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Il sale della terra - Atto II: Regnum
Il sale della terra - Atto II: Regnum
Il sale della terra - Atto II: Regnum
E-book322 pagine4 ore

Il sale della terra - Atto II: Regnum

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Info su questo ebook

Clarenza è una giovane dama che ha vincolato la sua castità alla causa della libertà. Non cercherà le braccia di un uomo finché Messina, la sua città, non sarà libera dall’assedio di Carlo d’Angiò. È disposta a tutto pur di vedere realizzati i suoi propositi, pure ad impugnare le armi al pari di un uomo. Clarenza però non ha fatto i conti col cuore. Si innamora di Giordano, braccio destro del comandante dei messinesi. 
Siamo nell’estate del 1282, a pochi mesi dallo scoppio della rivoluzione che ha incendiato l’intera Sicilia, e Pietro d’Aragona, incoronato nuovo re dell’isola, sta per giungere in soccorso dell’assediata Messina. Clarenza avrebbe motivo di ben sperare, tuttavia non ha fatto i conti con la gelosia di Macalda, moglie del comandate ma signora e amante di Giordano. La caratteristica più lampante di Macalda è l’insaziabile lussuria, nondimeno è anche una donna ambiziosa e priva di scrupoli, tanto da riuscire a convincere re Pietro a dare Clarenza in moglie a Rodolfo di Rossavilla, esule siciliano ritornato adesso dall’Aragona, ma soprattutto, fratello di Giordano. 
Intanto infuria la guerra tra i siculo-aragonesi e gli angioini. Una guerra combattuta a cavallo dello Stretto e sui mari. Una guerra che durerà venti anni, in cui sovrani e comandanti dovranno lasciare il posto ad altri, ad uomini con altre ambizioni, disposti al sacrificio come al tradimento, disposti al compromesso come a nessun accordo. Allora il proseguimento della guerra diventa una necessità per quanti ne sono rimasti coinvolti, perché la vittoria del nemico significherebbe la fine certa degli sconfitti. Tale è il problema che si ritrovano ad affrontare i nobili di Sicilia, alla ricerca di un re degno quando comprendono che il successore di Pietro intende consegnarli nuovamente agli angioini. Forse esiste ancora un modo affinché “il sale della terra” riottenga il suo sapore, l’importanza che merita nel mondo…
Ma il bisogno di sopravvivenza domina anche Rodolfo, alla ricerca dell’onore perduto… e domina Julien, il suo più acerrimo nemico, l’uomo che un tempo gli aveva tolto tutto. Julien tuttavia non è più l’ambizioso cavaliere di molti anni prima… Privato di tutto dalla furia dei siciliani in rivolta, egli si ritrova a pensare alla sua vera identità, avvertendo in sé quel richiamo chiamato “appartenenza”, qualcosa che non ha a che fare con nazionalità, famiglia o religione, ma solo con quelle scelte che hanno origine nel cuore. 
LinguaItaliano
Data di uscita25 gen 2022
ISBN9791220891226
Il sale della terra - Atto II: Regnum

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    Anteprima del libro

    Il sale della terra - Atto II - Giovanni Mongiovì

    PARTE I

    Clarenza: La tenacia

    Capitolo 1

    8 agosto 1282, Messina

    Cosa c’è di più vincolante dell’onore? Una costrizione interiore capace di generare patimenti e dolore al pari di una grave ferita… questo è l’onore. Ed in effetti l’onore e le sue costrizioni spesso scaturiscono da una ferita dello spirito… dall’offesa, dall’ingiuria, dalla violazione. Ritrovare la libertà ristabilendo il proprio onore, ecco cosa rende schiavi e folli, perché i due concetti non possono che essere opposti, e perseguire uno significa spesso perdere l’altro.

