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Le Sabbie Nere
Le Sabbie Nere
Le Sabbie Nere
E-book759 pagine11 ore

Le Sabbie Nere

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Info su questo ebook

"Una porta si aprì, un minuscolo riquadro intagliato nella sagoma della nave. Preceduta da un’ondata di terrore che provocò gemiti e scongiuri, ne uscì una figura avviluppata in un manto di pura oscurità. Avanzò a lenti passi cadenzati, il tempo stesso rallentò per accompagnarla.
Dove poggiava i piedi, sbocciavano fiori di tenebre."

La terra tuona al passaggio degli eserciti: uomini, bestie, creature d'osso e di metallo, crudeli condottieri e carne da macello.
Giungono dai quattro angoli del Regno, dalle selve tenebrose del Manto Verde, dalle gelide steppe del nord, da mari, montagne e deserti senza fine.
Giungono per decidere il destino del mondo e della razza umana.
Le spade cantano, le armature sanguinano, gli scudi sprizzano scintille, l'abisso dell'inferno si spalanca nel cuore del campo di battaglia.
La lotta, il coraggio, la tristezza, la forza, la paura, la luce e il buio...
E poi la fine.

Qui si conclude la grande avventura della Compagnia del Viandante! (Volume V).
Se non l'hai ancora fatto, leggi i quattro volumi precedenti della saga, "La Città degli Automi", "La Forgia del Destino", "La Fiamma Eterna" e "L'Eredità di Ys".
La raccolta dei cinque volumi è anche in vendita in un unico ebook dal prezzo davvero vantaggioso!

LinguaItaliano
Data di uscita14 lug 2014
ISBN9781311948335
Le Sabbie Nere
Autore

Francesco Bertolino

Sono nato a Ivrea la Bella, che i Romani chiamavano Eporedia.La prima cosa che ho letto è stata: "Lettera D: Dimmi Dunque Dove Devo Andare".La prima cosa che ho scritto solo io riuscivo a leggerla. Peccato, era un capolavoro: dinosauri, robot e raggi fotonici, intrecciati in un melodramma dai risvolti kafkiani...La mia infanzia è volata via come un sogno colorato.Ho fatto il Liceo Classico, mi piacevano da matti le versioni ed ero il tipo da cui copiare i temi, in cambio di una sbirciata al test di mate.Poi il grande salto: Ingegneria Informatica. Ne sono uscito senza troppi danni cerebrali.Un paio di stagioni a Torino, poi la voglia di cambiamento mi ha spinto nel mezzo della Bahia brasiliana. Tre meravigliosi anni di volontariato, dove gente scalza dagli occhi di sole mi ha insegnato a sorridere davvero.Di più ancora, ho trovato l'amore! Celene, la mia luna...Continuiamo a vivere in Brasile, su un'isola chiamata Florianópolis - che non è per nulla vicina a Paperopoli, ma in compenso vanta quarantadue spiagge, due lagune, e un imprecisato numero di discendenti italo-brasiliani con i loro dialetti insensati!Oggi vivo di software, anche se il mio sogno è quello di tanti altri: scrivere, scrivere, scrivere, e di scrittura sopravvivere.Come i Quendi, guardo spesso il mare. Chissà che Valinor non compaia all'orizzonte...​

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    Anteprima del libro

    Le Sabbie Nere - Francesco Bertolino

    Prologo

    Anasia sospirò e riaprì gli occhi celesti sul soffitto di rami intrecciati.

    «Inutile...» pensò.

    Neppure il bagno nella tiepida linfa dell’Albero dei Sogni era servito a donarle un po’ di pace.

    Si alzò di botto, innervosita, lasciando che il liquido denso le scorresse giù per la schiena, sul petto, sui fianchi e sulle cosce. Batté le mani un paio di volte.

    «Sili! Sufa!»

    Le ancelle accorsero in punta di piedi, rapide e silenziose, identiche come due petali dello stesso fiore. Anasia aprì braccia e gambe con indolenza, per farsi asciugare da morbidi panni. Riuscì a rilassarsi per qualche istante, grazie a quello strofinio intenso e ritmato, ma il piacevole momento giunse sin troppo presto alla fine. Le ancelle si ritirarono a capo chino.

    Anasia si accomodò sul bordo della vasca, inarcando il corpo sinuoso. Sana, la terza gemella, le si inginocchiò accanto per ungerle la pelle color ebano con l’olio profumato della sivarkanda. Anasia fece le fusa come una gatta, alla delicata pressione di quelle dita tra le scapole, sulla nuca, sulle spalle. Le mani di Sana erano dolci e sapienti come le labbra di un amante.

    Anche quel piacere terminò prima del dovuto.

    Per l’ennesima volta, Anasia sospirò. Si abbracciò il corpo per combattere un tremito improvviso, non certo causato dalla temperatura: era sempre estate nel Manto Verde, un’estate umida e afosa, gravida di profumi speziati.

    L’origine dei brividi era un’altra, purtroppo. Una serie di cupe premonizioni, che da tempo ormai la torturavano, e che si erano fatte strada nel labirinto della selva fino a cingere d’assedio la sua dimora.

    Sapeva come metterle a tacere, ma era proprio questa la fonte dei suoi turbamenti.

    Camminò nuda sino alla soglia della capanna, dietro di sé i passetti delle ancelle, ombre protettive ed efficienti. Scostò il drappo colorato davanti all’uscita e si abbeverò alla vista dell’intrico verde e dei suoi abitanti.

