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Spigolature storiche e religiose di Vitulano: Quasi una storia della patria di Menna
Spigolature storiche e religiose di Vitulano: Quasi una storia della patria di Menna
Spigolature storiche e religiose di Vitulano: Quasi una storia della patria di Menna
E-book397 pagine5 ore

Spigolature storiche e religiose di Vitulano: Quasi una storia della patria di Menna

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Spigolature storiche e religiose di Vitulano è un viaggio con il quale Luigi Forgione ha cercato di portare alla luce il passato dei nostri antenati per valorizzare la nostra piccola patria locale, riproponendo in breve le sue vicende storiche, iniziando con l’esempio di Menna Eremita, che fin dall’esordio di questa trattazione, ci condurrà in un ostile teatro di convivenza, nel quale la fecero da padroni popoli venuti di lontano.
LinguaItaliano
Data di uscita13 mag 2020
ISBN9788835827078
Spigolature storiche e religiose di Vitulano: Quasi una storia della patria di Menna

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    Anteprima del libro

    Spigolature storiche e religiose di Vitulano - Luigi Forgione

    nipoti

    ​INTRODUZIONE

    Nel corso della redazione di questo lavoro, dedicato all’eremita Menna e al suo (e mio) paese d’origine, la mente è tornata, col ricordo ancora limpido, all’infanzia, a quando fanciullo, vagavo per le dirute vie delle nostre numerose frazioni che, oggi come ieri, si continuano a mostrare nella loro unicità e laboriosità.

    Trattengo nel cuore, i segni di una dignitosa povertà, concreta, diffusa, che si mostrava ordinaria e che rifletteva l’indole d’un popolo scontroso, ma disponibile a vivere con serenità, quell’aspra e genuina realtà, che molti oggi, sembrano rimpiangere. Quell’armonia si diffondeva dagli angoli più remoti ai selciati antichi dei borghi, mentre i vecchi, sapienti latori delle esperienze vissute, accomodati su gradini di pietra e circondati da gruppi di ragazzi, narravano e trasmettevano le vicende, che vi si erano consumate, concorrendo con la tradizione orale, alla custodia di quegli accadimenti, al consolidamento della memoria di un’intera comunità e alla sua radicalizzazione.

    Un modo di vivere semplice che purtroppo non tornerà…

    All’inverso, l’era della comunicazione multimediale pare ostacolare quelle relazioni, muove in altre direzioni, cancellando irrimediabilmente le esperienze vissute. Ma prima che ciò accada, prima che il ricordo di quei fatti venga definitivamente rimosso, quel ragazzo, a lungo lontano dal paese per necessità e oggi uomo attempato, sensibile, consapevole delle alterazioni e della necessità delle trasformazioni del mondo contemporaneo, si propone di ritardare quell’oggettività e di raccogliere atti e detti, laici e religiosi, degni del ricordo e, con semplice obiettività riproporli, per salvare ciò che è possibile conservare di quella memoria antica.

    Cercherà di portare alla luce il passato dei nostri antenati per valorizzare la nostra piccola patria locale, riproponendo in breve le sue vicende storiche, iniziando con l’esempio di Menna Eremita, che fin dall’esordio di questa trattazione, ci condurrà in un ostile teatro di convivenza, nel quale la fecero da padroni popoli venuti di lontano. Là, il Solitario del monte Pentime sarà a lungo il protagonista della provincia sannita, dove il peccato abbondava nelle arene di battaglia, mentre sulle alture del Taburno troneggiava la Grazia delle conversioni, operate anche con la mediazione dell’umile asceta, che costruì ed indirizzò positivamente le vicende medievali della nostra comunità.

    Partendo da quell’esperienza si toccheranno alcuni aspetti essenziali della sua vicenda terrena, con una rapida consultazione delle testimonianze, che furono base dell’agiografia del Santo e di tutto ciò che concorse a stabilizzarne la memoria e la venerazione. Si considererà l’insorgere della produzione narrativa, iconologica, liturgica, innologica sull’eremita vitulanese, non trascurando l’esperienza successiva che da questa ebbe vita e che si radicò nella realtà spirituale di Santa Maria delle Grotte, nonché la raccolta di preghiere per lo più in vernacolo, e di fatti, leggende e cronache che animarono la nostra comunità.

