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Raccontando Guasila
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E-book228 pagine2 ore

Raccontando Guasila

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Info su questo ebook

Racconti come immagini, ricordi come ritratti, storie come schegge di vita di un tempo perduto che rivive nelle testimonianze documentali, ora intense e vibranti, ora flebili e periture, degli abitanti di Guasila, protagonisti di un'antologia di pensieri sulla storia sociale ed economica del paese all'alba del Novecento. Brani vergati di seppia per riecheggiare, sul filo di una memoria divenuta storia, uno spaccato di vita comunitaria, sospesa tra racconto e fantasia, mito e leggenda, all'ombra di un passato che è nostalgia, malinconia, tormento, ma anche inviolabile eredità storica e spirituale, da custodire e tutelare.

In sommario le testimonianze orali di Mario Angioni, Maria Carmine Annis, Onorio Annis, Santina Ardau, Grazietta Arriu, Antonietta Assorgia, Cecilia Atzori, Maria Atzori, Pietrina Atzori, Antonio Cara, Rosina Cara, Maria Onorina Caria, Erminia Casti, Mario Casti, Costantino Chiu, Antonio Cicalò, Giovanna Maria Cicalò, Teresa Cirina, Gabriella Cocco, Grazia Cocco, Mariuccia Cocco, Greca Corda, Antonina Deidda, Paolo Demontis, Beniamino Etzi, Benito Etzi, Eulalia Gilla Etzi, Maria Etzi, Celestino Fenu, Caterina Frau, Assunta Ghiani, Terenzio Ghiani, Carlo Giglio, Maria Annunziata Giglio, Sebastiana Giglio, Celestina Grosso, Maddalena Grosso, Francesco Lai, Clelia Lilliu, Lazzarina Lilliu, Ottaviano Lilliu, Zaira Lilliu, Teresina Lilliu Cau, Teresina Lilliu Melas, Teresina Lilliu Murru, Eugenia Lisci, Caterina Manca, Giuseppe Manca, Ernesto Mattana, Genoveffa Medas, Antonio Melas, Graziella Melis, Mariolina Melis, Salvatore Melis, Vitalio Melis, Antonietta Meloni, Avventina Meloni, Luigina Moi, Teresina Mungianu, Maria Onali, Eligio Orrù, Flavio Orrù, Raimondo Orrù, Salvatore Orrù, Giuseppe Ortu, Gilla Pibiri, Mansueto Piga, Bonfilio Pistis, Giuseppina Pistis, Angelina Pitzalis, Eugenia Pitzalis, Maria Pitzalis, Raffaele Pitzalis, Amelia Planta, Efisio Porcedda, Giovanni Porceddu, Giovanna Porcu, Cesarina Sailis, Aurora Seu, Benedetto Simbula, Giuseppe Simbula, Antonia Soru, Teresina Soru, Giovanna Vacca, Rosalia Vargiu, Annetta Zara, Antonina Zara, Chiarina Zara, Giorgina Zara, Mariolina Zara, Mariuccia Zara, Ottavio Zara, Severino Zara.

Il presente e-book ripropone in versione digitale i contenuti del volume "Raccontando Guasila" di Elena Perseu (Editoriale Documenta, 2019, Isbn 978-88-6454-414-4), ad esclusione del repertorio fotografico.
LinguaItaliano
Data di uscita8 ott 2021
ISBN9788864544342
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    Anteprima del libro

    Raccontando Guasila - Elena Perseu

    Prefazione

    Racconti come immagini, ricordi come ritratti, storie come schegge di vita di un tempo perduto che rivive nelle testimonianze documentali, ora intense e vibranti, ora flebili e periture, degli abitanti di Guasila, protagonisti di un'antologia di pensieri sulla storia sociale ed economica del paese all'alba del Novecento. Brani vergati di seppia per riecheggiare, sul filo di una memoria divenuta storia, uno spaccato di vita comunitaria, sospesa tra racconto e fantasia, mito e leggenda, all'ombra di un passato che è nostalgia, malinconia, tormento, ma anche inviolabile eredità storica e spirituale, da custodire e tutelare.

