver procurato un pasto caldo a quel poveretto aveva contribuito – insieme a un paio di tramezzini e altrettante gazzose – all’evoluzione in positivo di quella giornata.

    Non mi sentivo così bene da più di vent’anni, da quando mia nonna aveva perso la dentiera e io gliel’avevo ritrovata quasi per caso nel cassetto delle posate. In occasioni del genere mi ritrovavo spesso a guardare la foto di mia madre sul comodino, ringraziando il cielo per ciò che avevo e avevo avuto in passato, quindi scoppiavo a piangere come un lavandino rotto. Ma non quella volta.

    Non capivo perché, eppure sentivo che sotto sotto mancava qualcosa. Per qualche strano, inspiegabile motivo avevo la sensazione, forse inconscia ma nettissima, che in quel venerdì sera le cose sarebbero potute andare ancora meglio, anche se non sapevo come.

    A illuminarmi fu il vociare allegro oltre la porta e le finestre, insieme alla luce rossastra della prima sera che finalmente mi mostrò la via per un weekend davvero perfetto. Capii in un istante che non era ancora il momento di estraniarsi dal mondo e tapparsi in casa come un eremita, sbattendo la porta in faccia alla primavera inoltrata in una sera che tanto ancora poteva dare a chi avesse saputo cogliere il richiamo della natura e della vita all’aria aperta.

    Lì fuori c’era un mondo di comitive festanti, di giovani ben vestiti e profumati, di ragazze in gonna e di gelsomini in fiore, ed io da solo, chiuso in casa come un riccio a perdermi uno spettacolo che da lì a poche settimane sarebbe appassito come una foglia in autunno. Assolutamente no, non potevo permettermelo! Il rimorso mi avrebbe perseguitato per almeno due giorni e per tutta la sera, mentre, appollaiato davanti al televisore come un pensionato con l’influenza, nelle orecchie mi sarebbero ronzate le risa gioiose di chi si godeva la vita alla faccia mia.

    Era questo – finalmente ne ero più che sicuro – a non farmi stare ancora del tutto tranquillo: il richiamo della vita fuori dalla tana, il calore e la gioia di un mondo da cui sentivo di non volermi ancora staccare.

    Questo, e il fetore della spazzatura in fermentazione che soffiava venti fetidi da sotto il lavello della cucina.

    La soddisfazione e il mio senso di pace raddoppiarono di colpo grazie alla chiave di quell’enigma, la scoperta del tassello che avrebbe reso una bella serata finalmente perfetta, spalancando le porte a un weekend destinato a entrare negli annali. Sarei uscito per liberarmi di quel fardello maleodorante, restituendo alla casa un’atmosfera salubre e godendomi al contempo gli ultimi scampoli di una serata tiepida e profumata. Avrei condiviso gli ultimi raggi di sole con frotte di fanciulle e bei giovanotti, prima di lasciare loro ad aperitivi e flirt pre-estivi e me alla meritata pace del divano, sul quale mi sarei finalmente abbandonato in compagnia di Whiskey e del primo quarto d’ora di un bel film, prima che la birra e una buona dose di carciofini sott’olio mi consegnassero definitivamente al sonno dei giusti.

    Erano da poco passate le sette quando mi chiusi la porta di casa alle spalle. Il rumore dei graffi con cui da dentro Whiskey provava a scavarsi un varco attraverso la porta non mi preoccupò più di tanto. L’odore delle lische in putrefazione lo aveva sempre eccitato, e il panetto di burro rancido che avevo risvegliato da un lungo letargo in frigo doveva aver creato, aggiungendosi a quel fetore, un mix irresistibile per il suo raffinatissimo fiuto di gatto randagio di periferia. In ogni caso non avrebbe potuto fare troppi danni nei cinque, dieci minuti al massimo in cui sarei stato via.

