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La Città degli Automi
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E-book486 pagine6 ore

La Città degli Automi

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Info su questo ebook

(La Compagnia del Viandante - Vol.I)

In un altro mondo, in un altro tempo, le gesta coraggiose di un manipolo d'uomini e donne si apprestano ad essere narrate...

La piaga dei Demoni si diffonde: orde di mostruose creature, un tempo esseri umani, ammorbano le lande del Regno, sospinte dal freddo alito della morte. Soltanto i guerrieri scelti della Compagnia del Viandante possono arrestarne l’avanzata!

Ma la Compagnia è orfana del suo fondatore: Abel, il Bianco Viandante, l'eccelso guaritore noto a tutti i popoli, è scomparso nel nulla. I suoi allievi prediletti, vestiti d'acciaio, portano avanti la sua missione.

Dorian, l'intrepido comandante; Raduan, leale e combattivo; Kyra, bella e scontrosa, un occhio perduto sul campo di battaglia: è nelle mani di costoro che il destino ha posto le sorti del Regno, mentre un'epoca di terribili cambiamenti si avvicina.

I passi di Kyra la conducono a Dekka, città portuale di stridenti contrasti, tra le cui case si erge la colossale Fabbrica. Volti nuovi entrano a far parte della sua vita: Ezer, il burbero pescatore; Ethan, il ribelle dal cuore d'oro; Leon dai mille segreti; Aren il coraggioso; Nestor il saggio...
Tra bande criminali, complotti, tradimenti e terrificanti Automi dal cuore meccanico, la giovane donna si getta a capofitto nell’avventura.

E la sua nemesi, letale fusione di carne e metallo, l'attende al varco, nel cupo ventre della Fabbrica!

La grande avventura continua nei volumi successivi della saga: "La Forgia del Destino", "La Fiamma Eterna", "L'Eredità di Ys" e "Le Sabbie Nere". La raccolta dei cinque volumi è anche in vendita in un unico ebook dal prezzo davvero vantaggioso!

LinguaItaliano
Data di uscita9 lug 2012
ISBN9781476382937
La Città degli Automi
Autore

Francesco Bertolino

Sono nato a Ivrea la Bella, che i Romani chiamavano Eporedia.La prima cosa che ho letto è stata: "Lettera D: Dimmi Dunque Dove Devo Andare".La prima cosa che ho scritto solo io riuscivo a leggerla. Peccato, era un capolavoro: dinosauri, robot e raggi fotonici, intrecciati in un melodramma dai risvolti kafkiani...La mia infanzia è volata via come un sogno colorato.Ho fatto il Liceo Classico, mi piacevano da matti le versioni ed ero il tipo da cui copiare i temi, in cambio di una sbirciata al test di mate.Poi il grande salto: Ingegneria Informatica. Ne sono uscito senza troppi danni cerebrali.Un paio di stagioni a Torino, poi la voglia di cambiamento mi ha spinto nel mezzo della Bahia brasiliana. Tre meravigliosi anni di volontariato, dove gente scalza dagli occhi di sole mi ha insegnato a sorridere davvero.Di più ancora, ho trovato l'amore! Celene, la mia luna...Continuiamo a vivere in Brasile, su un'isola chiamata Florianópolis - che non è per nulla vicina a Paperopoli, ma in compenso vanta quarantadue spiagge, due lagune, e un imprecisato numero di discendenti italo-brasiliani con i loro dialetti insensati!Oggi vivo di software, anche se il mio sogno è quello di tanti altri: scrivere, scrivere, scrivere, e di scrittura sopravvivere.Come i Quendi, guardo spesso il mare. Chissà che Valinor non compaia all'orizzonte...​

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    Anteprima del libro

    La Città degli Automi - Francesco Bertolino

    Prologo

    L’uomo, intontito, sollevò le palpebre: la realtà davanti ai suoi occhi era una tela grigia, insondabile.

    Dolore, confusione, come una morsa stretta sulle tempie...

    Deglutì, la bocca impastata da un sapore amaro. Un'ondata di nausea, improvvisa e violenta, lo fece piegare in due. Provò ad alzarsi, ma scoprì di avere mani e piedi legati. Un vento gelido gli soffiò sul corpo nudo, facendolo rabbrividire.

    Invano cercò di ricucire assieme i brandelli di memoria che gli danzavano nella mente.

    «Dove sono? Che mi è successo?»

    Sapeva ancora chi era, ma tutto il resto...

    «Non ti sforzare troppo» disse una voce, stridente come lo sfregare di metallo contro metallo.

    «Sarebbe un inutile spreco di energie» dichiarò una seconda voce, attutita e distante.

    «Sei nostro ospite, adesso» aggiunse una languida voce femminile.

    «Per sempre...» rincarò una quarta voce, bassa e cupa come il cielo in una notte di tempesta.

    Quelle voci...

    Quell'odore aspro...

    I ricordi affluirono a valanga, spingendolo sull'orlo dell'abisso.

    «Ho fallito!» pensò, scioccato «Tanti anni... Tutto perduto!»

    Era un pensiero troppo duro da affrontare. Meglio calare il sipario, lasciarsi andare...

    Ma qualcosa, nell’ora più difficile, gli impedì di sprofondare nel buio: immagini di uomini e donne vestiti di bianco, volti amici, mani tese verso di lui, voci piene di speranza.

    «Siamo con te!» dicevano quelle voci, come un fascio di luce chiara che fendeva le tenebre.

    Esibì un mezzo sorriso, e capì che per loro avrebbe affrontato il futuro a testa alta, qualunque esso fosse.

    Il vento si intensificò, una sferza impietosa sulla sua pelle.