    Clarenza, figlia della nobiltà messinese, oltre alla libertà aveva perso il sonno. Per un anno e mezzo era stata rinchiusa nelle prigioni del Matagrifone, in attesa che Erberto d’Orléans, vicario di Carlo d’Angiò in Sicilia, trovasse per lei una collocazione fruttuosa. Si era ritrovata prigioniera a causa della condotta del padre, quando questi aveva deciso di disobbedire agli ordini ingiusti che per vincolo feudale era chiamato ad attendere. Non era infatti un caso che Carlo avesse nominato Erberto vicario in Sicilia. Il cavaliere d’Orléans aveva già dato prova di ligia fedeltà in Calabria, indagando e imprigionando quei baroni che per avidità o mancanza di senso del dovere non assolvevano i loro obblighi di vassalli. Nondimeno, la ligia fedeltà di un ministro del re angioino non poteva che rappresentare un male per la povera gente del Regno… in quanto quegli stessi ordini erano la cosa più odiata con cui ci si fosse mai confrontati. Era stato per questo che, quando nella primavera del 1280 Erberto era stato nominato vicario in Sicilia, Stello, padre di Clarenza, si era ritrovato nel disfavore del re francese. Stello, incaricato della riscossione dei tributi già prima dell’avvento di Erberto, si era rifiutato di rovistare con più veemenza e frequenza nelle tasche del popolo. Non c’era spazio per i coscienziosi come il padre di Clarenza, e così il vicario di Sicilia l’aveva fatto arrestare. Il povero Stello non aveva retto alla prigionia e alla rovina che si era abbattuta sulla sua casa, e così se n’era andato pochi mesi dopo l’incarceramento. Dunque, intendendo mettere mano sul patrimonio del defunto nobiluomo ribelle, Erberto aveva fatto rinchiudere anche Clarenza, diciannovenne di discrete fattezze nonché unica figlia ed erede di Stello, in attesa che un suo nipote ancora bambino raggiungesse l’età per sposarla. Quei piani erano stati tuttavia frustrati dalla furia del popolo e dal desiderio dei siciliani di liberarsi di ogni francese; Erberto era fuggito in Calabria, benché con l’inganno avesse promesso di tornarsene oltre le Alpi. Clarenza era stata invece liberata.

    La giovane figlia di Stello se ne stava china sulla tomba del padre quando Dina, giovane vedova dal simile destino che aveva conosciuto al Matagrifone, venne a trovarla.

    «Non si era detto che non ci saremmo commiserate, mia cara Clarenza?»

    E questa, voltandosi:

    «Il corpo del tuo sposo fu gettato in mare dalle mura del Salvatore 1, ma mio padre riposa qui.»

    «Forse allora sarebbe stato meglio che neppure tu avessi una lapide su cui piangere, perché ciò che è tangibile ci lega alla passiva rassegnazione… esso attrae le nostre lacrime e la nostra determinazione. Non si era detto, Clarenza, che non avrebbe fatto differenza alcuna il fatto d’esser nate donne? Lascia le lacrime a coloro che tale differenza la sentono vincolante e vieni con me a levare alto l’onore delle nostre famiglie!»

    «Abbiamo qualche scelta ora che il conte Alaimo arma vergini e fanciulli e mette di vedetta vecchi e bambini?»

    «No, non ne abbiamo… né ne avremmo comunque, in virtù del giuramento che ci facemmo mentre osservavamo questa città dalle feritoie del Matagrifone.»

    Clarenza si alzò e, col fuoco negli occhi, stringendo il pugno della sua compagna, rispose:

    «Mai più un francese oltrepasserà queste mura!»

    E detto questo si recò in un angolo per raccogliere la sua arma, una pregiata balestra a due piedi 2.

    «Fui orfana di madre pochi giorni dopo la mia nascita e mio padre sposò successivamente una donna sterile… fu per questo che mi addestrò all’uso della balestra, perché nessun uomo avrebbe un giorno tutelato il mio onore… e di darmi ad uno di quei francesi non ne aveva proprio intenzione.» spiegò ancora Clarenza.

    «Avrebbe potuto darti ad uno dei rampolli della nobiltà locale, proprio come fece mio padre.»

    «Forse temeva il veto del re, e che forzarlo avrebbe significato grande sventura, proprio come accadde al tuo amato.»

    «Perciò ho giurato che non conoscerò le braccia di un altro per tutti i giorni della mia esistenza… e perciò monterò di guardia anche questa notte sulle mura.»

