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E-book359 pagine5 ore

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Info su questo ebook

Camillo Cantalini è nato a S.Pio delle Camere (AQ) nel 1919 e morto a L'Aquila nel 2007.E' vissuto sempre a L'Aquila, cui era legato da amore filiale. Ha frequentato il liceo all'Aquila, allievo dei Padri Gesuiti, la facoltà di Medicina e Chirurgia a Roma, alla Sapienza. Durante la II guerra mondiale, chiamato come studente universitario, ha prestato servizio da sottufficiale di sanità, negli ospedali militari “X Legio” di Rimini e “Celio” di Roma. Laureatosi nel 1944, ha conseguito tre specializzazioni: in Clinica pediatrica, in Malattie infettive e in Puericultura e Dietetica infantile. Libero Docente in Puericultura e Dietetica infantile dal 1970. Dopo un breve periodo di condotta medica, ha lavorato nel campo della Pediatria, come libero professionista, medico ospedaliero a L'Aquila e nell'Ospedale di Popoli, dove ha organizzato la divisione pediatrica e ne è stato il dirigente dal 1972 al 1979. Ha prodotto 35 lavori scientifici, per lo più di interesse sociale. Ha chiuso la carriera di Medico nel 1990, dopo un decennio di Pediatra ambulatoriale del Servizio Sanitario Nazionale e Pediatra di famiglia. Da quel momento si è dedicato alla lettura e a scrivere le sue memorie. Questa raccolta comprende il primo libro autobiografico: “Vorrei ancora parlare alle formiche” (aprile 2001), il seguito “Da Formica a cicala” (luglio 2004) e l'ultimo romanzo I fiori sul desco, scritto nel 2007 prima di morire.
LinguaItaliano
Data di uscita27 mar 2014
ISBN9788874173716
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    Anteprima del libro

    Romanzi - Camillo Cantalini

    Romanzi

    Camillo Cantalini

    In copertina: foto d’epoca, Aquila, Porta Bazzano

    © 2014 REA Edizioni

    Via S. Agostino 15

    67100 L’Aquila

    tel 348 6510033

    www.reamultimedia.it

    redazione@reamultimedia.it

    www.facebook.com/reamultimedia

    Indice

    VORREI ANCORA PARLARE ALLE FORMICHE

    PREFAZIONE

    VORREI ANCORA PARLARE ALLE FORMICHE

    S.PIO DELLE CAMERE

    ZIZI’

    VITA DA FORMICHE

    L’ATTIVITA’ SPORTIVA

    LE FESTE RELIGIOSE

    LE VISITE DI PIACERE

    LA SCUOLA PRIVATA

    IL SODALIZIO

    IL GINNASIO SUPERIORE E IL LICEO DAI GESUITI

    LA PENSIONE FAMILIARE

    LA GUERRA

    I 4 CAVALIERI DELL’APOCALISSE

    I NOVE MARTIRI

    L’ASU

    LA PRIMA CONDOTTA

    MORTE DI UN SEGRETARIO

    DA FORMICA A CICALA

    PREFAZIONE

    COM’ERA BELLA LA MIA CITTA’

    RACCONTI DI GUERRA

    IL FIGLIO DELLA GUERRA

    COPENAGHEN

    CATTIVI RAGAZZI

    UN CALDO, AFOSO POMERIGGIO DI AGOSTO

    IL FIGLIO DEL MUGNAIO

    PEPPINO

    DI FRONTE ALLA MORTE

    HO BALLATO UNA SOLA PRIMAVERA

    UN’ESCURSIONE ALLA VALLE DELL’INFERNO

    LA FAMIGLIA

    IL TEMPO PASSA: ESSERE PADRE, ESSERE NONNO

    I FIORI SUL DESCO

    PREFAZIONE

    CAPITOLO  PRIMO

    CAPITOLO SECONDO

    CAPITOLO TERZO

    CAPITOLO  QUARTO

    CAPITOLO  QUINTO

    VORREI ANCORA PARLARE ALLE FORMICHE

    La vita di una persona non è quello che è accaduto; ma quello che si ricorda e come lo si ricorda.

