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Nika e il conte, il romanzo di Stiria
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Nika e il conte, il romanzo di Stiria
E-book263 pagine4 ore

Nika e il conte, il romanzo di Stiria

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Info su questo ebook

Cosa può produrre l'odio e l'ambizione dei potenti in un'epoca in cui le differenze sociali erano discrimine ineludibile, le donne esseri inferiori per definizione quando non streghe, la peste l'espressione della volontà di Dio di punire i peccatori e non un morbo, e la Ragion di Stato l'unico elemento di riferimento del governo, spesso spietato e spregiudicato, dei domini del Sacro Romano Impero? Una storia come quella che si racconta in questo romanzo: una vicenda in cui il contrasto è risolto nell'odio tra un padre potente e un figlio altrettanto volitivo e determinato, una storia vera che, tra i molteplici intrighi, mette in evidenza la costrizione finanche dei sentimenti entro i rigidi schemi imposti dall'alto, e in cui il conflitto tra potere temporale e potere spirituale domina le coscienze e determina gli atti umani anche nel solido e forte Conteggio di Celje tra la fine del 1300 e l'inizio del 1400.

Rossana Cilli, romana, formazione classica, germanista; responsabile dell'organizzazione di congressi internazionali per l'industria farmaceutica e aeronautica, ha in seguito gestito una sua libreria indipendente. Ha pubblicato sei romanzi. È stata relatrice a Più Libri Più Liberi a Roma. Collabora con Ameriaradio Terni in programmi culturali. Ha vinto diversi premi letterari.
LinguaItaliano
Data di uscita31 mar 2024
ISBN9791223023242
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    Anteprima del libro

    Nika e il conte, il romanzo di Stiria - Rossana Cilli

    Collana

    CHIAMATELO AMORE

    Rossana Cilli

    NIKA E IL CONTE

    Il romanzo di Stiria

    MONTAG

    Edizioni Montag

    Prima edizione marzo 2024

    Nika e il conte

    © 2024 di Montag

    Collana Le Fenici

    ISBN: 9788868927653

    Copertina: K. De Schepper, Unsplash.com

    Quest’opera è esclusivamente frutto della fantasia dell’autore. Ogni riferimento a persone esistite, esistenti o a fatti accaduti è

    puramente casuale.

    a tutti coloro che portano il nome di Cilli,

    la versione moderna del nome di Celje.

    Capitolo 1

    «Nei domini romani al Nord dell’Impero vi era una città florida e densamente popolata, protetta da alte mura e torri, piena di palazzi in marmo a più piani, con vie, piazze, mercati e una lunga strada basolata romana che la collegava a Ovest ad Aquileia e a Est a Pannonia. Detta anche Seconda, o Piccola Troia, era in realtà Civitas Celeia, la città che nel 46 dopo Cristo, sotto l’imperatore Claudio, ottenne i diritti municipali assumendo il nome di Municipium Claudia Celeia. Ma oggi, mio giovane allievo, noi la chiamiamo semplicemente Celje, la nostra Celje. Tu provieni dunque da un passato glorioso che ha attraversato la storia di due Imperi: quello Romano millecinquecento anni orsono e quello dei nostri giorni che noi denominiamo Sacro Romano Impero. Una storia che il tuo Casato ha contribuito a costruire negli ultimi due secoli con grande abilità e coraggio. Per questo tu stesso sei destinato a una vita altrettanto piena di gloria, e proprio perché tu cresca nella consapevolezza del tuo alto destino, da oggi seguirai gli insegnamenti che io ti impartirò, secondo i desideri del tuo nobilissimo padre conte Ermanno II».

    Federico, il giovane allievo, ascoltava il maestro Viljem con interesse e rispetto, e anche per dovere dal momento che, quale unico erede maschio del casato, doveva anteporre lo studio ai piaceri di adolescente interessato più alla scoperta della vita che ai gloriosi passati imperiali della sua terra di Stiria.

