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I dadi d'oro
I dadi d'oro
I dadi d'oro
E-book559 pagine8 ore

I dadi d'oro

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Info su questo ebook

Durante un feroce assedio tra Roma e la città etrusca di Veio, tre donne seguono strade diverse per sopravvivere. Cecilia, nata a Roma ma sposata con un veientano, abbandona la sua città per tornare dal marito, Vel Mastarna, esponendosi all’ostilità degli Etruschi e sapendo che i Romani la condanneranno a una morte da traditrice se Veio cadrà. Semni, giovane incosciente al servizio nella casa di Mastarna, si ritrova invischiata in un piano che minaccia di impedirle di trovare l’amore e mette in pericolo il figlio di Cecilia. Pinna, indigente prostituta romana, riesce a ottenere, tramite svariati ricatti, l’attenzione del più grande generale di Roma, a costo di tradire il cugino di Cecilia. Ogni donna lotta per proteggere se stessa e chi ama nel ciclico e oscuro decorso della guerra. Come potranno sfidare il destino? Vivranno mai di nuovo in pace?
I dadi d’oro, il secondo libro della trilogia sull’Antica Roma dedicata al conflitto tra la Repubblica Romana e la città di Veio, si è classificato secondo al concorso internazionale “Sharp Writ Book Awards 2013” per la narrativa generale ed è stato nominato come una delle letture più memorabili del 2013 da Sarah Johnson, curatrice delle recensioni della Historical Novels Review.
LinguaItaliano
Data di uscita25 mag 2024
ISBN9791281822030
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    Anteprima del libro

    I dadi d'oro - Elisabeth Storrs

    Il libro

    Durante un feroce assedio tra Roma e la città etrusca di Veio, tre donne seguono strade diverse per sopravvivere. Cecilia, nata a Roma ma sposata con un veientano, abbandona la sua città per tornare dal marito, Vel Mastarna, esponendosi all’ostilità degli Etruschi e sapendo che i Romani la condanneranno a una morte da traditrice se Veio cadrà. Semni, giovane incosciente al servizio nella casa di Mastarna, si ritrova invischiata in un piano che minaccia di impedirle di trovare l’amore e mette in pericolo il figlio di Cecilia. Pinna, indigente prostituta romana, riesce a ottenere, tramite svariati ricatti, l’attenzione del più grande generale di Roma, a costo di tradire il cugino di Cecilia. Ogni donna lotta per proteggere se stessa e chi ama nel ciclico e oscuro decorso della guerra. Come potranno sfidare il destino? Vivranno mai di nuovo in pace?

    I dadi d’oro, il secondo libro della trilogia sull’Antica Roma dedicata al conflitto tra la Repubblica Romana e la città di Veio, si è classificato secondo al concorso internazionale Sharp Writ Book Awards 2013 per la narrativa generale ed è stato nominato come una delle letture più memorabili del 2013 da Sarah Johnson, curatrice delle recensioni della Historical Novels Review.

    L’autrice

    Elisabeth Storrs è una scrittrice australiana con una grande passione per la storia e i miti del mondo antico. È durante un viaggio in Italia che la sua curiosità viene stuzzicata dalla visita a una catacomba etrusca, dove vede un sarcofago raffigurante una coppia abbracciata per l’eternità. Si documenta e scopre l’affascinante storia del conflitto tra la città etrusca di Veio e la Repubblica Romana. Nasce così l’ispirazione per scrivere la trilogia che le è valsa diversi riconoscimenti letterari. Elisabeth è anche fondatrice della Società dei Romanzi Storici Australiana. Nel 2020, ha guidato il team che ha istituito l’ARA Historical Novel Prize, premio in denaro riservato agli scrittori di romanzi storici australiani e neozelandesi. Con AltreVoci Edizioni ha pubblicato Il velo nuziale, il primo volume della trilogia dedicata all’Antica Roma (2023).

    AltriTempi

    Elisabeth Storrs

    I dadi d’oro

    La guerra tra Etruschi e Roma

    Traduzione di Giovanna D’Onofrio

    Proprietà letteraria riservata

    ©2015 Lake Union Publishing

    Titolo originale: The Golden Dice

    Prima edizione: aprile 2015

    ©2024 AltreVoci Edizioni srls

    Traduzione di Giovanna D’Onofrio, revisione di Federico Ghirardi

    Prima edizione digitale: maggio 2024

    ISBN: 9791281822030

    Copertina realizzata da Catnip Design di ©Pamela Fattorelli www.catnipdesign.it

    This edition is made possible under a license arrangement originating with Amazon Publishing, www.apub.com, in collaboration with goWare srl.

    I fatti e i personaggi riportati in questo romanzo sono frutto della fantasia dell’autrice. Pertanto ogni somiglianza a persone reali e ogni riferimento a fatti accaduti sono da ritenersi puramente casuali.

    A Beth, John e Jacqui

    PERSONAGGI

    Veio

    Cecilia (Emilia Ceciliana): nata a Roma, moglie di Mastarna (soprannomi Bellatrice e Cilla)