    «Per sempre…» ribadì la quarta voce.

    I - Un Triste Rituale

    Dall'alto dei bastioni, gli assediati squadravano con orrore i Demoni ammassati all'esterno delle mura: le immonde creature ringhiavano, sbavavano, raspavano la nuda pietra, rese folli dalla smania di entrare.

    Era soltanto questione di tempo prima che ci riuscissero. E allora la carneficina avrebbe avuto inizio.

    Si strinsero l'un l'altro, tremanti dinanzi alle assurde vesti indossate dalla morte per venir loro incontro. La luce delle torce scemò sotto l'assalto del vento, un anticipo dell'oscurità che li avrebbe inghiottiti.

    Inatteso, un urlo di guerra squarciò la tela della notte, e tutti volsero lo sguardo a oriente. Un raggio di luna lacerò la coltre di nubi che copriva il cielo, investendo la sommità del colle da cui era giunto il grido. Il velo di luce argentea si posò sulla terra, e rivelò ciò che nessuno avrebbe mai osato sperare: un'armata, un'intera armata d'uomini lanciati in corsa lungo il pendio, un turbine di guerrieri ammantati di bianco e corazzati d'acciaio!

    Piombarono sulla retroguardia dell'orda nemica come una lancia guidata dalla mano di un Dio guerriero, e la spazzarono via.

    Agli assediati, quell'armata parve provenire da un altro mondo.

    Nessuno aveva mai posato gli occhi su un gruppo di guerrieri tanto abili e spietati: le creature cercavano di difendersi con tutte le assurde armi di cui erano dotate, zanne, artigli, tentacoli e arpioni, ma la superiorità degli avversari era evidente.

    Rapidi, i guerrieri fluivano da una posizione all'altra senza mai perdere la calma, immuni agli orrori che li circondavano. Ogni creatura veniva accerchiata e punita con una morte immediata, di spada, ascia o lancia che fosse. L'aria fu presto satura dei suoni della battaglia, e il sangue spillò finché la terra ne fu intrisa.

    Alla fine, gli unici a rimanere in piedi furono i guerrieri scaturiti dall'oscurità. L'orda dei Demoni era stata annientata, i suoi cadaveri ricoprivano la terra.

    Dai bastioni si levarono acclamazioni di giubilo, ma i guerrieri non esultarono, né accennarono a riporre le armi. Arretrarono a un ordine del loro comandante, aprendo la formazione a ventaglio. Si arrestarono a breve distanza dalle mura, in attesa.

    Un mugghio feroce, prima quasi impercettibile, poi sempre più intenso, sorse dal mucchio di corpi senza vita accatastati fuori dalla fortezza. Una donna puntò il dito, gridò, e svenne. Uno ad uno, i mostruosi esseri ripresero vita, nuova linfa scorrendo nelle loro vene. Si rialzarono, ignorando il dolore, come se una forza malefica ne sostenesse i corpi devastati dalle ferite. Rivolsero le spalle alla fortezza, e si trascinarono claudicando verso i guerrieri.

    Avanzavano e cadevano, si rialzavano e cadevano, e si rialzavano di nuovo. Erano morti, ma bramavano vendetta.

    Nessuno dei guerrieri parve sorpreso. Nessuno arretrò, nessuno cercò una via di fuga. Piantarono gli stivali nella terra umida, gli scudi levati di fronte a sé. Dietro a ogni elmo, un paio d'occhi fissava senza paura l'avanzata delle creature. Labbra si socchiusero, mostrando i denti stretti in sorrisi che sfidavano la morte.

    La notte era ancora lunga...

    -----

    «Un giorno tutti dovremo lasciare questo mondo. Ed io con gli altri...»

    Il guerriero parlò con voce spenta, rivolgendosi più a se stesso che ai compagni d’armi seduti in circolo accanto a lui, spalla contro spalla, attorno allo stendardo lacero della Compagnia del Viandante. Il chiarore infuocato dell’alba proiettava lunghe ombre sul campo di battaglia. Un silenzio irreale avvolgeva ogni cosa, interrotto soltanto dal gracidio dei corvi.

    «Se avessi il potere di controllare il mio destino» continuò il guerriero «mai e poi mai sceglierei di morire all’alba. Un nuovo giorno avrebbe inizio, ma non per me... È questo che più mi angoscia della morte...»

    S’interruppe, sfregando la barba ispida col dorso di una mano, e chinò il capo:

    «...o forse mi rende soltanto molto triste.»

    Alcuni dei compagni lo osservavano, muti. Altri guardavano nell'ombra, persi nei propri pensieri. La battaglia era giunta al termine, portando via con sé la furia e l’esaltazione, lasciando un vuoto nell’anima d’ogni uomo. I volti, scavati dalla stanchezza e segnati dal metallo, parevano quelli di fantasmi riunitisi per un triste rituale.

    Un uomo, più alto della media, si levò dal cerchio e mosse alcuni passi verso il centro: sotto il mantello bianco, una cotta di maglia tintinnò al contatto dei bracciali e dei grandi coprispalle. La sua chioma biondo cenere ondeggiò nella luce dell'aurora, riflettendone il bagliore come mille scaglie d'oro.

    Rivolse lo sguardo ai piedi del colle, e si soffermò sui resti della strage.

    «Tutti possiamo capire ciò che provi, Raduan» disse, scegliendo le parole «Quante volte abbiamo già rivissuto quest'incubo?»

    Levò al cielo il volto dal profilo aquilino.

    «Questa guerra fa parte di noi, ormai, che lo vogliamo o meno. Auguriamoci che abbia un senso.»