    Nota editoriale

    Il presente e-book ripropone in versione digitale i contenuti del volume Raccontando Guasila di Elena Perseu (Cargeghe, Editoriale Documenta, 2019, Isbn 978-88-6454-414-4), ad esclusione del repertorio fotografico.

    Il volume raccoglie una selezione di testimonianze orali di abitanti di Guasila. I testi, trascrizione di interviste realizzate sul campo nell’arco temporale intercorrente tra i mesi di maggio 2014 e marzo 2016, riportano il contenuto dei documenti orali originali con larga fedeltà alle forme sintattiche e semantiche adottate dagli informatori.

    Il paese e le case

    In passato Guasila era molto diversa. Le strade non erano neppure incoduadasa, in acciottolato, e c’era molta polvere. Quando pioveva bisognava camminare attaccati ai muri delle case per non sporcarci più di tanto le scarpe di fango. A tal proposito ricordo che quando andavamo in chiesa ci portavamo dietro un pezzo di carta con cui ripulire quelle scarpe che, sebbene le avessimo indossate ben lucide, arrivavano a destinazione completamente sporche.

    Il paese era piccolo e terminava in cussa muraglia che ancora oggi c’è in Via Trento. Le abitazioni, costruite in pietra o in ladiri, mattoni crudi, erano quasi tutte a un piano. Noi stavamo in Via Giovanni XXIII, in una casa a due piani con un cortile molto grande dove stavano i buoi e gli altri animali. Il piano superiore aveva su stabi, un locale con il pavimento in legno, destinato ad accogliere il raccolto della campagna, come il grano e su lori, le fave. Nella cucina c’era il camino e di fianco, poco più in alto, il forno. Quando toglievamo la brace dal forno la mettevamo nel camino per poterci riscaldare meglio. Le stanze si trovavano una dopo l’altra, tottus a carrera. Si imbiancava una volta l’anno, ad eccezione della cucina a cui veniva data la tinta più di frequente perché con il fumo del camino e del forno il muro diventava scuro. Per la cucina mia madre comprava l’argilla perché nascondeva il fumo, al contrario della calce che lo faceva trasparire formando delle macchie scure molto evidenti. Vicino alla cucina c’era un cortiletto con una fontana accanto e sa gisterra, la cisterna per lavare i panni; infatti l’acqua della fontana non era adatta, era acre e no d’attacada ni saboi e ni nudda.

    Lazzarina Lilliu

    Le case di una volta

    Il modo di vivere di un tempo? Era completamente differente da quello moderno. Le case erano più spartane, con su fomentu, ossia un pavimento realizzato dalla miscela di terra e acqua. Il composto veniva steso e appiattito con una sorta di scopa e l’operazione si doveva ripetere ogni pochi mesi.

    Un’alternativa al pavimento in terra battuta consisteva nell’affiancare tra loro dei sassi molto grandi ma di spessore contenuto, chiamati tellas, al di sotto dei quali e tra uno e l’altro si posizionava una sorta di legante composto da terra e acqua. Questi erano i mezzi di una volta e con questi ci si doveva arrangiare.

    Giovanna Maria Cicalò

    Su muntronaxiu

    Su muntronaxiu, il letamaio, si trovava in un uno spazio ben delimitato dell’orto e distante dall’abitazione. Vi si gettava di tutto: gli scarti della preparazione del cibo, come buccia di patate e gusci d’uovo, la cenere e altro ancora, ma era anche il bagno delle famiglie, poiché all’interno delle abitazioni non esisteva un ambiente adibito a tale funzione.

    Solitamente però nell’orto razzolavano libere le galline e quando si trattava di andare al bagno la loro presenza era un problema. Ci si doveva dunque portare dietro una bacchetta per poterle allontanare e non rischiare di essere beccati.

