Presepi di periferia: Racconti di Natale
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Le storie di Silvio Mengotto, tracciate con penna leggera, appassionata, mai banale, uniscono cielo e terra, ieri e oggi. E aiutano a guardare al domani con rinnovata speranza. Quella generata, per sempre, da Gesù bambino, che si è fatto uomo e nasce in mezzo a noi ogni giorno.
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Anteprima del libro
Presepi di periferia - Silvio Mengotto
IL PRESEPE
Il presepe di papà aveva il profumo dell’attesa, icona dell’Avvento. Un tempo dove si spera di ritrovare Gesù, di riscoprirlo, avvicinarlo, attenderlo perché non c’è mai certezza di averlo scoperto. A causa di questa miopia, gli uomini e le donne sempre più sentono il bisogno di recitare il Natale perché è sempre più lontano dai loro cuori.
Da bambino non volevo recitare il Natale, ma riviverlo. Un’attesa mai uguale, sempre diversa e imprevedibile. Dio è sempre diverso e imprevedibile, sempre da scoprire. Per Enzo Bianchi il presepe è la possibilità di avere Betlemme in casa. I nostri Natali sono diventati ciechi, tristi, noiosi, ripetitivi perché non aspettano nessuno, solo regali! Natali chiusi, bloccati all’imprevedibile, allo straordinario gioco di un Dio bambino ricco che nasce povero in una mangiatoia nella periferia della Palestina.
Per David Maria Turoldo è proprio l’Occidente che non aspetta più nessuno, tanto meno Gesù, un bambino scomodo che scomoda e guasta la corsa forsennata dei consumi superflui che si scatena nelle feste natalizie. Per Gesù non c’è posto nei palazzi, nelle case, negli uffici, a volte anche nelle chiese. L’Occidente vuole devitalizzare Gesù, richiuderlo nel «penitenziario dei consumi» − come lo definiva Pier Paolo Pasolini −, al servizio di una «borghesia bianca e consumista».
Il presepe, che significa mangiatoia
, ogni anno a casa mia mutava in qualche particolare: una collina in più, nuovi canali d’acqua, nuove statuine e paesaggi, nuove luci. Nel tardo autunno ogni sera papà, con il suo piccolo Aquilotto,¹ tagliava la fitta nebbia di periferia, povera di cemento e ricca di marcite e orti. Si fermava in uno dei cento prati e, sui bordi dei fossi gelati e fumanti, raccoglieva verdi fazzoletti di muschio per il presepe.
Nel dialetto milanese muschio
si dice teppa
, ma significa anche un poco di buono, un teppista. Strana coincidenza: i pastori della Palestina, primi a rispondere allo straordinario evento della natività, erano considerati dei poco di buono, emarginati dalle città e villaggi. Più che poveri erano inaffidabili teppisti. Cristo sceglie subito il campo della semina. Lui nasce, muore e risorge in periferia, non nel Tempio! Il suo pulpito è la strada, il quotidiano.
La casa si profumava di muschio, insieme si mescolava un intenso e gradevole odore di terra che impregnava di ricordi le mie radici contadine. Costruendo il presepe, sostiene sempre Enzo Bianchi, si impara fin da piccoli a conoscere chi è Gesù e come è venuto al mondo. Fare il presepe equivale a rivivere con amore l’evento di Betlemme.
Finita la cena si sgomberava la tavola. Lo spazio liberato veniva occupato dal saldatore elettrico, stagno, dalla magica ramificazione di canali, canaletti, laghetti che, sera dopo sera, allungavano le sponde metalliche. Simbolicamente dovevo svegliare
le statuine dal letargo. Per undici mesi dormivano nell’oscurità del solaio. Lo raggiungevo con paura, ma l’attesa del Natale era forte, mi dava il coraggio di vincere i fantasmi, i rumori che la suggestione amplificava nelle serrature, negli infissi, nelle travi a palladio dell’interminabile abbaino. Davanti la porta del solaio aprivo il lucchetto a catenella. La lunga attesa era finita. Delicatamente risvegliavo pescatori, lavandaie, pastori, fabbri, carrettieri, capre, asini, maiali, galline, tacchini, cani, fagiani, pavoni, cammelli e, finalmente, gli affascinanti Magi. Solo alla fine Maria, Giuseppe e il piccolo Gesù, eternamente odoranti di gesso, muschio e muffa. L’immobilità delle figurine fibrillava la mia fantasia insieme a una gioia silenziosa. Con il soffio nell’attesa avevo riportate in vita tutti i personaggi del presepe. Noi bambini mettevamo molta cura nel preparare il presepe, sentivamo di vivere dentro di noi quello che cercavamo di raffigurare.
Una leggenda calatina (Caltagirone) dice che quando nacque Gesù chi stava portando un tozzo di pane alla bocca non lo portò più, chi sorseggiava non staccò più la bocca dalle labbra, gli uccelli si fermarono nel cielo insieme al sole, il pastore alzato il bastone non lo abbassò più. In questo modo nacque il presepe popolare dove le statuine sono immobili perché rapite, estasiate da un’energia misteriosa, straordinaria come quella di Gesù. Anche la casa mutava aspetto. Si spostava la credenza per dar spazio ai cavalletti che reggevano la base del presepe. Prima del muschio, sulle pareti del muro ad angolo si collocava il fondale: un luccicante cielo notturno lastricato di piccine stelle argentate e vie lattee. Poi la grotta che, nella sua mangiatoia vuota, aspettava il mistero.
Per finire le luci nelle finestre e grotte, nell’argentata cometa che illuminava a intermittenza il diorama. Un’invisibile pompa idraulica metteva in circolo l’acqua nei canali, laghetti, cascatelle, dove un mulino in ottone roteava spruzzi a mulinello. Io, rapito, guardavo l’attesa di una gioia che, miracolosamente, albergava già nel cuore. Come un bambino pieno di meraviglia contemplavo quelle lucine che, nella povertà del dopoguerra, ci stupivano con i colori lampeggianti a intermittenza.
A Natale, insieme ai pastori di gesso si univano pastori in carne e ossa. Amici, vicini, parenti, a volte sconosciuti, venivano dalle vicine ringhiere, dal cortile ricoperto di neve, per ammirare il presepe di papà. Non era un suggestivo paesaggio, ma un antico messaggio. «Il futuro entra in noi», dice Rainer Maria Rilke, «prima che accada.»
Il presepe è per i poveri della terra, per questo Gesù viene sempre!
Vieni di notte, ma nel nostro cuore è sempre notte: e dunque vieni sempre, Signore. Vieni in silenzio, noi non sappiamo più cosa dirci: e dunque vieni sempre, Signore. Vieni in solitudine, ma ognuno di noi è sempre più solo: e dunque vieni sempre, Signore. Vieni, figlio della pace, noi ignoriamo cosa sia la pace: e dunque vieni sempre, Signore. Vieni a consolarci, noi siamo sempre più tristi: e dunque vieni sempre, Signore. Vieni a cercarci, noi siamo sempre più perduti: e dunque vieni sempre, Signore.²
I poveri sono
i privilegiati di questo mistero