    Federico aveva già compiuto i dodici anni, era un ragazzo piuttosto alto per la sua età e di costituzione fisica snella, forte e slanciata, tanto che la sua bionda testa svettava tra quelle dei suoi compagni che con lui si addestravano all’uso delle armi, delle lingue, delle arti e della cavalleria.

    Correva l’anno 1392. Il Sacro Romano Impero era ormai la più grande potenza politica e religiosa d’Occidente e i suoi nemici continuavano ad essere gli ottomani, gli infedeli turchi che da molto tempo insidiavano con guerre feroci il suo potere.

    Come aveva giustamente detto il maestro Viljem, da oltre due secoli la potente stirpe dei conti di Celje dava il suo prezioso contributo alla lotta agli infedeli, arrivando a conquistarsi una posizione dominante fra i casati più influenti d’Europa. E molto ancora si sarebbe rafforzata di lì a pochi anni, allorché ottenne dall’imperatore Sigismondo d’Ungheria il titolo di Principi dell’Impero in segno di riconoscenza per essere stato tratto in salvo da Ermanno durante la disfatta di Nicopoli.

    Viljem naturalmente seguiva con vivo interesse i fatti del Secondo Impero che, oltre che Romano si fregiava d’essere anche Sacro, però, a parte la storia e il pensiero dei suoi tempi, egli era particolarmente affascinato dalla storia antica del Primo Impero, quello solo Romano, e per questo volle subito chiarire con il conte padre che ne avrebbe fatto spesso oggetto di lezione.

    Malgrado Ermanno desiderasse che Viljem - noto al tempo come il miglior maestro di Stiria - si concentrasse piuttosto sui successi più recenti del suo casato, aveva finito per acconsentire allo studio della storia antica, e lo invitò a stabilirsi alla rocca così da assicurare al suo secondogenito l’istruzione migliore. Ecco perché quel giorno il buon maestro stava impartendo la sua prima lezione al giovane rampollo.

    Federico conduceva a quel tempo una vita normale, senza particolari privilegi o concessioni che pure il suo rango gli avrebbe consentito; il padre, uomo severissimo e sui campi di battaglia capace di gesti di estrema spietatezza verso il nemico (per la verità non meno crudele e spietato di lui), era nondimeno acuto di mente e, in tempo di pace, la sua politica di rafforzamento ed espansione contava anche su opportune e mirate alleanze matrimoniali con i nobili casati circostanti.

    Per questo l’ignaro dodicenne era già destinato a Elisabetta di Frankopan contessa di Croazia, la quale aveva allora dieci anni e mostrava già un carattere volitivo e piuttosto esuberante.

    Mentre al castello si forgiava la vita di un ragazzo dal grande futuro, ai piedi delle tre colline sulle quali si distendeva imponente e svettante lo Stari Grad, il fortilizio nel quale lui viveva, la vita del popolo si svolgeva a valle al ritmo tranquillo e uguale delle semine e dei raccolti, dei mestieri e di quelle arti che facevano di Celje un luogo florido, dove tutto sommato vivere era piacevole, ma certo non ci si poteva sottrarre al duro lavoro e all’obbligo di versare oneri, gabelle, imposte e i migliori frutti di quel duro lavoro ai privilegiati abitanti in cima alle tre colline.

    La lezione durava ormai da più di due ore e il giovane conte dava i primi segni di stanchezza; il maestro lo vedeva, ma ligio al suo dovere e coerente con il suo modo di insegnare, non si fece certo muovere a compassione e continuò ancora per un po’ a parlare dei fasti dell’antica provincia romana che era stata la Stiria.

    Quando infine Viljem disse che la lezione era terminata, Federico corse via, attraversò l’ampio spazio che divideva due corpi distinti del castello e, salite sempre correndo le scale di un torrione di quattro piani, raggiunse una finestra al primo piano, dalla quale poteva osservare non visto i preparativi del grande gioco degli scacchi viventi che ogni anno, la prima domenica di maggio, dilettava la corte e coinvolgeva praticamente tutti i cittadini, tra i quali venivano scelti anche i sedici ragazzi e le sedici ragazze che fungevano da pedine sulla grande scacchiera bicroma allestista al centro del cortile del castello.