    L’uomo chiamato Raduan non replicò. Scosse il capo un paio di volte, frustando l’aria con la coda di capelli corvini, e rivolse un sorriso incerto all’altro guerriero.

    «Strane parole le tue, Dorian. Non immaginavo di poterti contagiare col mio pessimismo. Ma mi conforta sapere di non essere solo. Me le sento fin nelle ossa, queste dannate sensazioni!»

    Il comandante si avvicinò, poggiandogli una mano guantata sulle spalle.

    «Amico mio» disse «Guardati attorno.»

    E gli indicò il resto della Compagnia, uomini e donne dall’aria smarrita, sfiniti nel corpo e nell’anima.

    «Come vedi, non sei certo l'unico a soffrire. Fatti coraggio: questa battaglia non è stata peggiore delle altre. Siamo noi che stiamo cambiando.» Fece una pausa, pensieroso. «Si direbbe che abbiamo perduto la forza...»

    «O la fede, piuttosto» si intromise una voce femminile, proveniente dalle ombre al di fuori del cerchio d’uomini.

    Una figura snella fece il suo ingresso nel gruppo, rivelando un bel viso di donna, dalla pelle abbronzata. Una sottile cicatrice le segnava il volto dal sopracciglio sinistro fino al mento, solcando l’orbita di un occhio senza vita. Avanzò con passo deciso, lisciandosi la criniera castana con una mano. Nell’altra reggeva un sacco di tela grezza. Senza degnare alcuno di uno sguardo, si accomodò su un ceppo e gettò il sacco ai suoi piedi. Il tonfo metallico provocò mormorii d'indignazione.

    La giovane scoccò una sola occhiata a Raduan, che la fissava con aperto disprezzo, per poi rivolgere un sorriso sfrontato al comandante, immobile accanto allo stendardo della Compagnia.

    «Padre» lo salutò, con un cenno del capo.

    «Kyra. Come è andata oggi la caccia?» rispose Dorian, come se rivolgerle la parola gli costasse fatica.

    «Discretamente.»

    Sembrava condurre uno strano tipo di gioco, che nessuno attorno a lei apprezzava. Aprì il sacco, vi rovistò dentro, e ne estrasse un borsellino. Lo fece dondolare tra le dita, con un tintinnio di monete.

    «Non se la passava male, questa gente. Peccato per loro.»

    «Taci!» irruppe Raduan «Non c’è traccia di compassione nel tuo cuore?»

    «Compassione?» replicò Kyra, aggrottando la fronte «Siamo venuti a riscuotere un debito di morte, ricordalo. É ciò che sempre facciamo.»

    Lo sguardo dei guerrieri tutt’intorno si fece torvo, ma nessuno reagì alle sue parole. Dorian, curvando le spalle sotto a un invisibile fardello, tornò a sedere.

    «Sei sempre stata brava ad incolpare gli altri» sibilò alla figlia, passandole accanto.

    Lei arricciò il naso, senza ribattere.

    Sulla collina calò il silenzio. I guerrieri si richiusero in se stessi, in attesa. Nessuno volgeva lo sguardo al campo di battaglia. Non era una vittoria da celebrare. Quando il disco del sole si levò per intero sopra la linea dell’orizzonte, il comandante ruppe il silenzio:

    «L’ora è giunta: portiamo a termine la nostra missione!»

    Suonò solenne, più di quanto avesse voluto. Ma almeno questo era dovuto ai caduti, in segno di rispetto.

    Si alzò e si diresse allo stendardo da battaglia della Compagnia. Logoro e macchiato di sangue, il simbolo rispecchiava alla perfezione lo stato d’animo degli uomini che rappresentava. I bordi dorati erano sfrangiati in più punti, ed il segno al centro del panno, ricamato in forma di nodoso bastone da viandante, era quasi irriconoscibile. L’asta color ebano era marcata da profonde escoriazioni.

    Senza esitare, Dorian la divelse dal terreno e resse lo stendardo di fronte a sé con ambo le mani.

    Si avvertì nell’aria un mormorio sommesso, e l’atmosfera si fece carica di elettricità. In lontananza, lampi bluastri solcarono il cielo. I guerrieri osservavano in silenzio, serrando il circolo attorno al loro comandante.

    Dorian chiuse gli occhi e si concentrò. Il vento, fino ad allora assente, crebbe d'intensità. Poteva sentire il suo folle fischio nelle orecchie. Nubi nere si addensarono sopra la sua testa. Pur non vedendole, ne avvertì il peso schiacciante, ma non si fece intimidire.

    Allargò le braccia, levò lo stendardo al cielo e gettò all’indietro il mantello: la sua figura maestosa, avvolta nell’acciaio, si rivelò per intero, catalizzando la luce dell’astro nascente.

    «Abel kvar!» tuonò, indirizzando lo sguardo ai cadaveri ammassati attorno alle pendici della collina «Kalarti ka zvendàri! Scomparite da questa terra!»

    Pronunciate le antiche parole, colpì il terreno con l’asta dello stendardo, e la terra tremò in risposta. Intense vibrazioni si diffusero come un’onda dalla collina alla pianura sottostante, scuotendo la terra e disegnando una ragnatela di crepe. Già sapendo cosa sarebbe accaduto, tutti serrarono le palpebre.

    «Dammi la forza, ancora una volta!» implorò Dorian dentro di sé.