    L’ordine, di fatto solo teorico in questo lavoro, preciserà la vita del santo rispettando i parametri posti dalla cronologia: l’adolescenza, con un periodo di inquietudine interiore che precorse la conversione e ne causerà l’allontanamento da casa. Sul monte della solitudine, Mennato si eleverà dalle cose terrene e dalla provvisorietà della vita; con la morte fisica e la nascita al cielo gli saranno concessi i tesori della Gerusalemme Celeste e della perfetta letizia. La presentazione di quel delicato pensiero richiederebbe dall’espositore, una diversa e più profonda conoscenza, che purtroppo chi scrive non possiede: per questo confido che dove non arrivino le parole, arriverà la Grazia Provvidente a sostenere l’intelletto manchevole.

    Inizia così l’avventura di questo " sprovveduto marinaio", che volle addentrarsi nella storia della valle che abbraccia il nostro paese, per indagarne e comprenderne la spiritualità e le devozioni: vagando per archivi e biblioteche, scorrendo fondi documentari e testimonianze, si rese conto di una dimensione culturale originale e per valorizzarla volle assumersi, il non agevole compito, di riproporla e rinnovarla alle generazioni più giovani. Per questo fine e nonostante le evidenti difficoltà di una ricerca operata dal basso, non si perse d’animo e forse, per gioco, fissò la sua attenzione sui ruderi del cenobio della Madonna delle Grotte del quale, a seguito di alcune estemporanee circostanze, gli venne l’idea di ricostruirlo in miniatura. Il risultato fu sorprendente e l’esperienza acquisita gli fece maturare una rinnovata carica emotiva che lo invogliò a proseguire il viaggio e riflettendo sull’esempio di santità di Menna, egli si persuase all’esecuzione del composito marmoreo, esposto ora, nella piazza del nostro paese, dedicata all’asceta del monte Pentime [1] .

    L’ultima parte del lavoro è forse, quella a me più cara, in quanto evoca compiutamente la memoria e la devozione della nostra realtà locale: un giorno, in casa di Giovanna De Maria, Ella volle mostrarmi una raccolta di antichi inni liturgici in dialetto vitulanese: possedeva un tesoro nascosto e mi chiese di valorizzarlo quando se ne fosse presentata l’occasione. Questa parte è l’adempimento di quella promessa, la realizzazione di un impegno fatto ad un’anziana amica. Devo inoltre, ammettere che dal ricordo personale e dai contatti con altre attempate persone ho scoperto, leggende e racconti di cronaca originati dalla psicologia della nostra gente che non possono essere accantonati in quanto bagaglio culturale unico, radicale, degno di essere trasferito ai nostri giovani.

    Con questo lavoro, intrapreso senza alcuno scopo letterario o storiografico, si è rinnovata la consapevolezza della semplicità della nostra gente, la disponibilità e l’amicizia di numerosi interlocutori, attraverso i quali (prima tra tutti la Sig.ra Antonietta Goglia) sono riemersi nuovi tasselli circa le consuetudini e le tradizioni dell’affascinante mosaico vitulanese.

    Infine un ringraziamento da genitore, rivolgo a mio figlio Mario, che ha ordinato storicamente la prima parte di questo lavoro: senza il suo contributo scientifico e l’impegno organizzativo, questo libro non sarebbe stato possibile…

    Nel ringraziare allora, tutti i compagni di questo stravagante viaggio, concludo ed auspico che i nostri giovani sappiano porsi sul mio sentiero, continuando a percorrere questa strada. Altri volenterosi, che amano e rispettano il nostro Paese e la sua valle, sapranno seguitare questa mia azione di recupero e continueranno, con il loro intelletto e la loro cultura, il percorso di riscoperta intrapreso dallo scrivente, con entusiasmo di fanciullo e purezza d’intenti.

    Luigi Forgione


    [1] L’amore per l’arte manuale, in seguito gli doveva aprire nuovi orizzonti ecumenici e riconciliativi di tutto ciò che inerisce le spiritualità fondate sul monoteismo. Ma questa è un’altra storia! (NdA)