    Essere scelti come pedina per i giochi di maggio era una cosa ambitissima perché oltretutto per i giovani di Celje quella era probabilmente l’unica occasione per accedere allo Stari Grad, sia pure solo fino al grande cortile oltre le mura, e, facendosi notare, sperare di esservi presi a lavorare come stallieri, servi e, se fortunati, scudieri, o, nel caso delle fanciulle, come faticanti e cameriere

    La festa di primavera originava da un’antichissima usanza dei popoli nordici che si tramandava da secoli sotto il nome di Notte di Valpurga, era una specie di orgia sfrenata che si teneva nei boschi la notte tra il 30 aprile e il 1 maggio per accogliere la bella stagione e propiziare i futuri raccolti. Quando i romani tentarono di conquistare il barbaro Nord, l’usanza fu dapprima assimilata alla tradizione greco-romana dei baccanali; in seguito, la cristianizzazione prima e le usanze cavalleresche medioevali poi, avevano nobilitato la festività liberandola dalle sue caratteristiche più barbare e sfrenate, e conferendole le attuali più nobili di sfida d’armi e di gioco, anche se mantenne il suo significato di momento conviviale forse più d’ogni altro atteso dal popolo. Quel giorno infatti era uso che il conte offrisse un sontuoso banchetto a tutta la cittadinanza.

    Si poteva dire che durante tutto l’inverno, nel tempo libero, la gioventù di Celje si dedicasse quasi solo a quell’evento: i ragazzi si riunivano davanti alle taverne o nelle piazze, a provare le mosse su scacchiere immaginarie, mentre le ragazze provavano in casa vicino alle madri che intanto si occupavano alacremente di tessere e tingere le stoffe con le quali sarebbero stati realizzati i loro eleganti costumi.

    Federico avrebbe tanto voluto essere una di quelle pedine , ma sapeva che purtroppo il suo compito durante la festa era sedere accanto al padre alla sua destra, mentre sua madre sedeva alla sinistra con accanto la sorella maggiore Barbara. Insomma, sapeva che era destinato al privilegio di assistere ai giochi in prima fila, cosa che però lo faceva sentire solo un semplice spettatore, sia pure molto riverito e omaggiato al pari dei suoi illustri genitori. Certo un onore, ma che noia, che avvilimento star lì mentre i suoi coetanei, popolani e senza blasoni, si divertivano come matti a metter su spettacoli di giocolieri, a intrecciare danze, e a indossare vesti bellissime e piene di colore per spostarsi con grazia e perizia sulla grande scacchiera al comando del magister ludi che, tutto compreso nel suo ruolo, ripeteva ad alta voce le mosse via via indicate dai vari nobili sfidanti. Quella mattina però non c’erano prove, né figuranti, né altri preparativi da guardare, e il giovane conte si rassegnò così a ritirarsi nei suoi alloggi a far finta di studiare. O meglio, a oziare.

    A quel tempo c’erano persone che potevano permettersi di non fare niente e per le quali si assecondavano il capriccio e il vizio con ossequiosa remissività. Si trattava naturalmente dei nobili abitanti del castello, dei castelli, giacché molti ne sorgevano in quella e nelle altre regioni circostanti. Questo valeva soprattutto in tempo di pace, giacché in tempo di guerra quei nobili sfaccendati erano chiamati alle armi, a difendere i propri possedimenti e soprattutto la Cristianità. Ora si godeva di un tempo di pace - che tuttavia era sempre preparatorio di una prossima guerra - e la nobile famiglia godeva degli agi che gli competevano cominciando dalla quiete di quel luogo aperto, arioso e opulento nel quale abitava. Da lassù si potevano ammirare le cime dei boschi svettanti e scolpite dai raggi del sole contro campi di cielo blu o, di notte, dalla luna contro lo sfondo nero e stellato del firmamento. A volte nubi cupe e basse trascinate dal vento proiettavano tra una parete e l’altra delle tre colline lunghe ombre mobili e sospese, o scavavano cavità oscure, o ancora, dipingevano ampi fondali di piante secolari dai grandi fusti rugosi che incombevano sulle vite silenziose che restavano in basso ad affannarsi tra le pieghe dolci e rigogliose della valle.