    Vel Mastarna il Grande: nobiluomo etrusco, marito di Cecilia

    Semni: ceramista, serva in casa di Mastarna

    Arruns: guardia del corpo di Mastarna, fenicio

    Artile Mastarna: divinatore, fratello di Mastarna

    Tarchon Mastarna: figlio adottivo di Mastarna

    Ramutha Tetnie: amica di Cecilia

    Cytheris: ancella di Cecilia

    Aricia: figlia di Cytheris, bambinaia

    Tas (Vel Mastarna il Piccolo): primogenito di Cecilia e Mastarna

    Larce Mastarna: secondogenito di Cecilia e Mastarna

    Arnth Mastarna: figlio minore di Cecilia e Mastarna

    Kurvenas: re (lucumo) di Veio, rivale di Mastarna

    Vibenna: magistrato capo (zilath) di Veio

    Sethre Kurvenas: figlio di Kurvenas

    Celio: nipote di Vibenna

    Lusinio: generale

    Thia (Larthia) Mastarna: figlia di Cecilia e Mastarna

    Perca: seconda bambinaia

    Velthur: marito di Semni

    Metli Tetnie: figlia di Ramutha

    Aule Porsenna: zilath di Tarquinia, padre della defunta moglie di Mastarna

    Tolumnio: precedente re di Veio, cugino di Kurvenas

    Seianta: prima moglie di Mastarna

    Thefarie Ulthes: marito di Ramutha, amico di Mastarna

    Arnth Ulthes: zilath di Veio assassinato, amico di Mastarna

    Roma

    Pinna (Lollia): prostituta

    Marco Furio Camillo: console generale patrizio

    Marco Emilio Mamercino il Piccolo: figlio di Emilio, cugino di Cecilia

    Appio Claudio Druso: amico di Marco, precedente corteggiatore di Cecilia

    Marco Emilio Mamercino il Grande: zio e padre adottivo di Cecilia

    Genucio: console generale plebeo

    Calvo: tribuno della plebe

    Sergio: console generale patrizio

    Virginio: console generale patrizio

    Fosca: madre di Pinna

    Lollio: padre di Pinna

    * I nomi in corsivo sono quelli utilizzati più comunemente

    Gli dèi

    Nortia/Fortuna: dea del fato

    Uni/Giunone: dea del matrimonio, della maternità, dei figli, regina degli dèi, moglie di Tinia/Giove

    Tinia/Giove: re degli dèi, marito di Uni/Giunone

    Turan/Venere: dea dell’amore

    Aita: dio dell’Oltretomba (i suoi adoratori seguono il culto della Morte di Calu)

    Fufluns/Dioniso: dio del vino e della rigenerazione (i suoi adoratori seguono il culto di Pacha)

    Mater Matuta: dea dell’aurora

    Marte: dio romano della guerra

    Vesta: dea romana del focolare domestico e della famiglia

    Menerva/Minerva: dea della saggezza, delle arti, della guerra, del commercio

    Giano: dio romano protettore degli inizi e dei passaggi, degli ingressi e delle porte

    Vulcano: dio romano del fuoco e della lavorazione dei metalli

    LA PROMESSA

    UNO

    Veio, inverno, 399 a.C.

    Odorava di cuoio, cavallo e cera d’api, e il freddo della sua armatura di bronzo la raggelava pur attraverso il pesante mantello di lana. Il suo bacio era caldo, invece, travolgente e insaziabile, nonostante lui avesse labbra e guance ghiacciate.

    «Toglitelo», gli disse, come sempre, premendosi contro il corsaletto, spinta dal bisogno di sentire il suo corpo.

    «Proprio quello che ho intenzione di fare», rispose lui, come sempre; poi rise e la baciò.

    Non riusciva a stargli lontana, lo abbracciava continuamente, incredula che fosse tornato, che fosse passato un altro anno senza che venisse ucciso.

    Perché ormai esistevano solo due stagioni: la guerra e l’inverno.

    Prima era l’estate a rallegrare Cecilia, con il suo caldo ozioso e le serate languide. Ma dopo sette anni di conflitto, la donna aveva imparato ad accogliere con favore le prime tracce di ghiaccio nel Vento del Nord e i rami spogli degli alberi, pronti a reggere il peso della neve. Le giornate corte e buie non le sembravano più così opprimenti perché, in inverno, suo marito sarebbe tornato a casa.

    Di nuovo risuonò la lunga e distinta nota delle trombe di guerra. Ancora abbracciata a Mastarna, Cecilia si voltò a osservare il tumulto intorno a lei, felice che i corni non annunciassero un attacco ma un ritorno, mentre file e file di soldati varcavano gli imponenti Cancelli di Menerva della città di Veio.

    La vasta piazza e gli ampi viali della città si erano tinti dei colori della folla ammassata, e le case e i templi rivestiti in legno e terracotta erano sfarzosamente decorati con ghirlande e nastri. Mentre l’esercito marciava verso il foro, un’ondata di persone ne ruppe i ranghi: la disciplina militare fu dimenticata, mogli e figli corsero a baciare mariti e padri, le madri e gli uomini più anziani ad abbracciare i figli.

    In mezzo alla folla, gli alti cavalli da guerra, trattenuti per le redini, nitrivano e si agitavano, sprigionando dalla pelle e dalle narici volute di vapore che si condensavano nell’aria fredda del pomeriggio. Al clamore si aggiungevano le risate e le allegre melodie del flauto doppio, delle nacchere e dei tamburelli, interrotte da stralci di singhiozzi, i lamenti delle donne i cui mariti non erano tornati: una tragica contrapposizione all’atmosfera festosa.

    Cecilia non riusciva a ignorare il loro dolore. Persino nella gioia le rimaneva un nodo di apprensione, una voce le diceva che quel ricongiungimento era dovuto a una tregua, non alla risoluzione del conflitto. Ma si era imposta di non inasprire la dolcezza del ritorno di Mastarna preoccupandosi della sua inevitabile partenza.

    Perché c’era un ritmo in quegli scontri.

    Quando, con l’allungarsi delle giornate e il rinverdire dei campi, la stagione della guerra iniziava, i Veientani si precipitavano ad affrontare i Romani, che assaltavano Veio animati da un’accanita brama di vendetta. Una vendetta in nome di Emilia Ceciliana. Una vendetta contro di lei.

    Per sette anni Cecilia aveva osservato quello che un tempo era il suo popolo distruggere i boschi veientani per ricavare picchetti, assi e pali con cui costruire fortificazioni e macchine d’assedio, circondando la sua città adottiva; ostacolavano il commercio, bloccavano i rifornimenti e razziavano i campi, finché, con l’arrivo dell’autunno e la caduta delle prime foglie, la pazienza di Veio iniziava a vacillare, in attesa dell’inverno e della ritirata del nemico. Poi entrambe le città si fermavano, a leccarsi le ferite. Perché anche i Romani dovevano riempirsi la pancia e i raccolti andavano seminati: orzo, legumi e grano. Le famiglie dovevano riabbracciare i propri uomini e i generali andavano rieletti.

    Mastarna le sfiorò la guancia con la barba incolta, una leggera apprensione nella voce bassa e profonda, un timbro che non smetteva mai di turbarla. «E il piccolo?»