    ​CAPITOLO PRIMO

    LA PATRIA DI MENNA

    I cittadini della nostra valle conoscono, spesso disordinatamente, poche notizie sull’origine e le vicende storiche di Vitulano, posta in un’area geografica a lungo e fino all'Unità, luogo di dominazioni straniere ed ostili. Questo lavoro nasce dalla volontà di operare una sintesi sulle fonti e sugli studi precedenti: sostenendo gli autori che operarono nel contesto culturale sannita, che bene seppero evidenziare la psicologia delle nostre genti, non si potrà trascurare il contributo degli storici generalisti, che furono e sono, i preziosi custodi di argomentazioni ed accadimenti, necessari ad inquadrare compiutamente la storia dei casali della valle vitulanese. Si accennerà solamente, ai molti monumenti che richiamano la storia locale, ma si lascerà ad opere ben più importanti di questa, la loro descrizione particolareggiata. La diligenza del buon padre di famiglia e l’aiuto di Dio, guiderà la mano degli autori, cercando di rendere un servizio al popolo di Vitulano.

    1. L’ ANTICHITÀ REMOTA

    Varie e discordanti sono le tesi sull’origine di Vitulano [1] :

    " Nella valle di Vitulano, in quasi tutto il suolo di Tocco Caudio, vi sono giacimenti di tufo con pomici, foglie di mica e cristalli di pirosseno, attestanti chiaramente l’esistenza di un cratere d’un vulcano spento, dal quale dovettero essere lanciate tutte le sostanze vulcaniche che si rinvengono in molte parti della valle beneventana. La stessa base del paese di Tocco non sarebbe che un cono rovesciato di tufo vulcanico" [2] .

    E’ provato dalla geologia che nell’età presistorica le aree poste nelle adiacenze del Taburno fossero già abitate dall’uomo. Popolazioni indoeuropee giunsero dall’Asia, a seguito di necessarie migrazioni che le portarono, attraversando la dorsale appenninica, nelle nostre terre. Essi si stanziarono tra le foreste e nelle pianure poste nelle adiacenze di molti corsi d’acqua. Gli storici, in modo elementare definiscono quel periodo Età della pietra, perché l’uomo costruì con questo elemento i suoi primi utensili e le sue prime armi. Ciò è confermato dai numerosi reperti ritrovati ed tutt’ora visibili in alcuni siti montani [3], anche nelle aree gravitanti intorno a Camposauro e alla Piana di Prata [4]: coltelli frecce raschiatoi in selce, di differente lavorazione, attestano il passaggio dalle ere più antiche al neolitico. [5]

    Quei frammenti dimostrano che le nostre contrade furono abitate con continuità, divenendo aree commerciali capaci di mettere in contatto tra loro popolazioni lontane, già dal paleolitico. Certamente la Piana di Prata fu il luogo di transito di molti viandanti, i quali per fini mercantili raggiungevano il Sannio costeggiando le sponde del Volturno [6].

    La civiltà di quei luoghi dovette progredire ulteriormente: si passò gradualmente all’età del bronzo prima (eneolitica), e a quella del ferro poi. Da questo momento ebbe inizio la storia di tutte le grandi civiltà, compresa quella sannita, ammirabile con sufficiente completezza, nel Museo Archeologico di Montesarchio.

    2. GLI OSCI E IL CULTO DELLA MADRE TERRA

    La prima notizia della presenza di una popolazione nel Sannio è quella relativa agli Osci [7]: di discendenza aurunca, gli storici più antichi li definirono " gente fortissima e di aspetto feroce" [8].

    L’insediamento originario avvenne forse, verso il IX sec. a. C. [9]: i romani li avrebbero in seguito, identificati come coloro " che parlano la lingua osca ", mentre la glottologia, la scienza che studia le lingue storiche, la porrà all’origine di molti vernacoli meridionali. Questo popolo appare tutt’ora avvolto dal mistero, pochi sono i riferimenti circa le loro vicende, obliate anche perché:

    " gl’incendi, i tremuoti, e le grandi rivoluzioni della natura rendettero da tempo immemorabile, terribili e portentosi i luoghi di quella regione, maggiormente esposti alla violenza dei fuochi sotterranei" [10] .