    Jvo era un uomo di quella valle, era un contadino massiccio e cotto dal sole di molte estati, ed era vedovo; alla sua casa badava una figlia giovanissima, poco più che una bambina, mentre un figlio poco più grande di lei lo aiutava nei campi.

    Si diceva che la sua famiglia fosse stata in passato di nobili origini, poi, caduta in disgrazia, si era dovuta sottomettere a coltivare quella che un tempo era stata la sua stessa terra. Jvo, ancora ragazzo si era però rifiutato di umiliarsi davanti ai suoi concittadini e un tempo sudditi, ed era partito dalla sua Croazia per trasferirsi dapprima in Boemia, poi in Ungheria e infine in Stiria, dove aveva accettato di lavorare la terra dei conti.

    Lui negava ogni volta questa storia che chissà come aveva cominciato a circolare tra i celiensi sin da quando i tre erano giunti in città qualche anno prima, sicché nessuno sapeva realmente come stessero le cose.

    Jvo però era forte, disponibile e generoso, e riusciva a farsi voler bene dalla sua nuova gente, che, in virtù di queste sue caratteristiche, accettava di buon grado la sua ostinazione a tacere di sé, e tuttavia continuava a far congetture su di lui perché di sicuro un presunto nobile tra di loro non era certo cosa di poco conto, e così tra realtà e fantasia molto si fantasticava sul buon Jvo e la sua famigliola.

    Federico, deluso, stava già per abbandonare la finestra al torrione, quando vide un uomo giungere a dorso d’asino, fermarsi dinnanzi al grande portale d’ingresso che s’affacciava sul cortile, smontare, e dopo aver salutato le guardie di picchetto, avanzare a piedi tirando l’asino fino al magazzino di fronte per scaricarvi le ingombranti fascine che erano legate ai fianchi dell’animale.

    Successe allora che il manto e il cappuccio che gli coprivano la testa e le spalle scivolassero via svelando una chioma rossiccia e riccia che apparteneva a un ragazzo poco più grande di Federico, dal corpo ben fatto e più forte del suo.

    Il figlio del conte lo osservò raccogliere e indossare di nuovo il mantello, mentre un servo, sopraggiunto nel frattempo, cominciava a slegare le fascine per caricarle sulle spalle del ragazzo perché le portasse all’interno.

    Federico allora, preso da un impulso fulmineo, gridò verso di lui,

    «Ragazzo, laggiù! Aspettami per favore, ora scendo, ti devo parlare».

    Il ragazzo e l’uomo si voltarono contemporaneamente a guardare il giovane conte che parlava affacciato alla torre, ma mentre l’adulto tornò subito a occuparsi delle fascine, il giovane rimase a fissare la finestra ormai vuota.

    Pochi attimi dopo Federico l’aveva raggiunto.

    Il ragazzo era Goran, il figlio di Jvo.

    Goran ogni settimana saliva al castello portando fascine di legna che raccoglieva lui stesso nei boschi tra la valle e la rocca, oppure altre provviste che servivano ai conti.

    Federico l’aveva già visto in altre analoghe occasioni giungere assieme agli altri fornitori o da solo, ma non gli aveva mai rivolto la parola. Probabilmente la stanchezza per la lunga lezione di Viljem, o la delusione per l’inattesa mancanza quel giorno di prove per la festa imminente, lo avevano spinto a cercarsi qualche altra distrazione, giacché di certo di rinchiudersi nelle sue stanze in una mattinata già quasi di primavera in quel tiepido marzo, non gli andava proprio a genio.