    Gabriel Garcìa Màrquez

    PREFAZIONE

    Queste note, che descrivono episodi della mia infanzia e della mia giovinezza, sono ricavate dal grande libro delle mie memorie.

    La distanza, che ci separa dagli eventi evocati, è grande; addirittura siderale, se si tiene conto del cambiamento dei costumi e del sentire umano.

    Ho cercato di colmare le lacune, dovute alle pagine mancanti, logore o strappate, con la mia fantasia; senza infirmare la realtà, ho creduto di aver dato più vivacità ai grigi colori della narrazione. Spero di essere riuscito nell’intento.

    VORREI ANCORA PARLARE ALLE FORMICHE

    Mi rivedo bambino, lì, in quel maestoso palazzo rinascimentale, al centro della città; all’ultimo piano, in un grande terrazzo assolato, che guarda a ponente, nelle prime ore del pomeriggio. Il sole inonda di calda luce i tetti digradanti sul cortile, dormono i gatti o pigri si muovono da un cantuccio all’altro. La calma è assoluta.

    Ora curvo, ora sdraiato sul pavimento, osservo l’andirivieni delle formiche. Ricordo altre stagioni estive, in campagna: il frinire delle cicale, il salto dei grilli, le lucciole di sera; al mare: i bagni con i cugini, l’immensa distesa dell’acqua azzurra.

    Penso alla scuola, all’anno trascorso e a quello avvenire; è bene che non dimentichi, che ripassi qualche materia: i libri attendono sul tavolo del tinello, dove la mamma ha da poco sparecchiato.

    La mamma buona, che ricordo sempre indaffarata, con i capelli bianchi e l’andare pesante per antichi problemi agli arti inferiori, ogni tanto si affaccia dalla cucina e mi chiama: Mimmo, Mimmo!.

    Mi richiama ai miei doveri. Ma l’attenzione alle formiche è più forte: vedo il corteo, lungo, tortuoso come un serpente, ondeggiare sulle mattonelle roventi, avviarsi con carico più o meno greve verso il nascondiglio, da dove ognuna poi fuoriesce, fatta più leggera e spedita, una volta depositato il fardello.

    Mi sovviene la favola della cicala e della formica. A chi somiglierò nella vita? A mia madre formica o ai tanti fannulloni imprevidenti? A coloro che dal lavoro traggono motivo di soddisfazione e benessere o ai tanti parassiti che popolano il pianeta?

    E allora le mie parole, le mie sollecitazioni sono rivolte alle formiche, perché vadano più in fretta e trasportino una maggiore quantità di provviste. Mi suscitano un intimo sentimento di compassione quelle con fardello più pesante; e di solidarietà, tanto da aiutarle con incitamenti e financo con leggere spinte. Cerco di riconoscerle: dal colore, dalle dimensioni; di dare a ognuna un nome; di chiamarle, di indirizzare loro una parola di elogio e di compiacimento.

    Mi sembra che ascoltino; che dai miei incoraggiamenti traggano nuova energia e maggiore impulso alla loro fatica.

    E così, soddisfatto, vado anch’io a compiere i miei doveri.

    E’ passato tanto tempo: dopo una vita di studi severi e di professione impegnativa, è l’ora della meditazione e dei rimpianti.

    E’ passata una vita.

    Mia madre se ne è andata. Se ne andò all’alba di una fredda mattina del marzo 1956. Era caduta tanta neve: per accompagnarla al camposanto del paese, fu necessario far spalare la neve. Partì improvvisamente, senza dire una parola, con una mano alla gola, come per accennare che soffocava, con uno sguardo dolce e pietoso, ma non poteva parlare; forse voleva dirmi: parla ancora alle formiche.