    Gli Osci si divisero in numerose tribù, che si stanziarono nell’Italia centrale e nel Meridione, dall’Adriatico al Tirreno: la loro qualità più evidente fu quella di essere legati ai luoghi in quelli in cui si stanziavano (una caratteristica che la nostra gente mantiene tutt’ora), tanto che, quando i singoli clan diventavano molto numerosi, essi comunque non abbandonavano quelle terre, ma cercavano l’aiuto degli dei, offrendo sia le primizie della terra, sia sacrificando a Mamerte, la divinità della Guerra, gli ultimi nati [11] delle primavere sacre. Oggi queste pratiche appaiono certamente inumane, ma di fatto prepararono a molti usi dei romani a cominciare dalla lingua, dalla tradizione, della considerazione personale verso la famiglia e la patria, che segneranno in modo indelebile il mondo latino. Queste tradizioni sarebbero state acquisite ancor prima, dai Sanniti con i quali gli Osci si sarebbero fusi di lì a poco. Con i Sabelli e più tardi, quando questi cedettero il passo ai Romani [12], le tradizioni osche avrebbero determinato gran parte delle consuetudini italiche, sebbene la fusione con i sanniti determinò veramente molti aspetti ancora visibili della nostra cultura, nonchè i confini delle nostre contrade [13], da cui partiremo per comprendere con maggiore precisione, le vicende della Valle Vitulanese e della nostra comunità [14].

    3. SANNITI: FIERI E BELLICOSI

    Il Salmon nella sua opera piu importante [15], pone il VII secolo a.C., come il periodo da cui prese avvio l’insediamento sannita [16], nella zona centrale e meridionale della nostra penisola [17]. Essi scesero in seguito ad una migrazione e si insediarono nel territorio compreso tra il Molise il e la Puglia [18].

    Vinsero le resistenze della popolazione osca o forse si sovrapposero ad essa, ma entrambe conservarono l’originale identità. I Sanniti si organizzarono in tribù distinte che oggi, gli studiosi identificano [19] in Pentri, Irpini, Picentini, Avellani e Caudini [20]: ogni aggregazione locale si identificò idealmente con un animale [21], una sorta di ispirazione cultuale, che si espresse nella personificazione di un totem, protettivo e identificativo dei vari e distinti gruppi [22].

    Le diverse tribù, per motivi di difesa e di sicurezza, in seguito si sarebbero associate in una confederazione, organizzata per fini di controllo e gestione politico-militare [23].

    I loro possedimenti furono certamente vasti, estendendosi dal fiume Sangro, lungo il corso del Volturno, rasentando l’Appennino centro-meridionale d’Abruzzo e fino ai monti Picentini, mentre ad est toccavano la Puglia e, risalivano lambendo Ancona. Questo fu lo sviluppo massimo acquisito dalla potenza militare sannita, come ebbero a ricordare sia Tito Livio [24] che Diodoro Siculo [25], quando nei loro scritti storici narrarono del trattato di mutua alleanza definito nel 354 [26]. L’immagine con cui entrambi i cronacisti diedero dei Sanniti fu quella di gente rude e bellicosa, per le quali la guerra e le attività predatorie costituivano la normalità [27].

    Considerato il nemico più potente affrontato dalle legioni romane, Tito Livio, ammirato, li descrisse come un popolo fierissimo, avvezzo all’uso delle armi ed alla pratica del brigantaggio, dotato di grande valore, disposto in battaglia, pronto a tentare sempre, la vittoria. [28]

    Ma i Sanniti non ebbero a distinguersi solo per la valentia militare: la loro laboriosità era parimenti riconosciuta e proprio sul monte Taburno, nelle nostre contrade, dovettero cominciare a coltivare in maniera intensiva l’olivo [29].

    Le frammentarie indicazioni di cui disponiamo, confermano l’esistenza di insediamenti stabili e precisamente, nell’area topografica che circoscrive ed ingloba il borgo di san Pietro: l’insediamento non dovrebbe aver superato la conformazione di un villaggio. Una serie di ritrovamenti archeologici, per lo più funerari, mai posti in evidenza alle competenti autorità demandate alla tutela ambientale e storica artistica, sembrano confermare tale presenza. Data la prossimità geografica tra i due distinti gruppi dei Caudini ed Irpini del basso Calore, le nostre terre assistettero alla loro fusione.

    Poco dopo, la risolutezza della Lega Sannitica si sarebbe scontrata con le mire d’espansione di Roma: i Sanniti, consci della loro superiorità, non si piegarono ai tentativi di conquista dell’Urbe. Per oltre settanta anni, i due eserciti si fronteggiarono e diedero vita in uno scontro armato, decisivo per entrambi i popoli.