    Sorridendo, Cecilia si staccò dal suo abbraccio e andò a cercare due donne perse nella folla in festa. Entrambe sorridevano guardando marito e moglie. La corpulenta ancella dai capelli crespi, Cytheris, teneva per mano due bambini, mentre la balia, Aricia, si fece avanti al cenno della padrona e le porse un pargoletto infagottato.

    «Un altro maschio», disse Cecilia orgogliosa.

    Mastarna prese il neonato con la sicurezza di un uomo avvezzo a compiti del genere, ma la madre si meravigliò comunque alla vista di un guerriero che cullava una morbida creaturina contro la sagoma dura del corsaletto.

    Abbandonare il calore della balia per il freddo conforto dell’armatura del padre non piacque al bambino, che protestò con forza ed energia. Per nulla infastidito, Mastarna ridacchiò e gli stampò un bacio sulla fronte, mentre tornava ad abbracciare Cecilia. «Grazie. Non potrei avere sposa migliore.»

    «Né io un marito migliore». Riprese il bimbo urlante, che si calmò subito al suo tocco.

    «Dove sono gli altri miei figli?». Mastarna si voltò a guardare i due più grandi. Con gli occhi spalancati e pieni di timore di fronte a quel gigante sfregiato e rivestito di metallo riapparso nelle loro vite, i bambini rimasero zitti.

    Le gambiere sulle cosce stridettero quando Mastarna si accovacciò davanti a loro. «Non ditemi che mi avete dimenticato!»

    Il maggiore s’inchinò in segno di saluto, solenne. «Io lo so chi sei, apa. Salve, generale Vel Mastarna!»

    «Salve a te, figlio mio», rispose il padre con altrettanta serietà, prima di appoggiargli sulla testa l’elmo di bronzo foderato in cuoio, che lo ricoprì completamente. Il bambino lo tirò su, inclinando il capo in modo da poter spiare il mondo attraverso le aperture tra il nasello e i guanciali, con entrambe le mani salde sui lati per reggerne il peso.

    Alla vista del fratello che guadagnava attenzioni, il bimbo di due anni dimenticò ogni soggezione per il guerriero. Spuntò di corsa da dietro la gonna di Cytheris, pronto a strappare il trofeo all’altro. «Dammi, Tas, dammi!»

    Il bambino di cinque anni si allontanò, sollevando l’elmo dal cimiero azzurro fuori dalla sua portata, restio a cedere il premio. «Vai via, Larce. Apa l’ha dato a me.»

    Mastarna rise e prese in braccio il figlio minore. L’espressione stupita del piccolo si trasformò in gioia quando vide la spada ricurva legata al fianco del padre. «Guarda, ati», urlò alla madre, afferrando l’elsa. «Spada! Spada!». Ma, nonostante i suoi sforzi per estrarre l’arma dal fodero, quella rimase ferma.

    «Salve, Cecilia.»

    Un soldato le si affiancò a braccia aperte. Le ci volle un attimo per riconoscere Tarchon in quell’uomo barbuto. Era l’altro figlio di Mastarna, adottato, poco più grande di lei. Quel pensiero la fece riflettere. In primavera lei avrebbe compiuto ventisei anni.

    Non c’era traccia del giovane effeminato che aveva conosciuto. Era un uomo adesso, con tanto di cicatrici di guerra. E quale soldato non ne avrebbe avute, dopo tanti anni di scontri? Il suo bel volto, però, rimaneva illeso, la sua splendida simmetria in contrasto con la sfacciata mascolinità dell’armatura.

    «Sia lode agli dèi per averti risparmiato». Lo abbracciò.

    Tarchon ricambiò, prestando attenzione al fagottino schiacciato tra loro.

    «Lode agli dèi per averti fatto partorire mio fratello sano e salvo». Accarezzò dolcemente la guancia del bambino con un dito e fu ricompensato con un sorriso. Non c’era da sorprendersi. Tarchon piaceva a tutti, a tutti tranne che al padre.

    «Ha i tuoi occhi grandi e rotondi da romano, ma non glielo rinfaccerò.»

    Cecilia gettò un rapido sguardo agli etruschi occhi a mandorla che la circondavano. Dubitava che le avrebbero mai perdonato di essere figlia di Roma. «Tu no, ma altri potrebbero.»

    Tarchon le diede un bacio sulla guancia. «Scherzavo. E, comunque, ora ti rispettano tutti qui.»

    Prima che potesse rispondere, Mastarna li interruppe: «Non è ora che dia un nome al mio ultimo figlio?». Posò Larce a terra. Il bambino gli afferrò subito le gambe, chiedendo di essere ripreso in braccio. Cytheris lo portò via alla svelta.

    Cecilia annuì. Aspettava di celebrare la cerimonia da quando il figlio era nato. Dopotutto, il bambino aveva due mesi e per legge avrebbe dovuto essere riconosciuto entro nove giorni dalla nascita. Certi pensieri non l’abbandonavano mai. E se Mastarna non fosse tornato? Sarebbe stato messo in discussione il diritto del bambino di prendere il nome del padre? Che ne sarebbe stato di lei, non più romana ma nemmeno etrusca, se il marito fosse morto?

    «Che nome hai scelto?»

    «Arnth. Come Arnth Ulthes, il nostro caro amico.»

    Mastarna la fissò. «Sei sicura?»

    «Sicurissima. È un nome importante, in onore di un uomo nobile.»

    «Sarebbe felice di sapere che vuoi ricordarlo». Le accarezzò i capelli. «Ora procediamo.»

    Nonostante fosse ansiosa di celebrare il rito, Cecilia esitò al pensiero di appoggiare il bambino ai piedi del padre. La folla intorno era in fermento e temeva che i cavalli potessero calpestarlo.

    Poi notò Arruns, guardia di Mastarna, la testa rasata e il tatuaggio con il serpente sul viso a conferirgli un’aria perennemente minacciosa. Senza bisogno di alcun ordine, Arruns fece spazio intorno alla famiglia, tenendo strette le redini del cavallo del padrone.

    Dopo aver deposto il bambino sul selciato, Cecilia osservò con apprensione Mastarna che lo sollevava sopra la testa.