    M’incamminai lungo il vialetto che portava alla strada e, mentre il tepore dell’ultimo sole mi accarezzava le braccia e i capelli, incrociai la figura cupa del signor Carrozzi mentre rientrava dalla stessa missione a cui anch’io mi accingevo, fortunatamente con tutt’altra disposizione d’animo e con un entusiasmo che quel povero vecchio doveva aver lasciato nei meandri oscuri della sua infanzia.

    Ecco un uomo che non sa come godersi la vita, pensai. L’aria annoiata, anzi indispettita, le ciabatte di cuoio nero e una camicia a maniche corte aperta su una canottiera visibilmente macchiata, confermavano l’apparenza di un uomo solo e fondamentalmente triste. Un animale in pena a sua insaputa, preda degli istinti e dei bisogni materiali e che mai avrebbe saputo riconoscere, nella brevissima e solo apparentemente banale escursione dall’uscio di casa al cassonetto al di là della strada, le gioie della vita che si palesavano invece a me passo dopo passo.

    Mi lasciai alle spalle quel fantasma e varcai il cancelletto condominiale. Subito una brezza tiepida e profumata abbracciò me e il mio sacchetto, allontanando il puzzo di una settimana di cene e colazioni e anche l’ultimo dei dubbi di aver fatto la scelta giusta nell’infilare un paio d’infradito, una canotta di lino e uscire di casa a godermi la primavera.

    Il profumo dei glicini e dei gelsomini in fiore accompagnava il cinguettio di rondini, passeri e merli, mentre il vociare delle mamme all’opera in cucina rendeva vivi vicoli e palazzi, dove qualche lampadario iniziava ad affiancare le ultime luci di un pomeriggio quieto ed allegro. La strada era viva, era vivo il quartiere ed io più che mai, mentre con il mio sacchetto mi guardavo intorno fischiettando allegramente.

    Il primo cassonetto pieno passò quasi inosservato e quasi non mi accorsi neanche del secondo, tanto mi rallegrò il prolungarsi imprevisto della mia passeggiata di piacere.

    Dopo il sesto cassonetto traboccante d’immondizia cominciai però a notare che qualcosa non andava, anche perché finalmente mi accorsi dei cumuli di spazzatura adagiati ai bordi della strada, così come del fatto che quello che fino ad allora avevo scambiato per il profumo pungente del rincospermo in fiore altro non era che il tanfo acre di frutta marcia al sole da chissà quanti giorni.

    Subito pensai a uno sciopero dei netturbini, mentre notavo come le mandrie di giovani che m’immaginavo già sulla via di bar e ristoranti dovessero aver scelto di restarsene a casa a giocare alla PlayStation, lasciandomi da solo in mezzo a una strada deserta, silenziosa e decisamente puzzolente.

    Mentre continuavo a chiedermi a cosa mai si dovesse uno sciopero di tale portata, iniziai anche a pensare che probabilmente non avrei scelto le infradito se avessi saputo che il tragitto si sarebbe allungato a tal punto e che mi sarei ritrovato a fare lo slalom tra uova marce, vetri rotti e scatole di tonno taglienti come rasoi.

    L’ultimo raggio di sole sparì dietro i palazzi all’orizzonte e una ventata gelida mi arrivò sulla nuca come un ceffone, mettendomi di fronte al fatto che la canotta di lino che avevo addosso si sarebbe rivelata un tragico errore di valutazione.

    Staccata di poco, se non a pari merito, la brillante idea di scomodare dal suo fresco rifugio quel panetto di burro rancido. Nonostante il calo improvviso della temperatura, infatti, questo aveva iniziato a gocciolare dal fondo della busta, attirando l’attenzione di un branco di gatti randagi dall’aspetto particolarmente aggressivo, capeggiati da un esemplare senza coda e probabilmente cieco che soffiava come un aspirapolvere rotto mentre zigzagava a destra e a manca.