    Allora, in risposta all’ancestrale evocazione, dai cadaveri sparsi come marionette sul campo di battaglia sorsero spettri di ogni forma e dimensione, vive essenze strappate alla carne dei morti. In una cacofonia di lamenti, le entità traslucide si levarono dal suolo, e fluttuarono a mezz'aria come uno strato di nebbia maligna. Rapide e feroci, si scagliarono all’unisono sull’uomo che le aveva evocate, spezzando il dolce legame con la morte: lo avvolsero, urlarono e graffiarono, sibilarono promesse di dannazione, ma non poterono nuocergli, tenute a bada da un’invisibile barriera.

    Lo stendardo, stretto nella mano di Dorian, brillava con l’intensità di una piccola stella.

    Furenti, gli spettri presero a ruotare in cerchio sulle teste dei soldati, in un folle crescendo di velocità, sino a che la collina intera fu avvolta da un turbine d'energia. La luce e il frastuono investirono i sensi degli uomini come una tempesta, finché, con un'ultima acutissima nota, l’assordante fragore cessò del tutto.

    Gli spettri si immobilizzarono a mezz’aria.

    Per chi ebbe il coraggio di guardare, i loro rabbiosi volti dai tratti umani parvero sciogliersi nella tristezza più profonda. Nel silenzio assoluto, si radunarono. Poi si tuffarono verso il cielo in un’unica vorticante colonna, e scomparvero nel firmamento come se mai fossero esistiti.

    Dopo un’eternità, uomini e donne tornarono a guardarsi attorno, scossi. Rombi di tuono risuonavano in lontananza, ma le nubi già cominciavano a dissolversi, rapide come si erano formate.

    Dorian rimase immobile al centro del cerchio, le braccia levate verso l’alto, le palpebre serrate in una smorfia di sofferenza. Poi, lentamente, abbassò le braccia e riaprì gli occhi.

    Nella mano destra stringeva ancora il simbolo del suo battaglione, uno stendardo non più lacero e insanguinato, bensì luminoso e sfolgorante nella luce del patto che legava la Compagnia del Viandante alla propria missione.

    «Così è sempre stato, e così sempre sarà...»

    -----

    Il rituale era giunto al termine.

    Dorian depose lo stendardo. Si guardò attorno disorientato, come se soltanto allora si rendesse conto di dove si trovava. Il colle sorgeva nel mezzo di una distesa di campi di grano, punteggiata di corpi senza vita. Verso ovest, si intravedevano nella foschia le propaggini della fortezza di Bezer: issata su un pennone, la bandiera scarlatta del Principato di Feledan sventolava con indifferenza. A ridosso delle mura, vi era un agglomerato di tende e carri dalle tinte sgargianti, il villaggio ambulante di una comunità di girovaghi - ma la vivacità dei colori era soffocata da un innaturale silenzio.

    «Andiamo» disse Dorian, e si avviò lungo il sentiero che portava alla fortezza.

    Gli altri, non più di cinquanta tra uomini e donne, lo seguirono senza parlare. La fila di guerrieri vestiti di bianco, armature e cotte di maglia rilucenti nel chiarore dell’alba, si snodò lungo le pendici del colle, scendendo a valle con passo stanco. Raggiunto il pianoro, si fecero strada tra i corpi senza vita.

    Mentre camminava tra le spighe macchiate di rosso, Raduan cercò di nascondere il suo turbamento. Non sapeva come ciò accadesse, ma subiva una vera e propria metamorfosi durante la lotta. Poteva rivedersi, poche ore prima soltanto, esultante nell’atto di falciare, calpestare e frantumare corpi senza un briciolo d'esitazione...

    Ma adesso, come al termine di ogni altra battaglia, si sentiva svuotato. Ad ogni passo, era scosso da tremiti di pietà e disgusto per ciò che vedeva. Quel che restava dei nemici sconfitti gettava una luce inquietante sulla natura dello scontro: non una lotta onorevole di uomo contro uomo, bensì una strage di creature prive di ragione, insensate mutazioni di esseri umani.

    Demoni, li chiamavano, ma non lo erano.

    L'accampamento dei girovaghi si era fatto più vicino, una piccola foresta di teli colorati e carri di legno intarsiato. Non un'anima viva, tra le tende. Gli abitanti avevano cessato di esistere, uno dopo l'altro, a causa della mutazione.

    E per mano della Compagnia del Viandante.

    Transitarono accanto a una deformità che un tempo era stata un bambino.

    «Grande Abidan, fa almeno che i suoi occhi siano chiusi!» pregò Raduan.

    Non lo erano.

    Guardò, suo malgrado, e ciò che vide gli riempì gli occhi di lacrime. Chinò il capo e proseguì spedito, sperando che nessuno notasse la sua debolezza.

    Nessun membro della comitiva era a proprio agio. Camminavano in silenzio, senza rompere le fila. Soltanto Kyra, restando di proposito in fondo alla colonna, ogni tanto deviava dal cammino, attratta da qualcosa di interessante - un anello, una collana, un pettine dal manico dorato. Il suo sacco ingrassava a vista d'occhio.

    Dorian la osservava di sbieco, e come altre volte fu tentato di prenderla a schiaffi. Come le altre volte, però, lasciò perdere. Discutere con sua figlia era produttivo come sbattere la testa contro un muro di mattoni. Ma la cosa rischiava di degenerare: i lampi di rabbia negli occhi dei suoi uomini non erano cosa da sottovalutare. Avrebbe dovuto risolvere la situazione in modo pacifico, prima che le spade cominciassero a parlare. Sospirò. Una cosa alla volta.

    Quando la Compagnia raggiunse il tratto di terra spianata di fronte alla fortezza di Bezer, ad attenderli c'era un contingente di venti uomini a cavallo. Un uomo di bassa statura li guidava, piccolo persino in sella al suo imponente destriero.