    «Perciò ho fatto lo stesso giuramento anch’io, consacrando a Dio la mia castità in cambio del fervore dei cavalieri. Che però l’Angioino non ci attacchi di nuovo all’ingresso del porto, amica mia…»

    «Credo che la lezione di due giorni fa, la pioggia di dardi e sassi piovuta sulle sue galee dalle mura del Salvatore, gli sia bastata.»

    «Alle mura allora.»

    «Alle mura!»

    Dina e Clarenza erano solo due delle molte donne che in quei giorni d’estate del 1282 si adoperavano per difendere Messina dagli attacchi di Carlo d’Angiò. Allo stesso modo venivano mobilitati vecchi e bambini, costretti dal capitano del popolo della città, ma anche dalla propria coscienza civile, da quel sentimento di indipendenza che era rinato con la rivoluzione originatasi in primavera. La città del Faro 3 era da allora un comune indipendente, e lo erano tutte le città siciliane, riunite nell’universale senso d’appartenenza e consacratesi con il solenne giuramento di mutua difesa, valori rappresentati da qualche tempo da un’unica bandiera, quella giallo-rossa su cui si stagliavano la gorgone e la triscele.

    A tali valori, originatesi nei meandri del popolo, adesso ci credevano anche i nobili locali, coloro che un tempo avevano accondisceso al governo di Carlo d’Angiò. Era stato così che una vecchia volpe come Alaimo da Lentini era asceso ai favori dell’intera popolazione della Sicilia orientale.

    «Alaimo… Alaimo!»

    Avevano infatti acclamato i messinesi, consacrando l’esperto comandante col sangue degli ultimi nemici della libertà ancora detenuti nelle carceri cittadine.

    Gli odiati de Riso, partigiani dei francesi, erano stati prelevati dal Matagrifone e condotti al patibolo: uno decapitato, gli altri fatti a pezzi… tutti insieme trascinati per le vie della città.

    La rabbia era tanta, soprattutto perché il primo ed unico scontro che i messinesi avevano avuto con l’esercito di Carlo, sulla strada per Milazzo, lì dove l’Angioino aveva fatto sbarcare parte delle sue truppe, si era concluso con una sconfitta. Era stato allora che, stanchi della guida di Baldovino Musone, capo del popolo sorto dagli entusiasmi della rivoluzione, i messinesi si erano scelti il conte Alaimo. Avevano eletto un nobile per un popolano, a dimostrazione che qualcosa stava cambiando negli umori della gente. Avevano esaltato dei semplici cittadini, ma adesso bisognava fare la guerra, quella vera, e serviva gente che la sapesse fare di mestiere… bisognava rivolgersi a quegli stessi nobili che la rivoluzione originatasi a Palermo il 30 di marzo se n’erano stati solo a guardarla. Avrebbero potuto esaltare qualunque nobile… avrebbero potuto eleggere Gualtiero da Caltagirone, che con risorse umane e denaro proteggeva anch’egli le mura di Messina… scelsero tuttavia Alaimo, poiché riguardo ai fatti che avevano infiammato l’intera Sicilia egli costituiva un’eccezione all’impassibilità generale del baroni, un’eccezione degna di essere presa in considerazione.

    Si narrava che, allo scoppio della rivoluzione nella città di Catania, sua moglie Macalda avesse inscenato profonda amicizia ai francesi terrorizzati dalla furia della popolazione e che li avesse fatti rifugiare in casa sua. Sennonché Macalda, fatta di carne e tradimento, era stata pronta a cambiar partito. Le male lingue dicono che fu uno dei suoi amanti, nascosto nella stanza in cui aveva riunito i francesi, altri dicono si trattasse semplicemente di un valletto avvezzo alle armi… fatto sta che la losca figura saltò fuori e fece strage dei tremanti angioini. Altri Macalda li risparmiò, perché anche i catanesi avessero la loro parte, e con tal gesto potessero capire da quale lato stessero adesso la contessa di Scaletta e suo marito.

    Il vecchio Alaimo era stato da lì a poco nominato capitano del popolo di Catania, e adesso, avendogli dato fiducia anche l’assemblea dei maggiorenti di Messina, era pronto a guidare la città del Faro e i suoi venticinquemila e poco più abitanti, comprendenti soprattutto vecchi, donne e bambini inabili al combattimento, contro i ben più numerosi soldati di Carlo, i quali non vedevano l’ora di far breccia nelle mura e destinare Messina alla stessa sorte che un tempo era toccata ad Augusta: la totale distruzione e il completo massacro. L’esercito preparato per la campagna di Grecia era ora pronto a rivolgere le proprie spade contro una parte di quello stesso Regno che aveva finanziato l’impresa.