    «Tutti i qui presenti mi siano testimoni: questo è mio figlio. Il suo nome sarà Arnth della Casata di Mastarna. Figlio dei miei lombi e di quelli di Emilia Ceciliana, nota a tutti come Cecilia.»

    A differenza di Larce, al bambino non piacque essere sollevato in aria e si mise a urlare con una ferocia sorprendente per le sue dimensioni. Mastarna lo abbassò e lo strinse a sé, per poi farsi passare un amuleto d’oro da Cecilia e metterglielo al collo.

    «Che questa bulla possa proteggerti sempre dal male. Che tutti gli dèi grandi e onnipotenti veglino su di te!»

    Cecilia prese il bambino singhiozzante dalle braccia del padre, tranquillizzandolo. Mentre lo faceva, notò che la folla era ammutolita. Si irrigidì e trattenne il respiro, consapevole che quegli sguardi erano riservati a lei, che quel silenzio indicava tanto il risentimento nei suoi confronti quanto il rispetto per Mastarna.

    E ne conosceva bene la ragione.

    Sette anni prima, in una radura accanto a un fiume tra due città, aveva fatto una scelta: quella di rinnegare la sua casa. E quella scelta, secondo Roma, aveva provocato una guerra. Aveva messo in dubbio molte volte quella decisione. Non perché non amasse suo marito, ma perché il popolo di lui non la amava.

    Quel giorno, però, Cecilia sapeva cosa fare. L’aveva già fatto in passato. Lentamente tese Arnth verso la folla. «Offro mio figlio a questa città. Un altro maschio pronto a combattere per Veio. Un altro guerriero per voi che siete diventati il mio popolo.»

    All’inizio non ci fu alcuna risposta, solo sguardi che andavano da lei al bambino, fino al condottiero.

    Poi l’esultanza eruppe. «Viva Arnth della Casata di Mastarna! Viva il generale Vel Mastarna!»

    Cecilia fu pervasa dal sollievo, rassicurata dal sapere che, anche se i Veientani la odiavano, sarebbe stata al sicuro finché avessero rispettato il marito.

    DUE

    Cecilia fece segno a uno dei due servi di chiudere la pesante tenda rossa della camera da letto, dispiaciuta che facesse troppo freddo per lasciarla aperta, in modo da vedere il giardino. Poi ordinò a lui e all’altro, che stava accendendo i candelabri, di andarsene.

    Mastarna la tirò a sé. Lei rise. «Devi farti un bagno!»

    «Vuoi aspettare così tanto?»

    Cecilia fece di no con la testa e iniziò a slacciare le cinghie della corazza, barcollando leggermente per lo sforzo mentre lo aiutava a toglierla insieme alla sotto armatura di lino pesante. Poi, più veloce, gli allentò gli spallacci, prima di inginocchiarsi per aiutarlo con gli schinieri. Entrambi lasciarono cadere tutto a terra. Entrambi si spogliarono in fretta. Subito dopo Mastarna la sollevò sul letto ampio e alto per baciarla, per baciare tutto di lei, guance, naso e gola, seno, pancia e dita dei piedi, fino a separare le morbide cosce bianche e mettere fine alla lunga attesa dei due amanti.

    Dopo, rimasero accoccolati nella stanza accogliente nonostante l’aria viziata dal fumo raccoltosi sotto l’alto soffitto, sopra le aperture per la ventilazione. Il leopardo dipinto sul muro li scrutava dal boschetto di alloro, con le rondini che gli svolazzavano sul capo, compagno fedele che li aveva protetti per tutti quegli anni.

    Cecilia accarezzò la lunga cicatrice che attraversava il petto e lo stomaco di Mastarna, poi quella dal naso alle labbra. Anche le braccia erano segnate da vecchie ferite. «Non ne vedo di nuove.»

    «Solo graffi ed escoriazioni questa volta. Sono riuscito a evitare una spada romana. Devo essere diventato prudente con l’età.»

    «O forse hai finalmente imparato qualche trucco.»

    Lui rise e le tirò via la coperta rossa, verde e blu. «Fammi vedere se tu sei cambiata.»

    Cecilia protestò per l’ondata d’aria fredda e fece per tirarsi di nuovo su la coperta, ma Mastarna glielo impedì. «Fatti guardare», ripeté, muovendo dolcemente la mano sui fianchi e la pancia della moglie, seguendo il groviglio di linee argentate sulla pelle.

    Cecilia gli afferrò la mano, consapevole di quanto stesse invecchiando, di come partorire i figli, per quanto amati, le avesse privato il corpo di elasticità. «Non farlo, sono orribili.»

    Mastarna baciò quei segni delicati. «Dovresti esserne orgogliosa. Sono la prova del fatto che sei una madre e che hai sopportato più dolore di quanto io possa mai affrontare. Hai avuto un travaglio difficile?»

    Finalmente le lasciò allungare la coperta su entrambi. Cecilia dimenticava sempre il dolore una volta passato. Allattare il bambino la curava.

    «Vorrei che mi vedessi partorire almeno una volta, Vel. Ho pregato ogni giorno che tornassi a casa prima che Arnth nascesse.»

    Mastarna rimase in silenzio per un po’. «Prima o poi», mormorò.

    Cecilia si pentì di averlo detto. Sapeva che avrebbe voluto essere presente, ed era inutile sperare in qualcosa che non era destinato a succedere. Piuttosto, si sarebbe dovuta rallegrare del fatto che gli dèi gli avevano almeno concesso l’opportunità di tenere in braccio i figli.

    E quanto li amava, quei figli dell’inverno. Ne amava il tocco: le dita morbide e paffute di Arnth che si avvicinavano a sfiorarle la bocca mentre le baciava, o a tirarle gli orecchini; Larce che misurava la manina dalle dita minuscole contro la sua. E poi c’era il primogenito, Vel Mastarna il Piccolo. Tanto riservato e serio che l’avevano soprannominato Tas, il taciturno. Si credeva troppo cresciuto per aver bisogno della madre, finché non faceva buio e le prendeva la mano, fingendo che fosse lei ad aver bisogno di conforto.