    «Comandante Dorian» disse, con una sfumatura di stizza «Ottimo lavoro! Sono felice di rivedervi sano e salvo. Senza dubbio sarete stanchi e affamati. Con il vostro permesso, vi scorteremo all’interno delle mura. Cibo e bevande non mancheranno per nessuno!»

    «Capitano Seras» replicò Dorian, a bassa voce «So che non siete così felice di vederci. Comunque, accettiamo di buon grado la vostra offerta.»

    Seras si mosse a disagio sulla sella, e aprì bocca per smentirlo. Poi, ripensandoci, girò il cavallo, e procedette verso il ponte levatoio senza aggiungere una parola. I guerrieri della Compagnia lo seguirono a breve distanza, preceduti dal loro comandante, stanchi eppur fieri nel portamento. I cavalieri della guarnigione si disposero ai loro fianchi, scortandoli verso l’interno. Dorian si chiese se fossero animati da un sincero istinto protettivo, o se temessero piuttosto per la propria gente.

    Ancora una volta, nonostante la vittoria e la condotta irreprensibile, la Compagnia del Viandante doveva provare sulla propria pelle il freddo marchio della superstizione. E come non comprendere tale atteggiamento? Violenza e morte toccavano ogni uomo, in quei tempi difficili, ma la comparsa di creature mostruose e spettri non era facile da digerire per nessuno. Impossibile sfuggire ai sospetti, quando elementi di quel tipo li seguivano sempre sulla scena. Come i Demoni, e come il rituale appena compiuto. Come tutto ciò che riguardava la Compagnia.

    Entrarono nella fortezza, abbastanza grande da ospitare centinaia di persone. Dentro, non trovarono nessuna folla festante: i pochi presenti si tenevano a distanza, squadrandoli con paura malcelata. Porte e finestre delle case erano sbarrate, alcuni volti sbirciavano nervosamente tra le fessure. Furono scortati a un edificio largo e piatto, alle spalle del torrione centrale, dove poterono lavarsi e sfregar via l’odore di morte che impregnava i loro corpi. Indossarono indumenti puliti, tutti rigorosamente bianchi, come le tuniche ormai consunte che avevano vestito sopra le corazze.

    Kyra fu tra gli ultimi a concludere la piacevole incombenza. Quando uscì all’aperto, rinfrescata e coi capelli sciolti, non le sfuggirono le occhiate di ammirazione che molti soldati le scoccavano. Ricevendo in cambio, nel migliore dei casi, una smorfia d'irrisione. Si sedette su una panca esposta al sole, godendosi il tepore.

    Conosceva bene il proprio potenziale, e non intendeva certo gettarlo alle ortiche. Fin dalla prima giovinezza era abituata a suscitare le attenzioni indesiderate degli uomini intorno a lei, nonché a respingerle con decisione: più d’uno portava indelebili sul corpo i segni del suo rifiuto. Passò un dito lungo il percorso della cicatrice che le segnava il volto, dalla fronte sino alle labbra. Neppure con quella le cose erano cambiate: anzi, aveva persino arricchito la sua bellezza selvatica, che tanti aveva sedotto, e poi ferito.

    Raduan uscì a sua volta dai bagni, inspirando a pieni polmoni. Si girò da un lato e dall'altro, distratto. Quando incrociò lo sguardo di Kyra, si irrigidì all'istante.

    «Questo è un altro paio di maniche...» pensò lei, sfoggiando uno dei suoi sorrisi più maliziosi.

    Conosceva Raduan da anni, e doveva ammettere che sin dal loro primo incontro aveva provato una sorta di attrazione nei suoi confronti. Tanto più ora, che lui la detestava. Era sempre spassoso per lei stuzzicare Raduan il puro, l’irreprensibile, il braccio destro del suo caro padre! E prima o poi, ne era sicura, lui sarebbe crollato, l'avrebbe fatta finita con lo stupido rigore che ostentava.

    «È questo che pensi davvero?» le sussurrò una fastidiosa voce, da dentro.

    La zittì, senza staccare gli occhi dal guerriero, finché questi le diede le spalle e si diresse altrove, borbottando qualcosa. La stuzzicò il pensiero di seguirlo e tormentarlo un po', ma decise di rimandare il gioco. Avrebbe avuto tutto il tempo necessario, prima della prossima battaglia. O forse no, ma che importava? Rimase dov'era, invece, a ciondolare le gambe ai caldi raggi del sole.

    Poco più tardi Dorian, il volto sempre severo, riunì i membri della Compagnia e li condusse alla mensa, dove si rifocillarono sotto lo sguardo vigile dei soldati della guarnigione. Il capitano Seras fece un’unica breve apparizione tra i tavoli, rinnovando la propria offerta di ospitalità con parole affrettate, ed invitandoli a riposarsi quanto necessario tra le mura della fortezza. Poi fu ben felice di ritirarsi, adducendo una serie di pressanti questioni a cui badare. Nessuno degli ospiti cercò di trattenerlo.

    Durante il pasto furono scambiate poche parole, poi il gruppo tornò agli alloggiamenti, dove ciascuno trovò ad attenderlo una branda poco confortevole. Si distesero senza fare complimenti. Dorian scelse il primo giaciglio che vide, subito imitato da Raduan. Kyra preferì isolarsi in un angolo del dormitorio, lontana da tutti. La battaglia era stata dura, e il sonno calò come una benedizione su ogni uomo e donna della Compagnia.

    Soltanto Kyra non si assopì.

    Aveva molte cose a cui pensare. Decisioni da prendere, e in fretta.

    Rimase ancora a lungo sveglia, a fissare il vuoto.