    Alaimo era capitano già da qualche settimana quando il 25 luglio Carlo d’Angiò lasciò la Catona 4 su una galea ricoperta di porpora e venne a sbarcare nella stretta pianura costiera che corre a sud della città. Era già osannato per tutto il litorale ionico dell’isola e per metà di quello tirrenico quando si ritrovò a parlamentare con cardinal Gherardo da Parma, ambasciatore dell’Angioino. Questi proponeva la scongiura dell’assedio e un governo più equo in cambio della capitolazione completa.

    Il secco rifiuto di Alaimo e dell’intera cittadinanza fece grande impressione nel campo dei francesi, e Carlo, intenzionato a spaventarli per farli cedere, prese a devastare il contado con stragi e distruzioni. Non aveva tuttavia compreso che la paura può anche provocare il risultato inverso: i messinesi, vedendo quanta furia ci metteva il rinnegato re nella sua vendetta, si convinsero ancor di più che cedere avrebbe significato mali indicibili. Provocatoriamente incendiarono settanta galee allestite nell’arsenale cittadino per la campagna di Grecia, e altre le dismisero per procurarsi legname utilizzabile nel rafforzamento delle difese.

    Esisteva una legge universale sugli assedi. Qualora una città si fosse arresa all’assediante, tutte le sue ricchezze spettavano al sovrano. Qualora invece essa fosse stata presa con la forza, per tre giorni l’esercito l’avrebbe saccheggiata e ogni soldato avrebbe arraffato, di roba e risorse umane, quanto più avesse potuto. Viene da sé che Carlo intendesse scongiurare la seconda possibilità, perché Messina era una città molto ricca e lui un uomo molto avido. Si decise perciò di pazientare e di aspettare che la tenacia dei messinesi lasciasse il posto alla paura.

    Da qualche giorno la città era stretta a sud dalle truppe comandate direttamente da Carlo, e a nord da quelle che da Milazzo erano avanzate fino al Faro. Restavano libere solo le mura che correvano ad ovest della città, dove le montagne fungevano da barriera invalicabile ancor più delle fortificazioni. Da quelle parti si elevava un colle, un luogo d’importanza strategica, che se l’Angioino l’avesse preso i trabucchi ivi montati avrebbero costituito certamente un grave problema per le mura e la città intera. Alaimo sapeva benissimo che quel colle non poteva cadere in mano nemica, e perciò l’aveva fatto fortificare con steccati e fossati. Inoltre una guarnigione di esperti arcieri lo presidiava, per colpire il nemico mentre questi si accostava alle palizzate. Alaimo sapeva bene come difendersi, sennonché la notte dell’8 agosto una forte grandinata costrinse gli arcieri ai ripari. Allora Carlo, che la guerra sapeva parimenti farla, ne approfittò per un attacco a sorpresa. D’altronde non tutti i messinesi avevano la lungimiranza di Alaimo e molti ritenevano che un attacco da quelle parti fosse impossibile… che Carlo non avrebbe fatto avventurare l’esercito sui scoscesi fianchi dei Peloritani, tra i fitti uliveti che trattenevano il terreno… né tanto meno che l’avrebbe fatto di notte. In guerra, tuttavia, sta proprio nel ragionare come se si fosse in testa al nemico il vantaggio, nel colpire lì dove costui crede che non si possa colpire. Complice il maltempo, Carlo quella notte attaccò proprio dalle parti del colle della Caperrina.

    Francesi e alleati fiorentini avanzarono nelle ore più buie, e se Alaimo non l’avesse saputo prontamente, per certo quelli avrebbero occupato tutto il colle. La popolazione armata allora li respinse, facendo grande strage di coloro che faticavano a ripiegare. Ora, nel cuore della notte, torce alla mano, i messinesi si adoperarono per riparare la palizzata dov’era stata abbattuta. Accorsero in quel momento Dina e Clarenza, subito dopo aver terminato il turno di guardia sulle mura. Riprese poi a piovere e qualcuno le invitò a riparare nel convento dei domenicani, presente sul colle.