    Perché parlare agli uomini? Non li comprendo: alcuni parlano il politichese, altri, i più, sono bugiardi e ipocriti; parlano con la bocca, ma non con il cuore; spesso dicono il contrario di quel che sentono.

    Tra le commedie di Eduardo, tutte belle e di grande significato sociale, apprezzo in modo particolare: Le Voci di Dentro. In essa si vuol dimostrare che è inutile parlare con gente che non vuol sentire e non dice ciò che sente. Meglio essere sordomuti. Le uniche sincere parole stanno dentro di noi.

    Come vorrei ancora parlare alle formiche!

    S.PIO DELLE CAMERE

    Sono nato molti anni fa, sotto il segno della vergine, in una notte stellata di settembre, sesto figlio di madre vedova. Il papà era morto due mesi prima, in luglio, il giorno dedicato a San Camillo de’ Lellis, lui che si chiamava Camillo. A me fu imposto lo stesso nome. Nacqui in casa, con l’assistenza di una giovane ostetrica, la prima, in paese, a esercitare con diploma, regolarmente acquisito dopo un regolare corso di studi. Era finita, o stava per finire, l’epoca delle mammane.

    Il mio paese natale trovasi sull’altipiano di Navelli, a 800 metri s.l.m, equidistante da Barisciano e da Navelli.

    E’ un grazioso, antico paese, sul pendio della collina, tagliato orizzontalmente dalla strada principale, con una piazzetta al centro e una bella chiesa parrocchiale. Ha di fronte il sole, è ben ventilato; scarsa umidità, alta concentrazione di ossigeno.

    Le origini di S.Pio delle Camere risalgono all’inizio del II millennio, in pieno periodo feudale. Le camere sarebbero le grotte, ove presero dimora, o rifugio, i primi abitanti del luogo.

    La struttura del paese oggi ha poco di medievale: alcune pietre dorate di vecchie abitazioni, alcune strade anguste e a gradini, qualche arco e qualche androne; la stessa chiesa parrocchiale, dedicata a S.Pietro Celestino, il Papa del gran rifiuto, distrutta da Braccio da Montone, durante il famoso assedio ad Aquila del millequattrocentoventiquattro, è stata ricostruita nel ‘600 in sobrio stile barocco; la facciata, neoclassica, è della fine dell’ottocento, costruita e decorata dai fratelli Feneziani.

    Antico è il castello, uno dei meglio conservati della zona: ha una bella torre normanna in alto sulla collina e delle mura, in parte diroccate, che, a guisa di triangolo isoscele, si dirigono in basso, verso il paese: è  mastio di castello, con recinto a puntone, rifugio della popolazione, in caso di pericoli{1}. Distante, verso Navelli, tra rovi e cespugli, un tempo in mezzo a rigogliosi campi di grano e zafferano, il piccolo cimitero, di forma quadrata, tuttora in fase di ampliamento. Vi riposano i miei antenati, i miei genitori, il mio fratello maggiore Enrico con la moglie Evelina e il figlio Giorgio, la mia sorella Concetta.

    Più lontana, nella stessa direzione, la bella chiesa rinascimentale della Madonna di Cintorelli, isolata, con un portico a fianco: ristoro e rifugio notturno dei pastori, che per il tratturo trasferivano le greggi dalla montagna al tavoliere pugliese.

    Nelle ultime pagine del citato libro (San Pio delle Camere di Mons. Osirio Pucci), sono elencati alcuni uomini, vanto del paese, che si sono distinti in varie attività: professionali,  artistiche, nella carriera ecclesiastica e nell’impegno politico. L’elenco spazia dal XVII secolo a oggi e, anche se limitato a poche unità, si può considerare piuttosto nutrito, se rapportato alla scarsa popolazione del centro abitato.

    Tra i viventi, c’è il sottoscritto: ringrazio l’Autore per la considerazione, forse immeritata, di cui mi ha data testimonianza, inserendomi tra cotanto senno.