    Ovviamente a quei tempi non esisteva ancora la carta igienica al cui posto si usava la carta dei giornali o di qualsiasi altro tipo. A tal proposito ricordo che una volta, in occasione della macellazione del maiale, trovai a casa un pezzo di carta straccia, abbastanza grossa, buttata da una parte. Decisi quindi di adoperare quella, ma al momento dell’utilizzo sentii subito un bruciore terribile: mi resi conto solo allora di aver usato l’involucro di carta che conteneva il pepe!

    Nel mese di settembre tutto ciò che si trovava nel letamaio veniva prelevato e buttato nei terreni, fungendo da concime.

    Anonimo

    L’importanza dei buoni rapporti di vicinato

    Mio padre era carratoneri, un carrettiere, e mia madre aveva un negozietto di generi alimentari: gli impegni non mancavano per entrambi.

    Prima di Pasqua e della festa di Santa Maria era consuetudine imbiancare la facciata della casa e dare una mano di tinta anche all’interno. Un anno, mia madre, essendo molto impegnata nelle faccende domestiche, non poté assolvere a queste incombenze così le sue vicine si presero la briga di farlo al suo posto. Non era strano ricevere questi favori dai vicini: ad esempio, quando mia madre preparava le zeppole, mandava noi figli a distribuirle per tutto il vicinato. Rispetto a oggi i rapporti erano più seri, l’unione era importante e ci si dava una mano d’aiuto in tutti i modi possibili.

    Giovanna Maria Cicalò

    Povertà e generosità

    Non avevo che quarantuno giorni quando rimasi orfana di padre. Mia madre mancava di casa tutto il giorno per poter mandare avanti la famiglia e, perché venissi allattata, mia nonna si rivolse a una vicina di casa che aveva un figlio della mia stessa età. Non era raro all’epoca ricorrere a una balia, anche a pagamento, ma la nostra vicina in cambio non chiedeva niente.

    Inutile dire che iniziai a lavorare fin da piccolissima.

    Ricordo che i miei nonni aiutavano i mendicanti che venivano a Guasila, permettendogli di passare la notte all’interno del cortile di casa propria al termine del loro girovagare per il paese in cerca di un tozzo di pane e un po’ di cibo.

    Nonostante si vivesse nella ristrettezza economica le persone erano gentili e generose, e donavano sempre qualcosa. Mia madre, per esempio, prima di andare al lavoro lasciava sempre due fette di pane da parte e mi raccomandava di darle ai poveri che avessero bussato alla porta.

    Erminia Casti

    Sapersi accontentare

    Per la festa della patrona, la Beata Vergine Assunta, era consuetudine mangiare l’anguria in piazza. Il giorno dopo i bambini che facevano parte delle famiglie di sfollati giunte in paese durante la guerra si recavano in piazza per cercare qualche buccia di anguria, accontentandosi di mangiare qualche residuo della parte rossa.

    Ricordo che dicevano con un forte accento cagliaritano: « Ma no sesi benius ariseu? Ma chi fusti beniu, da biriasta sa festa bella che dui fudi, dus didus de arrubiu!», che significa: «Ma ieri sera non siete venuti? Cosa vi siete persi, c’era una gran bella festa, hanno buttato la buccia dell’anguria che aveva ancora due dita della parte rossa!».

    Tutti noi avevamo poco, ma gli sfollati avevano anche meno e si arrangiavano come meglio potevano.

    Lazzarina Lilliu

    Su pai in su forru

    All’età di otto-nove anni iniziai a lavorare in campagna con le pecore. Ricordo che nei campi incontravo un signore che veniva a cercare legna, cardi o qualcosa di commestibile da portare a casa, che diceva sempre: « Appu lassau a Grazia ghettendi su pai in su forru !», e anche se mi sembrava strano che la moglie facesse il pane ogni giorno, prendevo seriamente quello che diceva, pensando fosse vero.

    Essendo un bambino non capivo la difficile crisi che stavamo attraversando in quel periodo perché in famiglia stavamo bene: il pane e un po’ di cibo non mancavano mai.