    Aumentai il passo e mi affrettai a voltare l’angolo nel tentativo di seminarli, cosa che mi riuscì di fatto con inaspettata facilità. Il perché mi fu subito chiaro quando mi ritrovai di fronte un alano dalle proporzioni equine, l’occhio assassino e il pelo sporco di grasso e sangue umano.

    Dopo un istante di profondo e sincero sgomento, accantonata la speranza della ricomparsa del mucchio selvaggio felino e di una lotta all’ultimo sangue tra gatti ed alano per la conquista del burro rancido, mi accostai al muro e camminai lentamente guardando avanti con disinvoltura, cercando di non irritare il cagnone e di mantenere al tempo stesso un minimo di dignità agli occhi di un eventuale altro passante.

    Non appena superai quella bestia un ringhio feroce dietro la schiena mi fece accapponare la pelle, non lasciandomi altra scelta se non fare ciò che qualsiasi altra persona di buon senso avrebbe fatto al mio posto, cioè saltare sulla macchina più vicina e rifugiarmi sul tettino.

    Il cane mi fissò con aria perplessa mentre dalla macchina – una Panda prima serie color verde oliva – iniziò ad urlare una sirena degna di un rimorchiatore da porto.

    Lì per lì pensai che anche in quel caso non tutti i mali venissero per nuocere, convincendomi che anche se non fosse giunto nessuno in mio soccorso quel cagnone sarebbe stato comunque tramortito dalla potenza sonora dell’antifurto. La strada però rimase deserta e il cane immobile e completamente immune a quell’antifurto, tanto che iniziai a pensare di essermi imbattuto in un rarissimo esemplare di alano sordo randagio.

    Cercando di spiazzare il quadrupede balzai non senza difficoltà sul tetto di una 126 ricoperta da due dita di ruggine, che quasi esplose sotto l’onda sonora di una sirena dalla potenza mostruosa. Una potenza acustica di gran lunga maggiore di quella dell’allarme della Panda e superata di un soffio da quello di una Passat abbandonata da almeno un decennio e risvegliata proprio da quell’onda d’urto.

    Di certo gli abitanti del quartiere dovevano reinvestire in allarmi quel che risparmiavano in fatto di auto, come ebbi modo di costatare saltando da un tetto all’altro di non meno di dodici macchine, innescando un baccano di cui probabilmente si sarebbe parlato nei decenni a venire, se solo qualcuno si fosse degnato di porgere occhio ed orecchio al mio dramma. Quello di uno sventurato in preda a una belva famelica che continuava a seguirlo pazientemente con la bava alla bocca e un metro di lingua a penzoloni.

    A quel punto iniziai a pensare che oltre allo sciopero dei netturbini dovesse essere scoppiata un’epidemia di colera o una guerra atomica globale. Non c’era infatti più una luce sui balconi o dietro alle finestre, mentre tutte quelle mamme indaffarate in cucina o si erano infilate a letto anzitempo con i tappi nelle orecchie o erano state già stroncate da una nube radioattiva.

    Anche l’alano che mi teneva in ostaggio dovette pensare qualcosa di simile. Temendo forse che anch’io fossi stato irradiato e che avrei potuto quindi complicargli la digestione, la bestia voltò le zampe e trottò via, lasciandomi a morire di stenti sul tetto di una vecchia station wagon mentre lui se ne andava in cerca di una preda più degna.

    Va detto comunque, in tutta sincerità, che quello che in preda al terrore mi era sembrato un incrocio tra un tirannosauro e una tigre siberiana, visto con più attenzione mentre saltellava via scodinzolando mi appariva ora nelle sembianze più verosimili di un cucciolo di schnauzer in cerca di un compagno di giochi. Ne ebbi la conferma, seppur indiretta, quando lo vidi soffermarsi a mordicchiare uno scarpone abbandonato, quindi scappare terrorizzato alla vista di un ramo mosso da una ventata.