    Lo scontro come causa scatenante l’attacco sannita ai campani e ai didicini, da tempo alleati di Roma, i quali immediatamente, richiesero il supporto armato dell’esercito romano. Nelle prime fasi, le due fazioni sembrarono eguagliarsi e alla fine, le parti rinnovarono il trattato del 354, assegnando ai Sanniti i territori sidicini e a Roma la costa lambita dal Mar Tirreno fino alla città di Capua (oggi S. Maria C.V.).

    Gli anni a venire non furono meno contrastati: fu Roma, che senza accordi, impiantò una colonia sulla riva sinistra del Liri, che il trattato di mutua collaborazione assegnava ai sanniti. A causa di questo contrasto su Fregellae nel 328 ricominciò la guerra: i due eserciti si fronteggiarono con risultati alterni fino a quando, nel 321, i consoli romani Calvino e Postumio si infiltrarono in territorio caudino, ma furono sconfitti da Caio Ponzio Telesino alle Forche Caudine [30].

    Migliaia di legionari rimasero intrappolati tra due gole montane, senza possibilità di trovare scampo e della quale ancora ora si dibatte circa l’esatta ubicazione [31]. Roma dovette accettare una pace imposta ed un trattato che la obbligò, per salvare la vita dei suoi soldati, a far passare tutte le milizie arresesi sotto un vergognoso giogo.

    La tregua tra le due fazioni, obbligò Roma a ritirarsi da Fregellae e a consegnare ai sanniti la città di Calvi. Non passarono che pochi anni (316) che lo scontro armato riprese: i romani motivati dall’umiliazione caudina riuscirono a prendere e saccheggiare Boiano (305), ma a conclusione della seconda guerra sannitica venne nuovamente imposto il rispetto dell’accordo del 354.

    La guerra riprese per finire nel 295: i sanniti, con nuovi alleati Etruschi, Galli ed Umbri, furono sconfitti sia a Sentino che Aquilonia [32] e furono privati dell’autonomia politica. Qualche anno dopo, si presentò loro l’opportunità di vendicare i lutti subiti, appoggiando Pirro, quando questi venne chiamato in Italia da Taranto, per fronteggiare le milizie romane. Pirro dapprima sconfisse i Romani ad Heraclea e ad Ausculum, ma dovette relativizzare le proprie mire di gloria a Benevento (275). Dopo questa sconfitta lasciò al loro destino tutti gli italici [33].

    Le tribù sannite furono annientate definitivamente (269): con la vittoria, i Romani sciolsero la Lega Sannitica e molti guerrieri furono giustiziati o venduti come schiavi.

    L’astio sannita contro Roma continuerà anche in tempi successivi: la loro determinazione verrà ancora utilizzata da Annibale [34] prima e dai popoli italici poi, nella rivolta del 91, una sollevazione che mise quasi in ginocchio l’Urbe, sedata solamente dall’astuzia e dal valore di Mario e delle sue legioni [35].

    Silla in seguito, avrebbe definitivamente sconfitti le tribù del Sannio a Porta Collina (82), puniti solennemente in una cerimonia di decapitazione di massa a Campo di Marte in Roma; in seguito con una spedizione, avrebbe distrutto molte città poste nei loro territori. La potente macchina da guerra romana era riuscita a vincere, diventando padrona indiscussa di tutto il Sannio Beneventano [36].

    E’ forse in questo frangente, se si vuole dare credito ad molti storici locali, che potrebbe essere avvenuta la distruzione della città sannita di Volana. Quegli intellettuali, legati per nascita e cultura alla nostra valle ed al Sannio pongono Volana nell’area urbana del nostro Paese [37].

    Pietro Piperno [38] , fornì qualche notizia su Vitulano, nell’ incipit ad un dramma sacro composto in onore di San Menna, ipotizzando che il nostro Paese era così chiamato, perché stretto dai monti del Taburno che l’accoglievano, quasi come in una palma di mano [39].

    Basilio Giannelli concordò con il precedente autore ed in un’ode [40] composta, affermò la continuità ideale di Volana con la città di Tocco. Per lui, il centro sannita fu distrutto verso il 285 a. C dal console romano Spurio Carvilio, dopo che questi aveva distrutto le città di Aquilonia e Cominio.

    Un’ulteriore indicazione, legata alla lapidaria, è stata avallata dal Castaldi [41], dal Pacichelli [42] e dall’Angiolella [43], che analizzarono alcune iscrizioni latine, che avrebbero potuto evidenziare questa relazione [44].