    II - Gli Occhi di un Amico

    Si destarono al calar del sole, dopo un indisturbato riposo di mezza giornata. I turbamenti della battaglia appena vissuta già cominciavano a sbiadire nella loro memoria, un ricordo cupo e indistinto tra i tanti che facevano la storia della Compagnia del Viandante.

    Si riunirono nello stesso locale del pasto mattutino. Seduti attorno a larghe tavole, furono serviti in modo cortese, ma poco caloroso. Seras non si fece vedere. La conversazione si animò più che al mattino, toccando svariati argomenti, dalle preoccupazioni per l'imminente guerra tra i principati, alla battaglia della notte precedente.

    «Erano parecchi...» commentò uno dei guerrieri, un uomo massiccio dai capelli grigi tagliati cortissimi «Molte donne e bambini, ben più delle altre volte.» Non sollevò lo sguardo dal piatto, mentre parlava.

    «Già» concordò un altro «Non è stato facile. Più passa il tempo, più mi sembra che la situazione stia peggiorando. Stiamo davvero cambiando le cose? Non lo so...»

    «Certo che sì!» affermò una donna, guardandolo in cagnesco «Perché saremmo venuti qui, altrimenti? Mi stupisco di sentire certe cose!»

    «Va bene, va bene!» si difese l'altro, mettendo le mani avanti «Ma permettimi di avere qualche dubbio. É salutare, di questi tempi.»

    «Sono d'accordo» dichiarò l'uomo dai capelli grigi «Fa male ammetterlo, eppure lo sento anch'io: non stiamo facendo altro che rimandare il peggio. Forse lui aveva in mente qualcos'altro, ma a questo punto dubito che lo scopriremo.»

    «Senza contare che, con la guerra e tutto, le cose non faranno che peggiorare! Mi chiedo se riusciremo a restare neutrali... Altrimenti, addio missione.»

    La donna scosse la testa, incredula dinanzi al pessimismo dei compagni. Ma non era il caso di insistere. Con una smorfia, tornò a rivolgere l'attenzione all'insipida zuppa che aveva nel piatto.

    Dorian, seduto a capotavola tra Raduan e Kyra, non prese parte ad alcuna conversazione, pur cogliendone frammenti dai tavoli accanto. Non fu sorpreso dal constatare che i toni usati non erano dei più ottimisti, e che anzi il morale dei suoi uomini pareva a terra.

    Raduan, fino ad allora più intento a cibarsi che a scambiare parole coi vicini di tavola, notò il suo turbamento:

    «La colpa non è tua, Dorian» disse, rivolgendogli un mezzo sorriso.

    Dorian posò lo sguardo su di lui. Come faceva ad intuire sempre il corso dei suoi pensieri?

    «Se la colpa non è mia, di chi è allora?»

    «Non puoi assumerti la responsabilità di tutto quanto!» ribatté Raduan «Ciascuno di noi è qui di sua spontanea volontà, o te ne sei scordato?»

    Dorian sbuffò, scontento. L'argomento era già stato discusso in passato, senza mai arrivare a una soluzione.

    «Le cose stanno così, che tu lo voglia o meno» riprese Raduan «Sul campo di battaglia sei il nostro comandante, ma a parte quello non hai alcun dovere verso di noi.»

    «Lo pensi sul serio?» sospirò Dorian «Io, invece, credo di dover fare di più. Soprattutto adesso.»

    «Adesso che lui ci ha abbandonati?» si intromise Kyra, con il consueto, irritante, tempismo. Era stata in silenzio fino ad allora, giocherellando con le posate, forse in attesa dell’occasione giusta per provocarli. C'era riuscita: le parole morirono in bocca a Dorian, e le sopracciglia di Raduan si unirono in una linea severa.

    «Non dovresti dire certe cose ad alta voce» osservò Dorian, col tono paziente di chi si rivolge a una bambina.

    «Già, dovresti imparare a tener chiusa quella boccaccia!» ribadì Raduan, senza peli sulla lingua «Lui non abbandona nessuno. Mai. Lo sai bene.»

    Kyra storse le labbra.

    «Ma davvero? Perché allora è scomparso nel nulla? E che dire del messaggio che ci ha lasciato?» Non vi era più alcuna sfumatura di divertimento nella sua voce. «E intanto, da bravi fantocci, continuiamo a seguire i suoi ordini. Ogni giorno corriamo il rischio di morire, e gli rendiamo grazie per la splendida missione che ci ha affibbiato! È pura follia!»

    Raduan si curvò sul tavolo, pronto a rimbeccarla, ma Dorian lo precedette:

    «Figlia mia» disse «posso capire i tuoi dubbi, ma non stai prendendo le cose per il giusto verso. Lui non è più qui con noi, vero. Non era mai successo prima, vero anche questo. Eppure non cambia nulla.»

    Fece una pausa, per accertarsi che Kyra lo stesse davvero ascoltando.

    «La missione che ci ha affidato è troppo importante, lo capisci? Dobbiamo portarla avanti ad ogni costo, anche se possiamo contare soltanto sulle nostre forze. Anche se lui non dovesse mai più tornare!»

    Colse lo sguardo di disapprovazione di Raduan, ma lo ignorò.

    «Sarà come dici» sbottò Kyra, alzandosi in piedi «Ma non mi va di essere tenuta all'oscuro della verità, né di essere usata come un'arma contro la mia volontà! Non sono una bambola guerriera, e non voglio essere trattata come tale. Non più. Nemmeno se fosse lui in persona a ordinarmelo!»

    C’era tristezza, ora, nei suoi occhi, e Dorian non seppe cosa risponderle.