    Accanto a me, l’onorevole Franco Marini, ex sindacalista, ex ministro del lavoro ed ex segretario del partito popolare, anch’egli nato a S.Pio, come il sottoscritto e, come il sottoscritto, emigrato bambino in altri lidi.

    Manca la zio dell’onorevole Marini e con questa citazione vorrei riparare alla grossa lacuna: Padre Gabriele Marini, dei frati minori del convento di S. Giuliano, è persona di notevole risalto, sia da religioso che da scienziato. Ha ideato, organizzato e tuttora dirige il museo di scienze naturali e umane, che ha sede nello stesso convento, unico in Abruzzo e tra i pochi dell’Italia centro- meridionale; forse ancora poco conosciuto, ma meritevole di maggiore promozione.

    I ricordi della prima infanzia a S.Pio delle Camere sono avvolti nella nebbia dei tempi: non avrei riconosciuta la casa ove nacqui, se non me l’avessero indicata.

    Le prime immagini, che mi tornano alla mente, del paese nativo, sono quelle di quando mi conducevano in auto al comune a ritirare qualche documento (copia del mio atto di nascita) o alla chiesa ad assistere al funerale di qualche conoscente: eravamo accolti nella piazza da un nugolo di ragazzini festanti, che, ancora più festanti, rincorrevano la nostra auto, per accompagnarci, al ritorno, fino alle ultime case del paese. Erano sbalorditi nell’osservare i primi autoveicoli, abituati, com’erano, ai mezzi di trasporto trainati da animali.

    S.Pio delle Camere, dal 1919 ai primi anni venti, al tempo della mia nascita e della mia prima infanzia, poteva contare 500 abitanti (oggi ne ha anche meno: dai 300 ai 400). Si era spopolato: alcuni giovani non erano tornati dalla grande guerra, altri erano emigrati, o si preparavano a migrare, nel nuovo mondo.

    L’influenza cosiddetta spagnola aveva fatto il resto: mia madre riferiva che erano state falciate molte giovani vite, persone robuste, forse colpite da encefalite virale. Ma non indugiava a parlare della malattia mortale di suo marito: il ricordo le era estremamente penoso. Per lo stesso motivo, preferiva chiamarmi Mimmo e non Camillo. Da alcuni suoi accenni, sono riuscito a capire che papà, allora quarantenne, fu colpito da una misteriosa febbre di breve durata, che i medici interpretarono come dovuta a polmonite, senza trovare pieno accordo.

    Una vecchia e ingenua contadina, che venne a far visita alla puerpera, prima di congedarsi, pronunciò una frase che fu una stilettata al cuore di mia madre: speriamo di celebrare una sola cerimonia: battesimo e funerale.

    Quel bambino, che doveva morire a pochi giorni dalla nascita, ha superato l’80° anno di vita, ancora in attività di medico pediatra e con molti interessi extra-professionali, nonostante alcuni interventi al cuore, subìti durante l’ultimo decennio.

    Mia madre mi allattò per un anno, come allora era costume; ogni volta che mi dava il seno, versava molto latte e più abbondanti lacrime.

    Nonostante ciò, sono cresciuto bene e in buona salute; alquanto gracile di costituzione, durante l’infanzia ho sofferto di ripetute tonsilliti, ma mia madre, confortata dal parere dei medici, è stata sempre contraria all’intervento sulle tonsille e/o sulle adenoidi. Era naturalista e diceva che il mare poteva essere il mio toccasana. Pertanto mi conduceva con sé, quindici giorni d’estate, a Casamicciola di Ischia, ove lei faceva le cure termali. Dall’età dell’adolescenza mi sono irrobustito ed ho acquisito un peso lievemente superiore alla media.