    Mentre riflettevo sulle aberrazioni sensoriali di un cervello sotto stress, tanto le mie quanto quelle di quella povera bestiola, scesi finalmente dalla station wagon e ripresi il mio cammino nel silenzio più assoluto, grazie alla strada ancora deserta e alle batterie scariche di una lunga fila di auto in sosta.

    Felice per aver salvato la pelle nonostante tutto, quasi non feci caso ad altri due secchioni stracolmi. Al terzo iniziai finalmente a spazientirmi.

    Infreddolito, stanco, ormai a un paio di chilometri da casa e già vagamente affamato, per un momento mi balenò in testa l’idea di abbandonare il sacchetto sul ciglio della strada. Un’idea poi non così assurda, considerando che – a giudicare dai cumuli di spazzatura addossati ai lampioni – decine di onesti cittadini dovevano averla avuta prima di me.

    Rinunciai a quell’idea non soltanto per una questione di civiltà e di tutela del bene comune, ma soprattutto per la ferma convinzione di dover portare a termine la missione sciagurata che, oltre ad avermi rovinato la serata, se avessi desistito proprio adesso avrebbe gettato un’ombra lugubre anche sul resto del weekend.

    Se ce l’aveva fatta Carrozzi potevo farcela anch’io, non c’erano dubbi. O quantomeno così mi dicevo, convinto tra l’altro che se avessi poggiato il sacchetto a terra la strada deserta si sarebbe trasformata di colpo in un suk all’ora di punta, e molto probabilmente sarei stato linciato dalla folla inferocita per il mio attentato alla salute pubblica e al decoro del quartiere.

    Mi rimisi quindi in marcia con la mia busta maleodorante, tremando per il freddo e con il collo bloccato da una contrattura fulminante, un fischio nelle orecchie per il concerto di antifurti e con già qualche vescica sotto i piedi, giustamente poco avvezzi al trekking intenso con infradito in plastica calzati rigorosamente a pelle.

    Dopo altri novecento metri e altri sei secchioni strapieni mi sembrò di avvistare in lontananza, avvolto in una nebbia spettrale illuminata a intermittenza dalla luce stroboscopica di un lampione semi-fulminato, un cassonetto che sembrava forse – ma era più una speranza che non una constatazione – un tantino meno pieno degli altri.

    Più mi avvicinavo e affondavo lo sguardo in quella coltre di vapore e più mi convincevo che nella bocca spalancata di quella bara di lamiera ci fosse uno spiraglio in cui sarei riuscito, seppur a fatica e con una buona dose d’ingegno, a infilare il mio sacchetto.

    La vista di quel pertugio mi sembrò una secchiata d’acqua nel bel mezzo del Sahara, mentre i cigolii di assestamento provenienti dall’interno del cassonetto mi convinsero ad accelerare i tempi, prima che il varco che avrebbe spedito la mia immondizia alla sua lenta decomposizione e me al resto del weekend si fosse richiuso per sempre lasciandomi nell’incubo in cui mi ero cacciato.

    Ritrovando il sorriso mi fermai finalmente davanti al cassonetto, dove ebbi appena il tempo di udire un altro crepitio, poi un soffio sinistro e quindi schiocco, mentre un ratto simile più a una scimmia che non a un roditore puntava le zampe contro la spazzatura e decollava squittendo come un demonio!

    Mi atterrò dritto in petto, artigliando quella velina di lino che avevo addosso e spedendomi a terra un po’ per l’impatto, un po’ per lo shock che mi tagliò le gambe di netto. Iniziai a rantolare sull’asfalto come un bacarozzo sulla schiena, scalciando come un ossesso e agitando il sacchetto come fosse un’accetta, poi mi rimisi in piedi e corsi via senza sapere dove, cercando nel frattempo di strapparmi di dosso la maglietta e quel diavolo peloso.