    Mastarna si sedette sul bordo del letto. «Laviamoci prima della festa. Non vedo l’ora di immergermi nell’acqua calda.»

    Cecilia si trattenne sotto le lenzuola, a studiarlo. Aveva il naso malconcio e il viso segnato: caratteristiche di un uomo che aveva sofferto sia esteriormente che interiormente. E nonostante gli occhi a mandorla sapessero essere duri, si addolcivano sempre quando guardava la famiglia.

    Notando quanto la pelle del suo corpo fosse liscia rispetto ai folti peli sul mento, sorrise. La sorprendeva sempre che i Veientani portassero i barbieri nelle campagne militari. Per non parlare dell’enorme seguito di servi per soddisfare ogni loro esigenza. Come se non riuscissero mai a fare a meno del lusso. Bei vestiti, mobili e utensili. Musicisti, danzatori e poeti, oltre a fabbri e costruttori di archi. E, ovviamente, veggenti e sacerdoti per poter interpretare le intenzioni degli dèi e assicurarsene il favore. «Come fai a trovare il tempo di raderti il corpo in guerra?», scherzò.

    «Mi preferiresti peloso come un orso, come un soldato romano?». Si sfregò il mento. «Anche se sto pensando di farmi crescere la barba.»

    Inginocchiata dietro di lui, Cecilia gli fece scivolare le braccia intorno alla vita, appoggiandogli una guancia contro la larga schiena. «Non osare!»

    Lui rise. «Hai ragione. È raro che a una donna piaccia farsi graffiare la pelle.»

    Cecilia era felice che non potesse vedere la sua espressione. Perché c’erano anche altri tipi di serve negli accampamenti: concubine e meretrici. La tormentava l’idea che Vel potesse trovare difficile esserle fedele nei lunghi mesi di combattimento. «Se graffi solo la mia, di guancia…»

    Sorridendo, Mastarna si girò e la prese in braccio. «E tu non hai ancora un amante? Con tutti questi giovani schiavi a disposizione…»

    Lo spinse via. «Come ti viene in mente?»

    Si fece serio, i neri occhi a mandorla severi, la voce aspra. «Allora neanche tu dovresti pensarlo di me.»

    Imbarazzata, abbassò lo sguardo.

    Le sollevò il mento con il pollice e l’indice affinché lo guardasse. «Vorrei che ti vedessi con i miei occhi. Non dubiteresti mai di me, Bellatrice». Le tracciò una linea tra i seni, poi guardò il pendente che aveva al collo. «Ricordi perché te l’ho dato? Per farti tenere a mente che sei coraggiosa.»

    Il medaglione era un amuleto che le aveva regalato quando si erano sposati la prima volta. Un pegno d’amore che Cecilia custodiva gelosamente. Raffigurava la cacciatrice Atlenta, anche lei una mortale innamoratasi del marito che era stata costretta a sposare. Cecilia ne aveva conosciuto la storia solo dopo essere arrivata a Veio. Sfiorò il pendente. Vel sosteneva che era come la ragazza del mito, una guerriera, una bellatrice, ma lei dubitava di meritare quel soprannome.

    Gli cinse il collo. «Mi perdoni per essere stata sciocca?»

    La fece sdraiare sul materasso morbido, accarezzandole il collo. «L’ho già fatto.»

    TRE

    Le fiamme avvolsero il legno quando la torcia fu gettata nella pece, poi il fuoco consumò le spesse pareti in pelle di bue delle torri d’assedio e i pilastri di legno bruciarono, sollevando acre fumo nero.

    Dopo un lungo anno di privazioni, i Veientani si riunivano in ogni angolo della città e l’aria si riempiva delle loro grida. Fuggendo dalla prigionia delle loro case, si riversavano lungo le strade che scendevano dalla collina. Sotto il sole invernale, attraversavano boschi e torrenti per raggiungere le fortificazioni romane e incendiarle. Per alimentare le fiamme, distruggevano le vestigia di guerra lasciate dal nemico: sfasciavano ripari e mantelletti su ruote, demolivano palizzate, strappavano picchetti dalle trincee.

    Calata la notte, Cecilia e Mastarna osservavano quella furia dall’alto della cittadella. Una fila di roghi si estendeva intorno alle mura, un anello di liberazione; alcuni semplici puntini che scintillavano in lontananza, altri che divampavano più vicini, fieri e luminosi. Proprio di fronte all’acropoli c’era il falò più grande. Come un’escrescenza maligna sulla pelle della città, il principale accampamento romano si trovava sull’altura oltre la striscia scura del fiume. Nel buio, recinti e posti di guardia brillavano di un rosso intenso.

    Davanti a tutto quell’odio, Cecilia appoggiò la nuca al petto di Vel dietro di lei, lasciando che il familiare profumo di sandalo e il suo abbraccio la rassicurassero. Si sentì sollevata di non essere tra gli Etruschi, poi si rimproverò in silenzio per aver pensato a loro con quel nome. Erano i Romani a chiamarli così. Il popolo di Veio si definiva Rasenna, e Veio era solo una delle tante città in cui risiedevano. Roma si considerava potente, quando, in realtà, si trattava di un paesino in confronto a una metropoli delle dimensioni di Veio. Ma questo non ne aveva fermato la furia. Coraggio e ostinazione le avevano fatto sconfiggere molti dei suoi più grandi nemici.

    Cecilia rabbrividì sia per il freddo che per l’inquietudine. Mastarna la strinse a sé e la avvolse nelle pesanti pieghe della sua tebenna, ricoprendole il sottile mantello di lana giallo. La donna aveva imparato a non parlargli delle sue paure. Di come temeva che, un giorno, il fragile rispetto riservatole dal suo popolo potesse sgretolarsi.

    C’era un altro motivo per cui non voleva unirsi ai Rasenna laggiù. Sapeva che, in quella lunga giornata, la vendetta si sarebbe fusa con il fervore religioso. Le pire divampavano, il fuoco era caldo abbastanza da arrossare le guance e distendere i muscoli, e i Veientani bevevano vino forte, non annacquato, ma intriso di libertà. La Festa d’Inverno del dio Fufluns era iniziata.