    Dopo la tragedia, che si era abbattuta sulla nostra famiglia, mia madre si decise a lasciare il paese, per venire in città, ad Aquila (oggi L’Aquila): ci sistemammo in una grande casa, piena di sole e di luce,  all’ultimo piano di un antico palazzo del centro.

    Così il fratello più grande e le sorelle, già in età di frequentare la scuola, ebbero la possibilità di continuare gli studi, senza ricorrere al collegio.

    La nostra era una famiglia né ricca né povera, oserei dire benestante: la casa era di nostra proprietà; le terre e la casa al paese, vendute, ci resero un capitale, che sapientemente convertito da nostra madre in titoli di stato, ci procurò una condizione di agiatezza e di serenità per il futuro. Purtroppo i piani furono sconvolti dalla guerra, con la conseguente disastrosa inflazione, caparbiamente voluta da Mussolini e dall’inetto, ma ambizioso piccolo Re.

    Figlia di uno stimato medico condotto di vari comuni consorziati, che si estendevano dal bacino del Gran Sasso alla piana di Navelli, la mamma riuscì ad impartirci una educazione di buone maniere, di signorilità e soprattutto di onestà e di rispetto per gli altri.

    Uno dei princìpi, cui teneva molto e al quale cercò di abituarci con molta dedizione e tenacia, fu quello del risparmio e della parsimomia. Era contraria ad ogni manifestazione di prodigalità e, ancora peggio, di sperpero. Con ciò non dico che mia madre fosse avara; anzi disprezzava l’avarizia: era solo attenta a come spendere il denaro; l’era del consumismo era di là da venire.

    Essendo il più piccolo della casa, ricevevo alla Befana molti regali (Babbo Natale ci era ignoto), soprattutto dalla sorella Linda e dal fratello Angelo, a me più vicini di età: trenini ed automobilini con la corda, fucili di legno, il cavallo a dondolo, ecc.; non mancava il carbone, quello vero; e non mancava il salvadanaio: poteva esser di coccio o di metallo, si rompeva o si apriva a fine anno e con quei pochi spiccioli si comperava qualcosa di utile. Il salvadanaio era il simbolo del risparmio.

    ZIZI’

    Zizì era un vecchio prozio, che, da S. Pio delle Camere, ove era sempre vissuto, abitando nell’avita dimora, si era trasferito con noi in città. Credo senza rimpianti: in paese non aveva ormai che pochi, lontani parenti, mai aveva avuto amici. Era celibe, di carattere scostante, non so quanto fosse misantropo più che misogino.

    Aveva preso il patentino da farmacista (oggi si direbbe una laurea breve) ed aveva aperto una farmacia in paese; ma dopo non molto tempo l’aveva chiusa, per protesta contro l’amministrazione comunale, che gli aveva aumentata la tassa sul reddito di mezza lira (i fatti risalgono al periodo antecedente la prima guerra mondiale). Sosteneva che il Comune avrebbe dovuto incoraggiare in qualche modo la sua iniziativa benemerita, a vantaggio dei cittadini, invece di caricare di imposte un povero farmacista, che, dato lo scarso numero di abitanti e i prezzi irrisori delle cartine e degli sciroppi preparati sul posto, tirava avanti con non poche difficoltà economiche.

    Ho voluto raccontare l’episodio, che mia madre mi riferì con molta riservatezza, per far comprendere il temperamento bizzarro di questo nostro prozio,  ma anche per mettere in risalto le condizioni di lavoro di certi professionisti di un tempo, confrontate con i favolosi guadagni di oggi.

    Il nome di battesimo del prozio era Francesco, ma noi lo chiamavamo da sempre Zizì. Era l’ultimo di parecchi fratelli, con una sola sorella, Irene, che si era trasferita a Navelli, giovane sposa di Valerio Cantalini. Era viva ancora questa nonna paterna, quando noi ci trasferimmo in città; la ricordo un paio di volte che la mamma mi condusse a Navelli: vecchia, ancora lucida di cervello, mi accarezzava, seduta su di un’alta poltrona; forse era paralitica, mia madre non lo diceva.