    Precedentemente anche il Giannelli [45] ebbe a rilevare, interpretando Tito Livio, che Vitulano si ispirava per il nome all’antica Volana, ma non menzionò alcuna epigrafe [46].

    Anche Padre Tirone rimane dubbioso e così, si esprime in merito:

    " L’ipotesi del Giannelli, Piperno, dell’Angiolella, e del Ciarlanti, mancando riscontri oggettivi (…) sono senza fondamento.Tuttavia ci piace affermare che l’attuale casale di S. Pietro, per la sua posizione, per l’architettura urbanistica ed alcuni reperti, ritovati in loco, anche se di epoca romana, poteva benissimo essere una piccola città romana ricostruita sulla distrutta citta sannitica [47] .

    I reperti rinvenuti e la conformazione urbana, studiati dall’archeologia antica potrebbe indicare la presenza di un agglomerato antropico sannita prima e romano poi, perché entrambe le popolazioni costruivano i loro borghi senza muraglioni e fossati, limitandosi all’erezione di una palizzata per difendersi dall’incura del tempo e delle fiere. Egli alla fine, afferma:

    Forse Volana era il nostro casale di San Pietro .

    4. ROMA TRA DOMINIO E COLONIZZAZIONE

    La denominazione del villaggio ai legionari romani interessò ben poco. I comandanti delle schiere latine dovettero subito rendersi conto che, tutto il comprensorio gravitante intorno alle vette del Taburno, era un adeguato osservatorio, idoneo a controllare e a gestire militarmente le eventuali incursioni dei bellicosi e mai domi sanniti. E quando, a seguito della vittoria contro Pirro, Roma confiscò alcune zone in prossimità di Benevento, si diede vita nel 268 a. C. ad un possesso demaniale [48] denominato " Agro Taurasino". I quadri dell’esercito romano, per il fine della sicurezza, dovettero fortificare alcuni dei villaggi presenti nelle nostre terre e forse anche il piccolo centro urbano posto nelle adiacenze della frazione di San Pietro. Così certamente, Vitulano divenne senza colpo ferire, colonia dell’Urbe.

    " (…) i Romani preferirono trasformare le guarnigioni che mandavano a presidiare località strategiche, particolarmente quando si trattava di posizioni non costiere, in colonie latine, stabilendo il principio che la nuova colonia veniva considerata come ua località autonoma, la cui indipendenza era vincolata da un trattato di alleanza con Roma" [49] .

    A fronte di una situazione disastrata, la Repubblica concesse a parte della sua nobiltà di lasciare Roma e venire nel Sannio per intraprendere attività economiche e occupare quelle zone che erano state sannite. Molti proprietari e molti militari, colsero l’occasione per fare dei buoni investimenti e acquistare terre e greggi, che potevano pascolare forse gratuitamente, nei nostri territori [50] .

    Essi la occuparono gradualmente e vi fondarono nuovi borghi, incrementando la sicurezza del primitivo castrum:

    " Le colonie formate di cittadini romani, quando conservavano nella nuova sede il loro diritto di cittadinanza, diventavano così città romane distaccate dalla metropoli; ma chi ne faceva parte, conservava completamente tutti i diritti di cittadini romani, anche quando la colonia non costituiva una nuova fondazione di centro abitato, ma significava solamente la creazione di un presidio di cittadini romani in località nella quale si svolgeva una vita urbana non romana" [51] .

    E’ questo il caso del nostro paese: forse in questo torno d’anni sorse il casale Calci [52], mentre nella frazione di Santo Stefano sorsero degli allevamenti di animali domestici, gestiti da ricchi imprenditori romani [53].

    E’ altresì da porre in evidenza che la presenza armata di Roma non assicurò agli insediamenti la tranquillità, in quanto l’astio contro i nuovi diominatori era radicato nella psicologia sannita e si manifestava in maniera evidente.

    Certamente nel comprensorio vitulanese, nei successivi due secoli, ci dovette essere un certo sviluppo che portò a consolidarne l’economia: la vicinanza poi, alla città di Benevento rappresentò per le ville romane presenti nel territorio, un’adeguata fonte di crescita, che dovette recare giovamento alle varie realtà economiche della nostra valle.

    Gli spazi e certamente la fertilità di molte zone della nostra valle spinsero i romani a tenerne conto e non di rado, in essa e nelle aree adiacenti vennero trasferiti anche nemici della Repubblica che dovevano essere allontanati dai luoghi di origine. Essi resi schiavi,venivano deportati nelle terre sannite: qui lavoravano la terra o pascolavano le greggi, a vantaggio di quei latifondisti, che avevano scelto il Sannio per le loro nuove attività [54].