    Il battito dei tamburi e lo strano lamento ascendente dei rombi rituali avevano annunciato l’inizio della cerimonia. Guidati da satiri con code di cavallo e menadi dallo sguardo selvaggio, gli adoratori del dio del vino indossavano grottesche maschere da cervo, cinghiale o capra. Maggiori erano i sorsi di vino, maggiore la frenesia. Poi, in attesa di una rivelazione, i credenti si spogliavano e si accoppiavano davanti al fuoco, nel tentativo di diventare tutt’uno con il divino, venerando la potenza del sacro fallo, convinti che il potere del coito sfidasse la morte.

    Una volta, tempo prima, drogata e disperata, Cecilia era stata attratta da quei riti. Le visioni di quella notte la tormentavano ancora, confermandole che non avrebbe mai potuto venerare Fufluns. Poteva aver rinnegato Roma, ma non avrebbe mai abbandonato i suoi dèi. Eppure, non condannava la devozione dei Veientani per quella divinità. Assediati dal nemico da così tanto, una promessa di rinascita e rigenerazione era invitante. E, con il tempo, la familiarità con certi riti aveva attenuato la disapprovazione della romana.

    Nel sentire la musica e le urla estatiche provenienti dal basso, accarezzò le mani di Mastarna che le stringevano la vita. Alcuni aristocratici come Tarchon si erano già diretti nel bosco per ricercare un’epifania insieme a persone comuni e schiavi. Almeno Vel non prendeva parte ai festeggiamenti. Mastarna sapeva che la moglie non avrebbe sopportato di vederlo inseguire il piacere con altre donne, così rimaneva sempre al suo fianco durante quelle feste, adorando Fufluns in privato. Avevano imparato a tollerare l’uno il credo dell’altra.

    Il dio del vino doveva essere soddisfatto, perché la notte era mite e illuminata dalle stelle. Tanto mite che lo zilath, Vibenna, magistrato capo di Veio, ordinò di allestire un padiglione di triclini accanto al gigantesco falò davanti al palazzo. I principi e le consorti cenarono insieme, con lussuosi drappi posti intorno ai divani dai profondi cuscini. Nastri intrecciati a edera erano stati disposti sulle statue e le stele del foro, trasmettendo allegria e rafforzando l’idea che tutto fosse come doveva essere. I simboli di Fufluns erano onnipresenti: pigne accatastate come decorazioni, leopardi incisi su poggiapiedi e mobili. I musicisti giravano tra i divani, il suono della cetra e del flauto doppio un dolce antidoto ai mesi di privazioni. I danzatori facevano volteggiare le gonne portando le braccia al cielo in segno di lode.

    Cecilia si voltò e appoggiò la guancia alla spalla di Mastarna. Alta com’era, riusciva a vedere da lì i principi che banchettavano. La festa era ancora in corso. Giovani schiavi nudi, scelti per la bellezza, si affrettavano a versare un buon vino d’annata nei calici a doppio manico. Gli alti consiglieri e le loro mogli non potevano usarne uno comune per brindare al loro dio.

    Cecilia osservò le nobildonne, bellissime nei vestiti eleganti, sedute sugli stessi divani dei mariti. Abbigliate con appariscenti chiton, portavano preziosi diademi in ambra e vetro nei capelli, e torque d’oro al collo. Sorrise, felice di essere vestita e ingioiellata allo stesso modo. Per molti versi, non era più una straniera. Ringraziava tutti i giorni Giunone per aver trovato l’indipendenza lì, libera di incontrare i clienti quando il marito non c’era e di fare da patrona ad artigiani noti per le raffinate ceramiche. Anche vedere come le donne ridevano, bevevano e conversavano con gli uomini le risollevò il morale. Non avrebbe avuto certe libertà se fosse rimasta a Roma; al contrario, avrebbe conosciuto solo i confini dell’atrio e della camera da letto, la compagnia di poche donne e la cieca obbedienza richiesta dagli uomini della famiglia. Roma e Veio distavano appena dodici miglia, separate dal Tevere, ma erano mondi opposti.

    Circondò Vel in un abbraccio e lo strinse forte.

    Lui rise. «Perché mi abbracci?»

    «Sono solo felice che tu sia di nuovo con me. Felice di vivere qui.»

    Le baciò la fronte. «Anch’io. Ma per quanto voglia rimanere ad abbracciarti, penso che sia ora di tornare alla festa, Bellatrice.»

    Cecilia acconsentì a malincuore, ma nel lasciarlo fece cadere una scatoletta di dadi dalla tebenna.

    «Vedi», disse lui recuperando la preziosa scatola, «sono stato attento a non perdere i miei portafortuna.»

    Le rovesciò due dadi d’oro sul palmo. Ognuno aveva dei numeri incisi sopra al posto dei punti. I bordi erano consumati per l’uso costante. Dato l’amore del marito per il gioco d’azzardo, non la sorprendeva. Lo prese in giro. «Si lamenteranno se proverai a usare questi vecchi dadi ai tavoli da gioco, stasera. I numeri si leggono a malapena.»

    Mastarna riprese le tesserae. «Sai che non li uso più per giocare. Li conservo per sentirti vicina quando non sono a casa. Senza, non ci saremmo mai ritrovati.»

    Cecilia si appoggiò di nuovo a lui. L’ultima volta che aveva lanciato i dadi aveva chiesto alla dea del fato di darle un segno, ed era tornata a casa da Vel. Ma la preoccupava che lui avesse sofferto per il suo ritorno. Il marito non sarebbe mai diventato zilath di Veio. Non con una moglie romana. Al contrario, veniva sempre mandato a combattere al Nord, piuttosto che guidare un assalto al principale accampamento nemico. Eppure, Vel non aveva mai sfogato la frustrazione su di lei. Né l’aveva mai incolpata di limitare le sue ambizioni. Si era rassegnato a essere un grande comandante a cui era stato impartito il comando peggiore. Alzò la testa per incontrare lo sguardo del marito. «Ti penti mai di avermi sposata di nuovo?»

    Le prese il viso tra le mani e la baciò. «Ho ordinato io ad Arruns di trovarti, ricordi? La divina Nortia ti ha riportata da me per un motivo.»