    I fratelli di Zizì erano morti da tempo; credo che soltanto due fossero sposati, ma non avevano avuto figli; erano commercianti. Uno, il secondogenito, Angelo Maria Aloisio, aveva abbracciato la carriera ecclesiastica - come era costume nelle buone famiglie del tempo - ed era giunto ad ottenere la nomina a vescovo, ma non accettò il prestigioso ufficio. Era una persona di elevato sapere, eccelso latinista, di modi squisitamente signorili. Preferì restare parroco di S. Pietro a Coppito, una delle più importanti parrocchie della città, piuttosto che affrontare la responsabilità e gli oneri di una Diocesi, quella di Pescina dei Marsi, che non conosceva.

    Questi zii da parte di madre, privi di eredi, provvidero al mantenimento e all’educazione di mio padre, dopo averlo fatto trasferire (non so a quale età, ma credo giovanissimo), dalla casa paterna di Navelli a quella materna di S. Pio delle Camere.

    Zizì poteva avere una settantina di anni, quando venne in città. Io lo ricordo vecchio e minuto: era vecchio nell’incedere lento, a piccoli passi, col dorso curvo; era vecchio nelle rughe profonde al viso e alla nuca, nella vista debole; ma era vivo nell’espressione del volto e nella luce delle pupille.

    Mi dava venti centesimi, affinché gli comprassi il giornale: La Tribuna e mi incaricava di leggerglielo: lui faceva fatica a distinguere i caratteri piccoli e si rifiutava di portare gli occhiali. Si interessava alla cronaca nera e agli annunci mortuari. Allora non si faceva politica: il duce sapientemente aveva messo la museruola alla libertà di stampa e l’ultimo numero del Becco giallo era uscito con il lucchetto al becco dell’uccello.

    Che il nostro prozio fosse interessato ai fatti di cronaca nera, lo dimostra il suo interesse a sentire le cause. Ogni mattina usciva di casa, non di buon ora e sempre ben cautelato contro il freddo e le correnti d’aria: d’inverno con la mantella a ruota sopra il cappotto, d’estate con l’impermeabile, per andare alla Corte d’assise.

    Nel primo pomeriggio mi chiamava e mi raccontava del furto al tale negozio e di come i ladri fossero entrati attraverso il buco, mi riferiva del delitto passionale, della truffa del mariuolo e di altri crimini, che a me interessavano né punto né poco.

    A quel tempo Aquila si distingueva per avere un foro, civile e penale, di grande rinomanza, oltre a essere, unica in Abruzzo, sede di Corte di appello.

    E così Zizì mi riferiva dell’arringa del tale o tal’altro avvocato, ma le sue preferenze andavano a Vincenzo Camerini, principe del foro e senatore del Regno; Camerini era ben noto al mio prozio, per essere originario di S. Pio delle Camere, ove esiste tuttora via Camerini.

    Sai Camillo - mi diceva - Camerini scherza con i giudici e prende in giro gli avvocati di parte avversa, suscitando l’ilarità degli astanti. Io, che non avevo mai vista un’aula di tribunale, mi figuravo la scena come un palcoscenico, ove i giudici e gli avvocati fossero gli attori e Zizì e tanti altri vecchietti gli spettatori in aula. Camerini doveva essere il più bravo degli attori, poiché, come Buster Keaton, faceva ridere, rimanendo sempre serio.

    Zizì, in casa nostra, aveva la stanza migliore, separata dalle nostre camere da letto: una stanza ampia, quadrata, assolata, con una grande finestra-balcone, che dava a oriente e la porta che comunicava direttamente con il corridoio d’ingresso. Faceva tutto nella sua stanza: lì leggeva e passeggiava, lì rifletteva e mangiava. Non usciva dalla stanza neanche quando sentiva in casa i suoi paesani, che di tanto in tanto venivano a rendere omaggio alla mamma. La loro visita era un motivo in più perché si rintanasse nel suo covo; con l’avanzare dell’età si era accentuata in lui la congenita misantropia, della quale non aveva fatto mai mistero.