    «Spero quasi che non torni più...» concluse lei in un soffio. Poi, scavalcò la panca e si allontanò.

    «Sciocca ragazza!» commentò Raduan scuotendo il capo, quando fu lontana.

    «Eppure non mi sento di biasimarla» disse Dorian, ancora angustiato dalle parole della figlia «Lui era davvero importante per tutti noi. Perché se n'è andato? Chi siamo, senza di lui?»

    Lui, sempre lui...

    Abel, il Bianco Viandante.

    Era piombato nella sua vita come un fulmine a ciel sereno, molti anni prima, e da allora ogni cosa era cambiata. Dorian pensò agli ultimi giorni prima del loro incontro, si rivide com'era: un uomo privo di futuro, un disperato con le spalle al muro.

    Poi Abel era giunto, da lui per primo. Gli aveva donato conforto e speranza, gli aveva concesso una nuova vita e una nuova missione.

    Dal malinconico sorriso di Raduan, capì che l'amico riviveva esperienze simili dentro di sé, sondando i ricordi alla ricerca di un appiglio, un’immagine che restituisse al presente anche soltanto un briciolo della sapienza e della forza del loro salvatore.

    Era stato al loro fianco per lunghi anni, li aveva guidati con mano sicura, li aveva protetti come avrebbe fatto un padre con i propri figli. Il suo potere era speciale, colpiva dritto al cuore, apriva la mente. In sua presenza la volontà non poteva vacillare.

    Aveva scelto uno ad uno gli uomini e donne che formavano la Compagnia. Non esisteva al mondo un gruppo di combattenti più eterogeneo, né allo stesso tempo tanto unito. Nessuno di loro seguiva il Viandante per denaro, gloria o pura sete di battaglia. Lo seguivano perché li aveva salvati da una vita miserabile. Lo seguivano perché li aveva resi parte di qualcosa di grande.

    Lo seguivano perché aveva fatto di tutti loro una sola famiglia.

    «Seguimi!» aveva detto a ciascuno, accogliendolo sotto la sua ala «Sii il mio braccio e la mia forza. Insieme scacceremo le tenebre dal mondo!»

    «Com’erano saldi allora i nostri propositi» pensò Dorian «Com’era chiara l’importanza della nostra lotta...»

    Oggi, mesi dopo la scomparsa di Abel, nulla sembrava più così chiaro.

    Una confusa lettera d'addio, scarabocchiata in fretta e furia, era tutto ciò che rimaneva di lui. Dorian l'aveva letta e riletta mille volte, nella vana speranza di scovare un messaggio nascosto tra le righe, o almeno un indizio che gli permettesse di mettersi sulle tracce del Viandante. Ma non aveva avuto successo.

    Sapeva recitarla a memoria, ormai:

    Amici, fratelli,

    Devo lasciarvi.

    Non posso dirvi dove andrò, né perché, ma lo faccio per il vostro bene soltanto.

    Portate avanti la missione della Compagnia, pur senza di me, ve ne prego! È di somma importanza...

    Ho fiducia in voi e nel vostro cuore.

    Non cercate di seguirmi: non potreste arrivare dove mi porta il mio cammino.

    Non odiatemi, se potete. Conto di spiegarvi tutto, un giorno.

    Dal triste mattino in cui avevano trovato il messaggio nella tenda di Abel, le cose erano andate peggiorando sempre più. Gli uomini perdevano convinzione nella causa giorno dopo giorno, e Dorian stesso, benché fosse diventato il loro punto di riferimento, si sentiva sperduto.

    Osservò Kyra, appoggiata a una parete: beveva birra da un boccale, ridendo di chissà cosa con un uomo appena conosciuto, impegnata in uno dei suoi soliti giochi di seduzione. Come se la discussione avvenuta in precedenza non avesse avuto alcun peso. Con la coda dell'occhio, vide che Raduan la fissava a sua volta, corrucciato. Si chiese cosa gli passasse per la testa. Il divario tra i due era profondo, eppure non era sempre stato così.

    Kyra era cambiata, per il peggio. Da mesi risentiva della mancanza di Abel. Rifletteva il suo disagio su chiunque le stesse vicino, cercando in tutti i modi di tenere le distanze dai vecchi amici, di creare attorno a sé una bolla di indifferenza, quando non di aperta ostilità. Dorian ricordò con nostalgia i tempi in cui lui e sua figlia erano ancora vicini. Prima dell’incidente, che le era costato un occhio e gran parte della fede. Quel giorno qualcosa in lei si era spezzato, creando un vuoto sempre più grande. La scomparsa di Abel non aveva fatto che peggiorare le cose.

    Sapeva di non poter fare molto perché le cose tra loro tornassero com’erano prima. Se lei avesse abbassato la guardia anche soltanto per un momento... Eppure non vedeva come, non nell’immediato futuro. Si stropicciò gli occhi. Inutile rimuginare mille volte sugli stessi pensieri. Meglio prendere una boccata d’aria fresca.

    Si alzò, avviandosi verso l’uscita. Si trovava a un passo dalla soglia, quando la porta si spalancò di botto e un uomo piombò all’interno, crollando a peso morto tra le sue braccia.

    Era sudicio e coperto di lividi, talmente smagrito da assomigliare a uno spaventapasseri. Gli abiti gli pendevano addosso a brandelli, e il suo corpo emanava un lezzo acre. Balbettando qualcosa di incomprensibile, l'uomo ruotò gli occhi da un lato all’altro, la testa abbandonata all’indietro come un peso troppo grande da sostenere.