    Mentre lo abbracciava, si accorse che non erano più soli. Lo zilath, Vibenna, li aveva raggiunti sulle mura della cittadella.

    «Come al solito le scorte che hai portato sono state molto gradite, Vel Mastarna.»

    Staccatosi dall’abbraccio, il marito si inchinò. «Di sicuro il vino è stato apprezzato. Questa sera è stata placata la sete, ma non la fame.»

    Il vecchio sorrise, mostrando scintillanti denti d’oro e d’avorio. Era uno spettacolo raro. Il magistrato capo distribuiva la sua gioia con la stessa parsimonia con cui dispensava le razioni di grano. «Non c’è dubbio che il popolo attenda sempre con ansia il tuo ritorno. Senza il tuo successo nell’ostacolare gli sbarramenti e nel proteggere i campi, la città starebbe affrontando una carestia, ora.»

    Cecilia era felice del complimento. Era un bene che i successi del marito venissero riconosciuti. Era grazie a lui se carri e carri di buoi avevano attraversato tutto il giorno i cancelli della città per riversare i loro carichi su una popolazione in tripudio. E il giorno dopo ogni sorta di merce avrebbe viaggiato su un reticolo di strade verso altre città. Le chiatte avrebbero di nuovo navigato i fiumi e presto navi veientane sarebbero salpate per porti che Cecilia poteva solo immaginare.

    Urla e risate di uomini e donne la distrassero. Gli aristocratici stavano ancora brindando al dio del vino sui triclini.

    Mastarna ignorò i festeggiamenti. «Ci ha aiutato il fatto che Camillo non sia stato sorteggiato per guidare la campagna contro di noi. Sciocca, Roma, a sprecare il suo miglior console generale nel combattere i Volsci a sud.»

    «Sì, ma è un bene per noi che i Romani mandino lui e gli altri generali a combattere i loro vicini», replicò Vibenna. «È meglio che la maggior parte delle loro forze siano occupate ad attaccare altre tribù latine. Almeno abbiamo solo due armate alle porte.»

    Mastarna indicò le massicce mura di tufo al di sotto. «Vedo che le loro rampe ci hanno quasi raggiunto.»

    Vibenna fece una pausa, lanciando uno sguardo a Cecilia prima di continuare. «Il generale Emilio ha avuto fin troppo successo. I Romani non sono così belli, visti da vicino. Ci ha ricordato che non possiamo mai dormire sonni tranquilli.»

    Cecilia non fece commenti, aveva finalmente imparato a pensare prima di parlare. Anche se la sua opinione di donna non sarebbe stata disdegnata, non era facile sorvolare sulle sue origini. Il generale Emilio era sia suo zio che padre adottivo, e l’ultima volta che l’aveva visto era furioso di come si era trasformata da ragazza romana a moglie rasenna. Quanta umiliazione doveva aver provato per il fatto che avesse risposato Vel dopo che lui aveva formalmente disposto il loro divorzio. Secondo Emilio aveva disertato il suo popolo, tradito il clan, disonorato la famiglia. Anche udire il nome di Camillo la turbava. Odiava quel generale tanto quanto lui disprezzava lei. Quando era stata offerta come sposa in cambio del patto tra le due città, le aveva assicurato che l’avrebbe protetta mentre viveva con il nemico. Invece era stato pronto a sacrificarla in nome della guerra.

    Mastarna le strinse la mano per rassicurarla. Lei ricambiò, grata che si fosse accorto del suo disagio. Ancora una volta, lo ringraziò silenziosamente di averle dato una seconda possibilità per lasciarsi Roma alle spalle.

    «Fin quando i Romani continueranno a eleggere diversi consoli generali ogni anno», continuò Mastarna, «c’è una buona probabilità che non facciano progressi.»

    «Generali diversi, strategie diverse», concordò Vibenna, tossendo. «E nessuna ha avuto successo.»

    Cecilia annuì, notando l’arrivo di un altro aristocratico. Lanciò un’occhiata a Vel, sapeva che non avrebbe apprezzato quell’intrusione.

    Vibenna salutò il nobiluomo. «Ah, ecco Kurvenas. Dovresti congratularti con lui, Mastarna. Sono state le sue truppe a respingere così abilmente Emilio, quest’anno.»

    Kurvenas si inchinò al magistrato capo e rivolse solo un brusco cenno alla coppia.

    Cecilia sapeva quanto poco il marito rispettasse quell’uomo. Mastarna s’irrigidì e rispose al saluto con un cenno altrettanto breve. Cecilia riconobbe il rumore dei dadi mentre Vel li rigirava sotto il mantello. Lo faceva sempre senza accorgersene quando era preoccupato o dubbioso. Un’abitudine che solo lei conosceva.

    I capelli di Kurvenas, più lunghi di quelli di altri uomini rasenna, erano impregnati di unguenti. Si sfregò la cicatrice che gli increspava la barba corta. Altezza e corporatura trasmettevano eleganza, molto diversa dalla ruvidità del volto sfregiato e del corpo possente del marito. «Gli onori dovrebbero andare anche a Vel Mastarna», disse. «Ha di nuovo difeso con coraggio il vulnerabile Nord.»

    Mastarna non rispose al complimento. La popolarità di Kurvenas lo irritava. Con i suoi consigli persuasivi, l’aristocratico cercava di essere amico di tutti. Cecilia sospettava, però, che quell’affabilità celasse un rancore riservato a chi gli si opponeva. Eppure, non poteva negare le sue abilità di comandante né che fosse apprezzato dai suoi uomini quanto Vel.

    Ignorando il rivale, Mastarna le offrì l’avambraccio. «Non è ora di tornare al banchetto?»

    Lo zilath Vibenna gli mise una mano sulla spalla. «Temo che dovremo prima discutere le prossime elezioni. La cena può aspettare». Si rivolse a Cecilia. «Se vuoi, puoi tornare al divano.»

    Mastarna la tenne stretta a sé. «Hai un tono nefasto. Forse dovrebbe rimanere.»

    Kurvenas e Vibenna si guardarono, e di rimando lo fecero anche moglie e marito. Cecilia non sapeva che fossero alleati.