    Un giorno chiesi a mio padre perché quell’uomo ripetesse ogni giorno sempre la stessa frase e lui mi rispose che scherzava sulla propria sfortuna perché in realtà quel poveretto non possedeva niente da mangiare e mi consigliò di offrirgli un po’ del mio pane quando lo avessi rivisto. Così, la volta successiva, chiesi al signore se avesse gradito una fetta di pane e mi rispose: « Dollu tiau, chi mi d’onasa!», ovvero: «Certo, lo gradisco molto volentieri», e mi ringraziò ripetutamente. Mangiò il pane e persino le piccole briciole che cadevano nel fazzoletto che teneva poggiato sulle gambe.

    Per quanto abbia vissuto queste cose e le abbia viste con i miei stessi occhi, a raccontarle oggi, quasi non sembrano reali.

    Raimondo Orrù

    La minestra in verde

    Ho lavorato sin da piccola in casa di persone benestanti. Quel che spesso ci davano da mangiare era un po’ di minestra, di frequente allungata con acqua, affinché potesse bastare per tutti. La minestra di per sé non era di mio gradimento, allungata con l’acqua poi lo era ancora meno e, oltretutto, era lo stesso menù che trovavo sempre anche a casa.

    Un giorno però sentii dire alla figlia della signora dove lavoravo che per pranzo ci avrebbero dato minestra in verde. All’epoca tutti avevamo poco e, incuriosita di poter mangiare qualcosa di diverso, attesi con ansia l’ora di pranzo per scoprire con delusione che la minestra in verde non era altro che una semplice minestra di cipolla e prezzemolo. « Su chi fui aspettendi no fudi nimancu po dabadasa!»: ho aspettato inutilmente.

    Amelia Planta

    Un bene da condividere

    In famiglia eravamo dieci figli e noi maschi lavoravamo per la gran parte presso persone benestanti, così che un pezzo di pane e di formaggio per fortuna non ci mancavano mai.

    Quando rientravamo a casa, e per cena trovavamo il minestrone, mio padre era solito darci un pezzo di salsiccia secca, che era tanto più grosso quanto più eravamo grandi di età: iniziava la suddivisione partendo dal più piccolo, a cui dava un pezzo più minuto, e poi via a scorrere fino al più grande.

    Qualcuno, compreso mio padre, ne mangiava solo una piccola fetta conservando il restante pezzo per il giorno successivo, in modo da avere qualcosa con cui accompagnare il pane.

    Bonfilio Pistis

    Pedì e fai s’allamusia

    In famiglia eravamo otto figli. All’epoca non era raro andare a pedì, chiedere l’elemosina, e le persone benestanti, consapevoli delle condizioni di povertà, spesso ci davano qualche soldo, un pezzo di pane o altro da mangiare.

    Crescendo iniziai a lavorare anche io e all’età di ventitré anni presi servizio presso la casa di Efisio Deiana. Ricordo che il venerdì sera mi consegnavano venti francus che il giorno dopo avrei dovuto gestire po fai s’allamusia a tottus, tra le persone che venivano a bussare.

    La vita non era così semplice: quando si lavorava a servizio, qualsiasi lavoro si facesse, venivamo pagate dopo un anno, nel mese di settembre, e se capitava di aver causato qualche danno, come rompere una brocca d’acqua, o perdere qualcosa, come un cucchiaino, il costo dell’oggetto rotto o smarrito veniva detratto dalla paga finale.

    Giorgina Zara

    Il pane della cassapanca

    La mia era una famiglia molto numerosa: eravamo dieci figli e con noi viveva anche nostro nonno. Per poter mangiare ci si arrangiava con quel che riuscivamo a racimolare. Durante la guerra, i soldati erano dislocati per tutto il paese; spesso portavo il pranzo a mio padre che aveva un orto in località Sa Cora de Funtanedda, attualmente la Via Pietro Nenni; avevo circa sette o otto anni, ed anche in

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