    «Restiamo qui, buonuomo!» risposero, e ripresero a vangare nel fango per sistemare il fossato.

    Temendo che quello fosse stato un attacco diversivo, Alaimo ordinò agli accorsi di riprendere posizione dov’era stato prescritto che se ne stessero: chi al porto, chi a nord e chi a sud.

    Giunse ora uno degli uomini più fidati del conte.

    «Voi, madonne, non serve più che ve ne stiate qui; tornate alle vostre posizioni.»

    Questi era un giovane nobile non ancora trentenne, di bell’aspetto e dotato di un’autorevolezza tale nell’uso delle parole che sembrava che a parlare fosse il vecchio Alaimo.

    «Dicono che qualcuno dovrà sorvegliare la palizzata.» si propose Dina.

    «So di voi che avete vegliato sulle mura durante le prime ore.»

    «Staremo in piedi… per non assopirci.» s’intromise Clarenza.

    Allorché l’uomo le illuminò il viso volgendo verso di lei la fiaccola che reggeva in mano.

    «Dirò ai miei uomini che la loro vita questa notte dipenderà dalla solerzia di due donne?»

    «Ai vostri uomini dite che questa notte saranno custoditi dagli occhi di Clarenza.»

    «Signore, fidatevi, abbiamo affrontato la prigionia… non ci spaventerà una notte di veglia.» spiegò ulteriormente Dina.

    «Temo per voi i nemici, non la notte.»

    «Mi difendo discretamente con questa.» mostrò la balestra Clarenza.

    Quello allora gliela strappò di mano, inspiegabilmente contrariato.

    «Sono richiesti i vostri occhi, non il vostro martirio! Ve la restituirò domattina.»

    «Non potete farlo!» obiettò Clarenza.

    «Tira molto bene, signore.» garantì Dina.

    «Un’arma del genere infonde coraggio, ma io vi chiedo gambe veloci per allarmare la città e mettervi in salvo.»

    L’uomo prese ad allontanarsi, ma Clarenza, ancora perplessa, chiese:

    «Di chi dovrò chiedere per riavere ciò che è mio?»

    «Aspettate domattina.»

    «Sì, ma come farò a ritrovarvi?»

    «Sarò io a ritrovare voi.»

    A questo punto Dina avvicinò Clarenza e le disse sorridendo:

    «Credo che volesse da te un pegno… per rivederti.»

    «È così che usano approcciarsi questo genere d’uomini?»

    «Tu non hai idea di chi fosse?»

    «Schiariscimi le idee, sorella.»

    «Era il braccio destro di Alaimo, Giordano di Rossavilla… Dicono sia stato lui l’uomo che la contessa Macalda teneva nascosto nella camera in cui accolse i francesi.»

    «Ha un viso così gentile!»

    «Ti sorprendi, Clarenza? Quanti soldati dell’Angioino avevano visi angelici e cuori diabolici? Dicono abbia compiuto un tale massacro per vendetta… perché quelli gli avevano tolto la sua sposa.»

    Clarenza si turbò nell’animo e rispose:

    «Gli si leggeva negli occhi la sua malinconia.»

    «Ritorna tra noi, sorella… Giordano è roba di Macalda!»

    «Eppure la sua sofferenza è così simile alla nostra… alla tua, Dina!»

    «Di questi tempi si percorrono strade dolorose…» concluse la più vecchia con malinconia, ricordando il lutto che portava nel cuore.

    Con questo in mente le due nobildonne si allontanarono l’una dall’altra, ciascuna verso la sua posizione di vedetta. Le separava una manciata di passi, ma l’oscurità non permetteva loro di vedersi. Affondavano i sandali nel fango e osservavano giù, alla base del colle, dov’era stata posta la prima fila di pali appuntiti e scavato il primo fossato. La possibilità che l’esercito di Carlo ritentasse una sortita da quelle parti era alta, ma non più alta della possibilità che un secondo attacco avvenisse altrove. Il cielo adesso era sereno e la pioggia della sera aveva lasciato il posto al canto delle cicale. Poi, quando mancava ancora un’ora ai primi bagliori dell’aurora, Clarenza venne velocemente verso Dina e disse:

    «Hai sentito?»