    E’ forse, in questo periodo che un cittadino romano, Vitulus, si insedia o si afferma come possidente agricolo nella nostra valle. Alcuni studiosi pongono questa tesi ed affermano che Vitulo possa essere venuto da Roma per stabilirsi nella valle insieme alla sua famiglia. Per tale motivo la città di Vitulano avrebbe questo nome, non altro perché sarebbe il praedium Vituli. Questa argomentazione appare solo una supposizione, niente affatto supportata da fonti, forse attribuibile alle tesi indimostrate di tanti storici che hanno dibattuto del nostro Paese nei tempi passati.

    E’ certo però, che verso la fine del primo secolo a. C., Benevento non aderì alla rivolta antiromana e per questo, a seguito della Lex Julia, che offrì la cittadinanza agli italici non in armi [55], molti sanniti ottennero la cittadinanza.

    I Romani, per mantenere il controllo delle popolazioni e grazie anche alla sagacia amministrativa di burocrati e di qualche sovrano illuminato [56], incrementarono nel Sannio quel sistema coloniale [57], che rimase attivo fino alla caduta dell’Impero. Le nostre terre giurarono fedeltà all’Urbe e Benevento divenne luogo ameno e fedele. Molti imperatori che seguirono, ebbero consapevolezza di questa fedeltà e concessero molti privilegi alle nostre terre e alle nostre popolazioni. Se con la fine delle guerre puniche [58] , molti territori erano stati distribuiti ai legionari [59] , con il sopravvenire dell’Impero essi si incrementarono, con l’aggiunta di nuovi possedimenti [60] , che giunsero fino ad Arpaia e si fusero con le terre dei Caudini. Quella realtà assunse il nome di Concordia Julia Augusta Felix [61] .

    Le ultime fasi del governo repubblicano portano ad un generale abbellimento della città di Benevento: ma cominciarono ad essere edificate, nel nostro territorio, tutta una serie di residenze lussuose, nelle quali la nobiltà latina si rifugiava per godere della bellezza e della salubrità dei luoghi [62].

    Il comprensorio fornì sempre una produzione sovrabbondante di grano e frumento e divenne centrale per l’economia e per i commerci cerealitici dell’Impero. [63] Anche Augusto lo privilegiò, ne ampliò le competenze amministrative, inviando nelle nostre terre valenti magistrati, vi costruì edifici civili, pubblici e di rappresentanza, concluse l’ennesimo tratto della via Appia. Altri imperatori vollero visitare Benevento ed il suo fertile comprensorio, pullulato da un gran numero di insediamenti: Venne Augusto, venne Nerone che vi pose l’ennesima colonia nel 53 d. C., Venne Domiziano che introdusse i culti egiziaci, mentre Tiberio, Commodo e Valente l’abbellirono con terme e altre opere monumentali. Più di tutti fece Traiano che ampliò la via Appia, e gra parte del sistema viario gravitante intorno alla città [64].

    IL sannio tutto fu importante per Roma e importanti personalità di quel mondo culturale quali Mecenate, Orazio, Virgilio, vollero visitarla.

    Così, nel periodo di massimo fulgore del municipio beneventano, ancora una volta San Pietro sembrò essere sito privilegiato ed idoneo ad impiantarvi attività economiche. I resti che ancora emergono dal sottosuolo sembrano incoraggiare questa idea e considera l’antico borgo vitulanese fondamentale per la storia del nostro Paese. Varie lapidi di datazione incerta attesterebbero la presenza di un tempio o quanto meno di un’edicola dedicata alla Dea Fortuna [65], su cui hanno disquisito autori di grande rilievo culturale [66].

    Sui resti del vecchio tempio, sarebbe stato edificato l’attuale edificio di culto, intitolato al Vicario di Cristo [67].

    Lo stato di floridezza del territorio progredì costantemente fino al declino di Roma, quando anche le nostre contrade videro arrestare l’evoluzione urbana e sociale [68].

    Il terremoto del 369 d.C. sembrò essere lo spartiacque che diede luogo al degrado successivo che di fatto, " cancellò anche la civiltà rurale romana ". Sebbene la città fosse ancora ricca e popolosa e venne ricostruita dalla dedizione dei suoi abitanti, celebrati anche dalla visita del Prefetto romano Simmaco Senione, il Sannio stava imboccando il sentiero della decadenza e del degrado.