    In Stiria gli inverni erano lunghi e duri, quell’anno invece l’inverno era stato eccezionalmente clemente, e lui d’impulso aveva deciso di approfittarne a modo suo.

    «Sbrigati a portare dentro la legna», gli disse prima ancora di chiedergli il nome. «E poi vorrei che mi accompagnassi nel bosco a dorso del tuo asino, mi piacerebbe vedere come si sta su quell’animale. Che ne dici?»

    Mentre l’adulto salutava con ossequio il giovane nobile, Goran ancora incredulo per quelle sue parole, lo guardò stupefatto e così gli parlò.

    «Tu, nobile conte, possiedi molti cavalli di razza, destrieri che qualunque cavaliere ti invidierebbe, e la mia è una bestia di sicuro buona a portar carichi e pesi, ma è lenta e sgraziata, perché vuoi montare proprio lei?»

    Federico sorrise e spiegò, «Sì, è vero possiedo molti destrieri ma per prenderli ho bisogno del permesso di mio padre, mentre io voglio esser libero di fare una nuova esperienza, di uscire da qui senza che mi vedano o lo sappiano, e non voglio attorno la solita corte di persone. Per questo ti chiedo di accompagnarmi tu, sono certo che insieme ci divertiremo un mondo a cercare funghi e a cacciare conigli».

    Detto questo i due finalmente si presentarono.

    Goran aveva tredici anni, un anno solo più di Federico, ma era come se ne avesse dieci di più, lavorava come un uomo nei campi e nei boschi dall’età di otto anni, non ricordava l’affetto della mamma, persa mentre metteva al mondo sua sorella, e certo non godeva della spensieratezza del giovane conte, ma era pur sempre un ragazzo, e la novità inaspettata di diventare compagno del giovane nobile (che dal canto suo s’era presentato a lui semplicemente come Federico), sia pure per il tempo di una passeggiata lo eccitò molto e accondiscese subito. Così poco dopo i due amici - ormai si poteva chiamarli così - si inoltravano nel bosco stretti insieme in groppa all’asino che, paziente e ubbidiente, trotterellava col suo carico di gioventù e spensieratezza.

    Quando furono in un posto che conosceva Goran - andiamo per di là, aveva esclamato lui a un tratto, ti mostro una cosa che di sicuro ti piacerà - smontarono, legarono la bestia al tronco di un albero e raggiunsero di corsa un’altura.

    Da lassù si scorgevano l’altra cresta della collina e poco più in basso i resti di un antico edificio, tutto diroccato ma assai suggestivo a vedersi: erano certo i resti di un insediamento romano dal quale partiva un’antica strada di basole quasi tutta invasa da erbaggi d’ogni tipo e fiorellini di campo, un bel luogo archeologico che ai due ragazzi parve invece un luogo magico, forse abitato da quegli gnomi, fate e folletti che si diceva popolassero i boschi. Erano i segni dell’antica Celje che proprio quella mattina era stata oggetto della lezione di Viljem e che aveva dato alla città il soprannome di Seconda Troia per via dei molti strati di scavi che l’avevano formata nei secoli.

    Federico avrebbe dovuto riconoscervi gli elementi descritti dal suo nuovo maestro, invece non vi badò, perché fu distratto da qualcosa che appariva e scompariva tra gli alti arbusti che ricoprivano tutto il luogo, e che solo la spinta del vento lasciava scorgere a tratti tra di essi. Anche Goran aveva visto qualcosa e, intesisi a sguardi, i due ragazzi si avvicinarono cauti a vedere cos’era.

    Gli occhi del cervo erano asciutti, opachi, il muso gelido e oblungo, le labbra appena dischiuse e lo sguardo aperto sul nulla, fissato in un’espressione d’immobile stupore. Goran provò a spostare il cervo tirandolo per una zampa, ma l’animale pesava come un macigno, come se la morte, nel mentre si prendeva la sua vita, l’avesse voluto risarcire donandogli una forza esagerata.