    Dopo una decina di metri mi ritrovai di nuovo a terra privo di fiato, con il sacchetto in una mano e metà della maglietta nell’altra, un principio d’infarto in arrivo e stranamente a piedi nudi.

    Per mia fortuna il cuore resse l’impatto. Mentre maledicevo il giorno in cui avevo deciso di abbandonare la palestra dopo anni di sacrifici e di discreta forma fisica, mi voltai indietro per capire cosa ne fosse stato dei miei sandali. Ne vidi uno in mezzo alla strada, tranciato a metà dalla furia del mio scatto, l’altro in bocca al ratto, che agitando mezzo metro di coda se ne tornava trionfante nel suo secchione.

    Mi rialzai a fatica, ridotto a uno straccio e con ancora il fiatone, convinto più che mai di non poter abbandonare quel sacchetto, unica arma contro la brutalità della strada e di una natura selvaggia e crudele. Ripresi quindi a camminare, scosso ed incredulo per la piega presa dagli eventi, quando finalmente mi resi conto di essermi perso.

    A forza di vicoli bui, svolte improvvise e fughe disperate da cani randagi, gatti ciechi e ratti volanti mi ritrovavo adesso nei meandri dell’ignoto, in un angolo buio di un quartiere che forse non era più neanche il mio, ma magari una landa confinante di sicuro più infida e malfamata e di cui fino a quel giorno avevo ignorato l’esistenza.

    Di una lunga fila di lampioni ne funzionavano appena due, con un terzo che si illuminava di tanto in tanto per una manciata di secondi. Cercando di farmi coraggio continuai a camminare rasente al muro, sperando che le cose potessero finalmente volgere al meglio e riequilibrare le sorti di una serata decisamente partita male.

    Improvvisamente mi sembrò che qualcuno avesse ascoltato le mie preghiere, poiché oltre la fine del muro scorsi il bagliore tremolante di un fuocherello, accompagnato da un odore di legna bruciata che sapeva di un barbecue in giardino tra colleghi in vena di barzellette e racconti sconci.

    Eccomi tornato alla civiltà, pensai, felice come non mai dell’imminente ricomparsa del genere umano e della vita sulla Terra come l’avevo sempre conosciuta.

    Ciò che mi comparve di fronte non appena voltai l’angolo fu invece una colonna di fumo nero e un rogo alto quasi otto metri che saliva da un cassonetto in fiamme e da due scheletri di lamiera e plastica fusa, fino a poco prima probabilmente appartenuti a macchine parcheggiate al posto sbagliato nel momento sbagliato.

    Ebbi appena il tempo di notare come dalle fiamme stranamente non si levasse l’urlo devastante di un antifurto, poi di chiedermi come avessi potuto scambiare per legna bruciata quella nube tossica che di lì a poco mi avrebbe probabilmente ucciso, quindi un pensiero ben più atroce s’impossessò di me: a cosa sarebbe servito quel sacchetto – arma a dir poco impropria e mia unica difesa – se ad attendermi su quelle strade c’era chi aveva scatenato quell’inferno? Cosa avrebbe potuto la mia busta d’immondizia contro chi aveva appena sacrificato un vecchio Maggiolone e una Punto incidentata alla sua sete di distruzione?

    Teppisti, pensai. Teppisti assetati di sangue e di vendetta nei confronti della società borghese di cui volente o nolente facevo parte anch’io.

    Iniziai a vedere tutto nero, non soltanto per il fumo acre che mi circondava, e mi convinsi che i banditi che dovevano aver assassinato i netturbini di tutta Roma e tutte le mamme nelle cucine del quartiere non si sarebbero dati pace finché non avessero trovato quel pazzo incosciente che, armato di nient’altro che qualche chilo di spazzatura, aveva avuto il coraggio e la faccia tosta di sfidarli.

    Cominciando ad avvertire una concreta minaccia per la mia incolumità fisica tirai fuori dalla tasca il cellulare, maledicendomi tra l’altro per averlo fatto solo allora. La batteria morì di colpo allo sblocco della tastiera.