    «Non è per questi sentieri che viaggiano le nostre staffette?»

    «No… qualcuno si nasconde tra gli alberi!» esclamò Clarenza, sgranando gli occhi e afferrando il braccio dell’altra.

    Ora la paura, invero mai manifestata, venne fuori di getto.

    In quell’istante lo scalpitio incessante degli stivali di molti uomini si fece ben definito.

    «Arrivano!» fece spaventata Clarenza.

    «Ai massi, presto!» rispose Dina.

    La maggiore e la più determinata delle due dame messinesi si riferiva ai grossi massi che erano stati preparati sul fianco della collina nel caso in cui il nemico sopravanzasse. Quegli altri d’altronde scalavano l’altura ancora silenziosamente, intendendo guadagnare quanto più terreno possibile prima che i messinesi riuscissero a dare l’allarme.

    Ora le due donne provarono a spingere il grosso masso, ma dopo il primo tentativo, ricordandosi cosa fosse più saggio fare, Dina disse all’altra:

    «È un errore starcene qui entrambe. Non hai sentito messer Giordano? Gambe veloci per avvertire la città! È il tuo momento, Clarenza, perché è innegabile che tra noi due sei quella che corre più veloce.»

    «Messer Giordano si riferiva ad entrambe.»

    «Ma guardava te quando lo diceva! Se andiamo insieme perderemo il colle prima che giungano i rinforzi.»

    Clarenza fissò gli occhi stanchi ma non arresi di Dina e si ricordò che quegli occhi erano gli stessi che l’avevano sostenuta in tutti i mesi passati al Matagrifone.

    «Assicurati di scappare prima di entrare nel tiro delle loro balestre.» concluse Clarenza.

    Ora la più giovane delle due vedette correva su per il colle della Caperrina, e poi giù, verso le mura. Intanto entrava in contatto con gli arcieri, poco più indietro della linea delle vedette, e con le guardie poste innanzi alle mura. Clarenza avvertiva tutti coloro che incontrava.

    «Alle palizzate della Caperrina… ci attaccano!» gridava.

    Poi, timorosa di non aver fatto ancora abbastanza, corse alla cattedrale, e qui, penetrata all’interno del campanile, si appese alle campane per suonarle a stormo. Da quel momento Clarenza non vide più niente se non le sue mani aggrappate alle corde, e non udì più nulla se non i rintocchi delle campane… e dopo un po’ nemmeno questo: si ritrovò a non sentire più le mani e a non udire più i rintocchi. Quando passata l’alba e respinto il nemico qualcuno si rese conto che le campane non potevano suonare da sole, vennero al campanile per avvertirla. Inutile dire che Clarenza cadde sfinita sul pavimento. Teneva i palmi delle mani aperte, tremanti e sanguinanti, mentre osservava le labbra di quegli altri muoversi come a voler proferire qualcosa.

    «Messer Giordano, l’abbiamo trovata!» esordì uno degli uomini del conte Alaimo.

    Venne allora avanti proprio Giordano.

    «Madonna, vi ho giudicato male.» commentò questi, il quale, con umana pietà, l’aiutò anche a rimettersi in piedi.

    Clarenza però aveva lo sguardo confuso e scuoteva la testa ad ogni detto degli altri.

    «L’avranno rintronata le campane.» spiegò quello che l’aveva trovata.

    «Siamo in tempi di strettezza, ma le si dia la razione riservata ai comandanti… e che riposi nei miei alloggi.»

    Completamente estraniata dalla realtà, Clarenza venne accompagnata fino al carro. Qui se ne stava già Dina, seduta sul bordo.

    La più giovane si fermò innanzi alla sua compagna e commossa toccò la ferita che questa aveva sul braccio sinistro.

    «Me l’hanno fatta i nostri, nell’oscurità. Però quel masso, amata Clarenza, sono riuscita a spingerlo giù per il colle. Ho sentito le loro urla mentre rotolava giù! Ma tu, sorella, non hai avuto meno coraggio.»

    Clarenza scosse ancora la testa, non avvertendo altro che un continuo ronzio.