    I suoi giudizi sulle persone di S. Pio delle Camere erano avventati, spesso erronei. Mia madre cercava di correggerlo, ma inutilmente. Lei, che aveva grande stima di quei concittadini acquisiti, degli uomini elogiava la possanza fisica e la calma serafica; delle donne la leggiadrìa e la serietà.

    Ho potuto constatare personalmente, nei miei rapporti, vuoi amichevoli, vuoi professionali, con la gente di S. Pio delle Camere, come fosse veritiero il giudizio di mia madre; devo aggiungere la grande onestà e l’impegno e la tenacia nel lavoro. Prova ne sia che molti, emigrati da S. Pio alla volta degli Stati Uniti d’America, vi hanno trovato successo e buoni guadagni.

    Alla fine degli anni venti, Zizì cadde ammalato: cominciò a mangiare meno di quel poco, di cui abitualmente si nutriva; mia madre notò che aveva disturbi intestinali: evacuava spesso e talora emetteva feci con sangue. Consultò il prof. Rossi, primario ospedaliero di chirurgia, che conosceva e stimava, per essere stata da lui curata, di una noiosa e invalidante sciatica. Questi diagnosticò un cancro del retto e prescrisse una cura ambulatoriale, con delle medicazioni locali attraverso una sonda. Zizì si sottopose pazientemente e con rassegnazione a una terapia, che sarebbe stata sgradita a chiunque, particolarmente a un vecchio che aveva spiccato il senso del pudore. Ma non aveva fiducia: aveva compresa la gravità del male e diceva che quando a una persona di ottanta anni, che è stata sempre bene, viene un malanno serio, quella persona non ha scampo. Al prof. Rossi diceva, con ironia, che aveva desiderio di fare una passeggiata fuori porta Castello (per andare al cimitero, la via più breve era di uscire dalla città attraverso la porta Castello). Il professore non capì (o fece finta di non capire, per rincuorarlo) e rispose: la farà la passeggiata, ha tempo ancora.

    Zizì la passeggiata fuori porta Castello non la fece, né da vivo né da morto. Quando di lì a poco si spense, mia madre ebbe il dubbio che la sua volontà fosse di essere sepolto a L’Aquila, lontano da parenti e conoscenti, come a continuare quel beato isolamento, che lo aveva caratterizzato per tutta una vita. Ma non avendo egli manifestata in modo esplicito la stramba idea, lo calò nella tomba di famiglia di S. Pio delle Camere.

    VITA DA FORMICHE

    Il rosario vespertino

    Nelle famiglie dabbene, piccolo borghesi; forse anche in quelle altolocate, timorate di Dio (non importa se nella forma più che nella sostanza), vi era la consuetudine di recitare il rosario, tutti riuniti, d’inverno, intorno al fuoco.

    A casa nostra, il rosario non era un rituale di tutti i giorni, come era presso la maggior parte delle famiglie di nostra conoscenza, ma un atto di devozione, che veniva osservato in alcuni periodi dell’anno, quando più intenso era il richiamo al Trascendente: nelle settimane dell’Avvento, durante la Quaresima, nel mese di Maria e nei giorni dei Santi e dei Morti.

    Mia madre, seduta accanto al caminetto del soggiorno (spesso, anche a maggio si era costretti ad accendere il fuoco), recitava le litanie e, mentre noi ragazzi rispondevamo, ravvivava il fuoco, attenta a non farlo spegnere e a conservare la brace, che sarebbe servita più tardi a riempire le padelle degli scaldaletti.

    L’ora dal vespro era la più idonea alla recita del rosario: è l’ora del raccoglimento e della meditazione, ...l’ora che volge il disìo ai navicanti e‘ntenerisce il core, dice il sommo poeta.