    Le nuvole passando oscuravano il sole e galoppando verso oriente contribuivano a creare una sinistra atmosfera intorno alla povera bestia che riposava su quelle antiche pietre come un soldato senza nome caduto e dimenticato.

    Ignari delle cose della vita, i due ragazzi pensarono subito a una morte naturale, infatti se il cervo fosse stato ucciso da un cacciatore, certo adesso non sarebbe stato lì, ma sarebbe stato ben farcito di castagne e spezie e servito sulla mensa del conte o di qualche altro signorotto locale. Solo quando si avvicinarono di più e riuscirono a girare l’animale sul dorso, i due s’accorsero dello squarcio dritto e chirurgico eseguito dal pugnale che l’aveva ucciso, e poco distanti, asportate e ammucchiate, le sue viscere mollicce, dove file di formiche, nugoli di mosche e corvi neri si stavano contendendo i bocconi migliori.

    Lo sconcerto prodotto da quella terribile scena e l’odore nauseabondo che il vento girando repentinamente aveva portato alle loro narici, indussero i due amici a tornare sui propri passi, ma poiché la curiosità di due adolescenti vinceva anche su un simile spettacolo, poco dopo tornarono indietro a esaminare meglio la scena del delitto turandosi però il naso con dei fazzoletti legati a bavaglio.

    Federico parlò per primo.

    «È questa la cosa che mi sarebbe dovuta piacere molto?»

    Il tono era una via di mezzo tra l’ironico e lo stupefatto.

    «Certo che no…», replicò stizzito Goran, fermandosi però giusto un attimo prima di aggiungere che il suo amico, ma pur sempre secondo signore della città dopo suo padre , sarebbe stato ben sciocco se pensava una cosa simile di lui. Quindi corresse il tiro e aggiunse quasi per scusarsi, come se quello scempio fosse stato una colpa sua.

    «Volevo solo farti vedere la città morta e questo scorcio di paesaggio d’incredibile bellezza che si gode da quassù. So che né tuo padre, né altri vengono mai a cacciare qui e forse neanche sanno che esiste la città morta, comunque te lo giuro, tre giorni fa il cervo non c’era, io davvero non potevo sapere che…».

    «Ma sì, lo so che non volevi mostrarmi un simile orrore».

    Intanto che lui parlava, Goran si era di nuovo avvicinato a guardare la bestia morta: i suoi occhi neri sembravano affondati nella paura, lo fissavano senza chiedergli aiuto, dal fondo del loro mistero. Federico lo raggiunse.

    Poiché era evidente che il povero cervo era stato sacrificato per officiare chissà quale rito oscuro - cosa assolutamente proibita su suolo d’un sacro impero e quindi perseguita come sacrilega e punita con la morte - i due intuirono subito di avere di fronte l’opera di una strega, ma benché fossero soli, non osarono nemmeno pronunciare quella parola. Si sapeva che nei boschi qualcuno partecipava a strani riti officiati perlopiù da donne malviste e additate col nome di streghe. Si sapeva che queste donne conoscevano i segreti di tutte le piante e di tutti gli animali e che preparavano certe strane misture a scopo medicamentoso, ma anche per compiere riti atti a evocare fatture e chissà cos’altro di male, che riecheggiavano primordiali pratiche pagane i cui scopi di sicuro erano illeciti.

    Non era raro che qualcuna di loro venisse sorpresa a preparare le sue diavolerie e quindi arrestata e condannata a morire, forse bruciata su una pira in mezzo a una piazza, o in qualche altro atrocissimo modo.

    Questa pratica a quel tempo non era ancora controllata dal potere spirituale, che cominciò ad occuparsene alcuni decenni dopo, ma piuttosto dai tribunali laici ai quali ci si rivolgeva per eliminare donne che perlopiù facevano paura a causa della loro erudizione e capacità di

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