    «Parliamo apertamente, allora». Kurvenas fece un ampio sorriso, la voce piatta. «È tempo di fare a meno delle elezioni annuali. Indeboliscono Veio, come Roma. Dovremmo usare l’inverno per pianificare come sconfiggere il nemico, non per discutere tra noi su chi debba guidare la città.»

    Mastarna strinse ancora di più Cecilia. «I nostri magistrati capo possono rimanere in carica per più di un anno, in modo da non dover affrontare lo stesso problema dei Romani. Per questo le nostre tattiche di difesa sono rimaste coerenti ed efficaci. Quindi, cosa proponete? Di eleggere un lucumo? Di essere governati da un solo uomo fino alla sua morte? Avete la memoria così corta da aver dimenticato cos’è successo l’ultima volta che abbiamo eletto un re? Tolumnio è stato corrotto dal potere!»

    Il volto pallido di Vibenna prese fuoco, tossì di nuovo. «Ragiona. So che trovi strano che io appoggi un cambiamento del genere, ma le nostre risorse potrebbero essere impiegate per cose migliori che votare ogni inverno. Eleggiamo un sovrano e concentriamoci solo sulla guerra.»

    La voce bassa di Mastarna risuonò in tutta la piazza, interrompendo i commensali, che si voltarono a fissarli. Dando le spalle a Kurvenas, si focalizzò esclusivamente sull’anziano. «Re Tolumnio ha assassinato Arnth Ulthes, uno zilath, come te, per prendere il potere. Ha insultato te e il tuo clan». Mastarna puntò il dito contro Kurvenas. «E questo tiranno era suo cugino. Come puoi appoggiare il suo sangue?»

    Vibenna alzò le braccia, come per schivare un colpo. «Calmati. Dobbiamo lasciarci alle spalle le inimicizie personali per il bene di Veio. Dubito che qualcuno possa essere tanto folle da regnare come Tolumnio.»

    «Quindi chi suggerisci che diventi re?». Mastarna puntò di nuovo il dito in direzione di Kurvenas. «Lui? La sua famiglia si è sempre considerata più nobile delle altre. Non hanno rispetto per il nostro governo. Scegli lui e avrai un despota, un uomo che trionferà schiacciando il nostro popolo.»

    Senza scomporsi, Kurvenas spazzò via qualche capello che gli si era posato sulla tebenna, scrutando Cecilia da capo a piedi. «Non penso che tu sia lucido.»

    Quell’aria compiaciuta era provocatoria. Mastarna avanzò verso di lui. «Stai mettendo in discussione la mia lealtà a Veio?»

    Kurvenas continuò a sorridere, incurante della vicinanza dell’avversario. «Certo che no, è solo che potresti avere qualche scrupolo sulla nuova strategia che ho presentato all’Alto Consiglio.»

    Mastarna si accigliò. «E quale sarebbe, questa strategia?»

    Il nobile riportò l’attenzione su Cecilia. «Conquistare Roma, ovviamente.»

    La donna si irrigidì, poi fece un respiro profondo, cercando di controllare il turbamento e raccogliere le idee. Fino a quel momento era riuscita a tollerare che i Veientani uccidessero i Romani per difendersi. Ma poteva stare a guardare mentre attaccavano la sua città d’origine e la sua famiglia?

    Anche Mastarna si agitò. «Che illuso! Veio potrebbe attaccare Roma solo con l’appoggio della Lega delle dodici città rasenna. Appoggio che non ci sarà. Il congresso disprezza i re. E poi Tolumnio li ha insultati ed è stato cacciato come un cane. Se il tuo piano è attaccare Roma senza quell’alleanza, finirai solo con l’indebolire Veio.»

    Di nuovo Kurvenas rimase calmo, ma si allontanò da Mastarna, per sicurezza. «Vedi, mio zilath, ti avevo detto che non avrebbe voluto assaltare la città della moglie.»

    La discussione aveva attirato altre persone, che avevano lasciato il falò e si erano avvicinate: una folla di facce interrogative. Una in particolare era cadaverica. Quella di Thefarie Ulthes, fratello minore dello zilath avvelenato da Tolumnio. Di solito, l’ampio sorriso e la risata profonda di Thefarie contagiavano tutti, richiamando il buonumore anche nei più riluttanti. Quella notte, però, rimase solenne e muto. La moglie, invece, non riuscì a contenersi. Ramutha Tetnie tremò rivolgendosi a Vibenna. «Come hai potuto? Come? Eleggere un sovrano vuol dire disonorare il clan Ulthes!»

    Cecilia vide Kurvenas trasalire. La maggior parte degli uomini veientani stimava le mogli e ne apprezzava le opinioni. Ma il modo in cui guardò Ramutha le fece intuire che in quello era più simile a un marito romano che rasenna. La moglie non c’era quella sera. Al suo posto, aveva portato una cortigiana. Ignorando Ramutha, Kurvenas si rivolse ai principi intorno a lui. «Sapete tutti che non sono come mio cugino Tolumnio. E non serve che l’isteria di una donna distorca le mie motivazioni. Non voglio recare offesa alla Casata di Ulthes, ma abbiamo subito sette anni d’assedio. Roma va attaccata. E dev’essere un re a guidarci.»

    All’improvviso Thefarie ritrovò la voce, con un volume tale da compensare il silenzio precedente. E anche lui, come la moglie, riversò la rabbia su Vibenna. «Come puoi permetterlo? Pensavo fossi un amico.»

    Il vecchio raddrizzò la schiena, cosa che gli provocò un nuovo accesso di tosse. «Non sono nemico di nessuno». Faticava a riprendere fiato. «Né lo sono i capi delle tribù dell’Alto Consiglio.»

    Il disagio di Cecilia aumentò appena si rese conto che la questione era già stata decisa. La gioia del ricongiungimento si era dissolta ormai; l’inebriante euforia rimpiazzata dalla sensazione di non avere più il controllo sulla propria vita.

    Mastarna rise amareggiato. «Ora capisco. Mentre ero via Kurvenas non si è limitato a fare strategie contro i Romani.»

    Prima che uno dei due potesse

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