    Il semibuio rendeva più suggestiva la preghiera. Ma vi era anche un motivo di economia domestica in quella scelta: la recita sommessa, a memoria, delle avemarie e dei misteri, consentiva di ritardare l’accensione della lampada; era l’unica attività che si potesse svolgere in quel lasso di tempo, quando il buio prende il sopravvento sulla fuggevole luce del giorno che va a morire.

    L’ora della libera uscita

    Dopo i compiti e l’eventuale rosario, c’era l’ora di libertà. La scusa era di prendere la boccata d’aria, ma in realtà si andava sotto i portici, ad incontrare gli amici e i compagni di scuola.

    Si guardavano le ragazze, quasi sempre accompagnate dai genitori o dai fratelli, raramente a piccoli gruppi; si indirizzavano loro sguardi, più o meno cupidi, si esprimevano giudizi sottovoce, mai frasi irriguardose o pesanti complimenti.

    Talvolta, attraverso una porticina all’angolo dei quattro cantoni, salivamo una scala a chiocciola, che ci portava alla sala da gioco del caffè Eden: più per vedere giocare i campioni che per giocare noi stessi, poiché i soldi nelle nostre tasche erano pochi; chi perdeva pagava il fitto del biliardo e, per non perdere molto, giocavamo a squadre di due contro due e per il tempo minimo consentito, che era di mezz’ora. Il mio gioco preferito era il gioco delle boccette, e lo era anche per i miei amici più cari e fidati.

    Ricordo, con grande disagio, quella grande sala rettangolare: un mezzanino, basso di volta, male aerato, con tre tavoli da biliardo allineati, colmo di uomini e di fumo; le poche finestrelle, che venivano aperte di rado per il grande freddo che vi era fuori, non davano all’esterno, ma all’interno dei portici.

    Non so se gli abituali frequentatori di quel locale (erano molti) si siano ammalati, con il passare degli anni, di bronchi o di polmoni; di certo il rischio era elevato. Posso testimoniare del cameriere, l’unico addetto al servizio della sala, sempre presente.

    Il suo nome rimbalzava di bocca in bocca, da un angolo all’altro della grande sala: Cleto si muoveva in quella nebbia impalpabile, fatta un po’ di polvere e molto di fumo di sigarette, recava le biglie del biliardo, riscuoteva i pedaggi del gioco, portava ai tavolini verdi le carte napoletane per il tressette o per la briscola, quelle francesi per il ramino (il poker, come gioco d’azzardo, era proibito); teneva i vassoi con le consumazioni e li portava indietro con le tazze vuote.

    La sua voce tonante sovrastava il vociare sommesso dei giocatori, interrotta di tanto in tanto dal rumore delle biglie che si scontravano. Di rado doveva intervenire, dall’alto della sua autorità e della sua prestanza fisica, a sedare qualche rissa incipiente. Allora interrompeva il gioco dei litiganti e li invitava ad uscire dal locale, non prima di aver riscosso il dovuto per le consumazioni e per il fitto del biliardo. In caso di contestazione, minacciava di avvertire gli agenti della questura, la cui sede era poco distante; ma bastava che prendesse in mano il cornetto del telefono, perché i turbolenti si calmassero e guadagnassero l’uscita. A quel tempo l’autorità incuteva rispetto e faceva paura.

    Alle 19.30 Cleto consumava una modesta cena, che la moglie gli portava da casa; mangiava seduto al suo posto di servizio, senza  interrompere la sua attività, tenendo sotto rigido controllo l’andirivieni delle persone e l’andamento del gioco. Non so fino a che ora fosse presente in quella bolgia dantesca, certamente fino alla chiusura della sala, oltre la mezzanotte.

    Era un uomo sulla sessantina, quando lo presi in cura, dopo un decennio e più dai fatti raccontati. Viveva con la moglie e tre giovani figli, di ambo i sessi, in

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