    Le due nobildonne non potevano ancora sapere quale valenza avesse assunto il loro operato. Alaimo aveva avvertito per loro l’araldo, ed ora questi anticipava il carro gridando che Messina aveva due nuove eroine. L’intenzione di tributarle era motivata certamente dalla gratitudine, ma ancor più forte era il bisogno che la popolazione, provata dall’assedio, si stringesse attorno a figure simboliche, capaci di rappresentare l’eroismo del popolo contro l’usurpatore della loro città. Fino a mezzogiorno i messinesi le condussero in processione, gridando Dina e Clarenza, salvatrici della libertà! per tutte le vie principali. Alaimo e gli altri ottimati le esaltarono… gli ecclesiastici, anch’essi impegnati nella difesa delle mura, le riverirono.

    Più passava il tempo e più Clarenza tornava ad essere padrona dell’udito… più succedeva questo e più aumentava il suo disagio nell’essere giudicata quasi una santa, lei che, seppure nobile, era una donna semplice. In fondo cosa chiedeva? Giustizia e di continuare ad esser libera, perché il giogo dei francesi non doveva mai più ritornare a gravare sui loro colli. Ma ora la povera gente si accostava al carro e piangendo le baciava i piedi infangati… pregandola le donava la propria razione di pane. Era chiaro che la causa di tanta umiliazione e patimento, ciò che spingeva la gente a simili atti, era l’assedio. Fu allora, nell’esatto momento in cui Giordano le rese la sua balestra, che Clarenza sentì che fare da vedetta non poteva più bastarle, e che da quell’istante in poi avrebbe offerto anche le sue braccia alla causa.

    «Mio signore, lasciate che faccia parte dei vostri uomini, sui camminamenti delle mura e innanzi alle porte.» richiese quindi direttamente ad Alaimo, urlando poiché il suo udito non si era ancora completamente ristabilito.

    «Non montatevi la testa, madonna! Avete salvato la Caperrina, ma altra cosa è respingere il nemico.» rispose invece Giordano, intenzionato ancora una volta a preservarla dagli aspetti più cruenti della guerra.

    Questa volta fu però Alaimo a zittirlo.

    Le parò una mano davanti e, impugnando l’elsa come a significare l’ufficialità della sua decisione, rispose:

    «Giordano, amico… la cittadinanza ha bisogno proprio di queste cose.»

    «Anche i balestrieri di Carlo sono precisi nello scorgere e colpire gli uomini fra le merlature.»

    «Sarebbe un male maggiore se lo spirito di questa gente si fiaccasse.» rispose Alaimo, che pure, abbassando il volume della voce in modo che la donna non potesse sentire, continuò:

    «E nella peggiore delle ipotesi ne faremo una martire, nel nome di cui far combattere il popolo.»

    Alaimo pose infine l’anziana mano sulla spalla di Clarenza e concluse:

    «Badate solo di essere prudente.»

    In tutta risposta lei si inginocchiò e con grande trasporto di spirito spiegò:

    «Ma se dovessi vedere Carlo tra i ranghi, state sicuro che lascerò la prudenza da parte e farò quanto è in mio potere per ammazzarlo!»

    Giordano e Alaimo, che pure erano abituati ad avere a che fare con la pertinace determinazione di Macalda, avvertirono un colpo allo stomaco, spiazzati e quasi turbati dalla tenacia con cui Clarenza intendeva ricacciare gli invasori, suoi precedenti aguzzini, dall’altra parte del Faro.

    Per Giordano, tuttavia, quel colpo allo stomaco aveva anche un altro effetto e sapore, un retrogusto impossibile da lavare con l’acqua e col vino, impossibile da mitigare col riposo. Il cuore di Giordano batteva già per Macalda, ma Clarenza e la sua giovinezza gli ricordavano di quale freschezza e genuinità si fosse già innamorato in passato. Se solo la spregiudicata Macalda fosse stata lì e avesse letto i suoi occhi… se solo avesse potuto scrutare il suo cuore…

    Macalda dal cuore di lava… pietra e fuoco nello stesso tempo… non avrebbe concesso scampo a colei che inconsapevolmente le stava rubando il suo Giordano. E d’altronde un crimine, quando già si è commesso una volta, è più

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