    Con il complotto ordito contro Valentiniano III (455), il potere passò a despoti incapaci di gestire la funzione politica e far valere la propria sovranità.:

    " Il potere era in mano ai magistri militum,(…), quasi tutti di origine barbarica che imponevano i loro voleri all’imperatore e che detenevano in pratica anche l’autorità politica " [69] .

    5. IL CAOS DELLE MIGRAZIONI BARBARICHE

    Tra i generali di origine barbara, il primo che ebbe il coraggio di prendere l’iniziativa e deporre finalmente gli imperatori fantoccio dell’Occidente fu Odoacre, un condottiero sciro che, accogliendo il consiglio delle sue schiere, si proclamò re delle genti barbare, dopo aver deposto l’ultimo imperatore.

    Non mancarono nel Sannio acquartieramenti barbarici di Eruli e di Goti e confische. Il comprensorio, gravitante intorno al Taburno ebbe a soffrire di questo stato di cose; interrotte le vie di commercio, Benevento vide contrasi le possibilità economiche e i conflitti che la toccheranno, la prosteranno ulteriormente con lutti e disagi sociali. Odoacre regnò tredici anni, fino a quando l’imperatore d’Oriente comprese di essere depositario del titolo imperiale del deposto Romolo Augustolo ed inviò in Italia, il fidato Teodorico per riconquistare la penisola. Questi vinse col sangue la resistenza di Odoacre e governò per trentatrè anni a Ravenna, dando alla penisola un periodo di stabilità e rinascita, anche per l’appoggio fornitogli dalle classi dirigenti romane:

    I palazzi, le città, le mura, i ponti, gli acquedotti, i teatri, i castelli, dopo decenni di incuria e distruzioni, furono restaurati e ricostruiti, per espresso volere di Teodorico [70] .

    La conversione al cristianesimo di Teodorico favorì ulteriormente l’integrazione e Benevento, città ancora agiata e pervasa dei valori del cristianesimo, non venne risparmiata da nuovi insediamenti, che già prepararavano il ritorno al bizantinismo [71].

    Il Sannio sembrò interessare il nuovo despota, che ebbe a cuore l’ordine politico, mentre l’aristocrazia cittadina fu posta in una posizione di preminenza. Fu in quegli anni che Teodorico [72] fece eleggere al soglio di Pietro ( 526) il beneventano Felice IV [73] , patrizio della dinastia sannita dei Fimbrio al posto di Papa Giovanni I [74], imprigionato e morto in carcere, per volontà regia.

    Poco dopo la morte di Teodorico (i cui ultimi anni di regno non erano stati certamente facili), l’imperatore orientale, sconcertato dai limiti politici dei successori e desideroso di riottenere il pieno potere sulla penisola, decise di portare in battaglia le sue schiere contro i Goti. La guerra durò circa vent’anni: prima Belisario e poi Narsete vinsero le resistenze di quelle genti: le nostre contrade furono testimoni delle ultime fasi della guerra.

    L’Italia tornò in mano all’Imperatore, ma il Sannio era stremato, le campagne devastate dalla presenza degli eserciti, le città provate dagli assedi, le popolazioni stanche dalle stragi e dalle carestie. Il nuovo sistema bizantino non apparve mai solido e di quella precarietà approfitteranno i Longobardi [75].

    6. I LONGOBARDI: POTERE E INTEGRAZIONE

    Capeggiati da Alboino [76] due giorni dopo il giorno di Pasqua del 568, i longobardi lasciarono la Pannonia alla volta dell’Italia. Abbandonarono quei territori con un numeroso seguito di guerrieri e familiari e con la promessa degli Avari che se fossero tornati, quelle terre gli sarebbero state restituite. Consci dello scontro che li attendeva, arruolarono alla loro causa altre popolazioni: si unirono a loro migliaia di sassoni, di sarmati, di gepidi, di svevi e romani del Norico. Forse 300.000 persone giunsero in Italia.:

    " Arrivato con tutto il suo esercito (…), scalò un monte di quei luoghi e da lì, per quanto l’occhio glielo permetteva, contemplò tutto il paese che gli si apriva davanti. [77]

    Poco dopo quei guerrieri avrebbero occupato Cividale

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