    Poco male, pensai, l’unica persona che avrebbe potuto darmi una mano in quel momento se la stava probabilmente spassando in un ristorante di Pescara insieme al capo e a un altro paio di colleghi, magari ridendo di quel tirchio del padrone di casa e suo coinquilino, di me che stavo per dire addio al mondo per colpa di due spigole da quattro soldi, comprate da lei chissà dove e cucinate malissimo, come solo Marina nei suoi giorni peggiori sapeva fare.

    Non avevo idea di dove fossi né contatti col resto del mondo, un branco di assassini mi dava la caccia e quella nube tossica m’inseguiva nonostante camminassi a passo sempre più svelto. Tanto ero disperato che, quando mi rimisi in tasca il cellulare e scoprii di essere uscito senza le chiavi di casa, la cosa non mi preoccupò più di tanto.

    Anche perché, a giudicare da come stavano andando le cose, a quell’ora una banda di ladri stava probabilmente già rovistando nel mio armadio, pronta a saccheggiare tutto quel che trovava e che Whiskey non era riuscito a distruggere in mia assenza.

    Mentre mi torturavo con quelle visioni catastrofiche e cercavo di ricordare dove fosse la sede più vicina della Caritas, come un’oasi nel deserto in fondo alla strada apparve la rassicurante sagoma blu di una volante di pattuglia.

    Subito mi pentii del non essere mai andato in chiesa, dell’aver preso sotto gamba per troppo tempo l’esistenza del divino, perché se quella non era prova della sua esistenza allora non ci avrei creduto neanche se mi fosse apparso San Pietro in persona con in mano il mio mazzo di chiavi!

    Con un sorriso da orecchio ad orecchio allargai le braccia per farmi vedere, quindi iniziai a sventolare il sacchetto come un naufrago su un’isola deserta avrebbe sventolato uno straccio legato a un bastone di fronte a una nave di passaggio. Felice come una pasqua mi preparavo a ringraziare gli agenti che gentilmente mi avrebbero riaccompagnato a casa, quando vidi invece la volante accendere i lampeggianti, scalare due marce e partire a razzo contro di me.

    Il mio sorriso scomparve di colpo di fronte a una reazione ostile di cui al momento mi sfuggiva il motivo, ma che riuscii a spiegarmi quando gli abbaglianti della volante mi illuminarono a giorno dalla testa ai piedi. Con fare tutt’altro che borghese vagavo infatti a piedi nudi e inspiegabilmente sudato nonostante il freddo ormai polare, con una mezza canotta di lino addosso e in mano un sacchetto pieno di pesce marcio e burro fuso. Niente documenti in tasca né chiavi di casa, solo un cellulare scarico pieno di foto del piccolo Leonardo, figlio di una coppia di amici, e dei video porno che tutte le mattine i colleghi mi inoltravano nonostante le mie ripetute rimostranze.

    Senza dubbio quei poliziotti mi avrebbero preso per un pederasta senza fissa dimora sotto l’effetto di stupefacenti, che doveva aver conquistato gli avanzi di un fastfood dopo una lotta selvaggia con la fauna del quartiere, divertendosi poi a passeggiare sui tetti di metà delle auto del vicinato e dando fuoco all’altra metà.

    Quell’improvvisa realizzazione mi ripiombò nell’incubo. Già mi vedevo in balìa della furia degli agenti, quindi sbattuto in cella a condividere quattro metri quadrati con un barbone in astinenza sessuale da almeno vent’anni, sicuramente ubriaco e per giunta indignato per i cinquanta centesimi di elemosina che gli avevo fatto quel giorno e che non gli erano bastati neanche per mezzo litro di Tavernello.

    Nel migliore dei casi avrebbe continuato l’opera dei poliziotti, facendomi assaggiare la dura vita del galeotto fino al ritorno di Marina, alla

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