    Gli uomini della Compagnia accorsero al fianco del loro comandante, disponendosi in cerchio. Dorian, paralizzato dalla sorpresa, studiò il viso sporco e barbuto del moribondo, in cui due occhi velati di nebbia roteavano senza posa alla ricerca di un punto fisso. Finalmente, si fissarono sul comandante:

    «Dorian...» sibilò l'uomo, la voce flebile come un sussurro «Sei tu, Dorian, non è vero?»

    Dorian lo osservò esterrefatto: chi era costui? Come poteva conoscere il suo nome?

    L’uomo, in preda a forti convulsioni, mosse una mano tremante verso il suo viso. Dorian si ritrasse, turbato, e cercò di calmarlo:

    «Non agitarti, hai bisogno di cure!»

    L’uomo lo ignorò:

    «Dorian! Sei tu, lo sento! Finalmente ti ho ritrovato!»

    Qualcosa nella sua voce, forse un particolare della sua fisionomia, fece scoccare in Raduan la scintilla del riconoscimento:

    «Iarmin!» esclamò, afferrandogli una spalla.

    Allora anche Dorian capì, e lanciò un’esclamazione di sorpresa: l’uomo in pietose condizioni tra le sue braccia altri non era che Iarmin, uno di loro, un guerriero della Compagnia! Come aveva potuto non riconoscerlo? Iarmin li aveva lasciati poco dopo la scomparsa di Abel, senza preavviso alcuno... ma non era passato tanto tempo!

    Una fitta barba e un cespuglio di capelli arruffati gli celavano il volto, ma era soprattutto nel resto del corpo che il guerriero aveva subito una trasformazione impensabile. Non restava nulla, nel suo aspetto, della forza indomita che tutti ben conoscevano.

    «Che ti è successo?» chiese Dorian, attonito.

    Iarmin parve sorridere per un istante, prima di afflosciarsi tra le sue braccia, gli occhi semichiusi, la respirazione affannosa. Ghermì un lembo della giacca del comandante e volse la testa di quel tanto che bastava a fissarlo in viso.

    «Trovalo!» disse, in un rantolo «La Valle della Luna…»

    Dorian scosse il capo, provando un vago malessere. Raduan, al suo fianco, serrò i pugni. Il probabile significato di quelle parole lo turbava.

    «Trovalo! Ha bisogno di voi!» esclamò Iarmin, il viso tumefatto a una spanna da quello di Dorian. Poi tossì, e un rivolo di sangue gli sgorgò dalle labbra. Giacque inerte tra le braccia del comandante, come un fantoccio. Dorian lo scosse, temendo il peggio, ma non ottenne reazione. Adagiato in terra il corpo, gli accostò un orecchio al petto. Un’espressione di sollievo gli si dipinse sul volto.

    «È soltanto svenuto!» dichiarò «Un guaritore, presto!»

    Distesero il corpo privo di sensi su un mantello. Dorian, inginocchiato al suo fianco, scosse la testa con incredulità.

    «Che significa?» si chiese.

    «E chi può dirlo?» rispose Raduan, sovrappensiero.

    «Stava delirando» disse qualcuno, con un’alzata di spalle.

    Dorian non ne era convinto. Si sentiva ancora addosso gli occhi imploranti dell'amico, avvertiva la forza della sua disperazione. Non gli parve possibile che le sue parole fossero dettate dal delirio. Non riusciva a intravedere una risposta ai suoi dubbi, ma l'importante era che Iarmin fosse ancora in vita. Forse, grazie all’abilità dei guaritori della Compagnia, avrebbero evitato il peggio.

    Disteso in terra, Iarmin continuava incosciente. Un guaritore tastava con cautela il suo corpo malridotto, in cerca di eventuali fratture o altri danni interni. Scostò i lembi della giacchetta: una vistosa macchia di sangue inzuppava la camicia del guerriero all’altezza del petto.

    «Grande Abidan, fa' che non sia troppo tardi!» esclamò Raduan, unendo le mani in segno di preghiera.

    La testa di Kyra fece capolino al di sopra del cordone d'uomini:

    «Come avrà fatto a ridursi così?» domandò, lasciando trasparire una certa sorpresa.

    «Pare che abbia affrontato da solo un'orda di Demoni!» affermò un altro.

    «Forse non sei troppo lontano dal vero...» ribatté Raduan.

    Dorian gli rivolse uno sguardo interrogativo.

    Raduan proseguì, lisciandosi l’ispida barba nera:

    «Tutti ci ricordiamo di quanto Iarmin fosse legato ad Abel, e come sia cambiato dopo la sua scomparsa. Credo che tanto la sua partenza improvvisa, quanto il suo ritorno in queste condizioni, abbiano a che fare con il Viandante...»

    Levò una mano alla bocca, rimuginando:

    «Trovalo, ha detto. Ho la sensazione che parlasse di Abel. Ho idea che ci sia sotto qualcosa di grosso. E non chiedetemi perché, ma ho un brutto presentimento.»

    Dorian lo ascoltò con la fronte aggrottata. La sua replica fu convinta:

    «Lo credo anch'io. Iarmin ha qualcosa di importante da dirci, e spero che possa farlo quanto prima.»

    Un'esclamazione di sorpresa interruppe la conversazione. Il guaritore era balzato in piedi, e si fissava incredulo le mani imbrattate di sangue fresco.

    «Impossibile...» mormorò «Ma ho controllato più volte!»

    Girò gli occhi su Dorian, pallido in volto.

    «Comandante, Iarmin non ha alcuna ferita!»

    Tornò a guardarsi le mani.

    «Perciò questo sangue non gli appartiene!»

    Raduan e Dorian si scambiarono un’occhiata tesa.

    «C'è qualcosa di

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