    Un obbirio gonfio di pelo venne a strofinarle il muso sulle ginocchia, mentre una serpe pallida le fasciava le caviglie in un abbraccio affettuoso. Un arara variopinto le atterrò su una spalla per mordicchiarle il lobo di un orecchio. Altri animali si approssimarono senza timore, in cerca della sua voce e delle sue carezze.

    Rasserenata dalla loro presenza, Anasia si ripeté di non voler abbandonare la quiete della foresta per nulla al mondo, neanche per un giorno o un’ora che fosse. Aveva giurato a se stessa di non farlo mai più.

    Eppure doveva.

    Un fruscio tra le fronde annunciò un’ingombrante presenza celata dal fogliame.

    «Vieni avanti» disse Anasia.

    Il Golem si fece strada tra i fusti con una delicatezza insospettabile per un gigante della sua mole. Arrestò la sagoma possente a rispettosa distanza dalla sua Signora, il volto un trapezio di pietra liscia e muta, appeso al collo il medaglione rilucente che infondeva vita nelle sue membra di roccia.

    Anasia si scostò la cascata di treccioline umide dal viso e aggrottò la fronte con disapprovazione.

    «Anche tu sei venuto a rammentarmi i miei doveri?»

    Una coscienza di pietra massiccia, proprio quel che le mancava.

    Scalciò un sassolino con l’alluce scalzo, adornato da un cerchietto d’oro. Si guardò le unghie per un pezzo, prima di rialzare il capo con aria sconfitta.

    «Va bene, mi arrendo.»

    Spazzò via i dubbi e si voltò a fronteggiare le ancelle silenziose.

    «Mia signora?» si offrì Sufa, la meno timida.

    «Faremo un viaggio» dichiarò Anasia «Un lungo viaggio. Dobbiamo prepararci alla svelta.»

    Si stupì della macchia di colore che sbocciò sul volto della piccola Sili, sempre parco di emozioni. Da quanto tempo era al suo servizio, insieme alle sorelle? Davvero le mancava tanto il mondo degli uomini?

    «Anche noi...? Voglio dire...» mormorò Sana.

    «Sì, anche voi» confermò Anasia «e tutti gli altri.»

    Le tre sorelle si guardarono spaesate. La dimora della Strega d’Ebano, nel cuore della selva, non ospitava altri esseri umani.

    Anasia sfoggiò due file di denti candidi e si concesse una risata.

    I - L’Ombra della Morte

    L’acqua torbida del Mare del Nord ribolliva ai piedi della scogliera come una creatura viva, schiumante di rabbia. I fiotti più audaci giunsero a spruzzare il volto della figura ammantata di nero, che non si sottrasse al bacio della spuma. La sua pelle glaciale era insensibile a inezie di quel tipo, mentre il suo spirito veleggiava ben distante dai comuni lidi delle preoccupazioni umane.

    Strinse le labbra brune, incorniciate da una sottile barba anch’essa corvina. Cercò di penetrare con lo sguardo la muraglia di bruma che occultava l’arcipelago delle Gemme di Inga e l’orizzonte infinito al di là di esse.

    Il suo esilio in quello squallido mondo di selvaggi era iniziato laggiù.

    Un naufragio, unico nella sua specie. Centinaia di tonnellate d’acciaio fuori controllo, piombate dal cielo sul suolo arido di un’isola, come una stella cadente. Lui e gli altri occupanti dell’aeronave erano rimasti assopiti durante il catastrofico incidente, per quanto assurdo potesse sembrare. Inconsapevoli, preservati dalle vasche di stasi in uno stato di ovattata incoscienza del tutto simile alla morte.

    Per quanto si sforzasse, Kain non rammentava nulla degli anni trascorsi nell’oblio. Neanche un sogno, un incubo, una sensazione. Il primo ricordo di quella nuova vita era l’immagine del suo gemello, ritto davanti a lui come uno specchio dai colori stinti. Nessun sollievo nel suo sguardo, né tantomeno amore. Terrore, angustia, rimorso, questo aveva letto in fondo a quegli occhi celesti.

    Abel era fuggito, quando gli aveva rivolto la parola.

    Espulse dalle narici due fili di fumo nerastro, che si arricciarono come girandole davanti al suo naso prima di disperdersi nell’atmosfera rarefatta.

    In quel giorno lontano, pur frastornato dai postumi del coma, aveva percepito l’inizio della rottura tra sé e Abel. Soltanto il risveglio dei fratelli gli aveva impedito di indugiare su quel cattivo pensiero: Shem, Caleb, Tevani, risorti come lui dalle tenebre della stasi, neonati adulti che si strappavano le maschere dal volto, tossivano e ansimavano, i polmoni avidi di ossigeno.

    Nei primi sconcertanti minuti, nessuno di loro aveva fatto caso alle vasche vuote accanto alle proprie. Erano tre, scoperchiate e invase dalla polvere: da lungo tempo non ospitavano un corpo vivo. Abel li aveva disertati senza un perché, di Anasia e Nahash non c’era traccia. Avrebbero potuto contare soltanto su loro stessi, quattro di sette.

    Ormai era rimasto solo, uno di quattro.

    Per quanto serrasse le labbra per contenerlo, non poté evitare che il nero nucleo del suo essere trasbordasse tra i denti come un alito di cenere, gonfiandosi intorno al suo capo.

    Li ricordò, uno a uno, e a ogni ricordo la nebbia dell’odio si fece più densa e vorace.

    Caleb, la montagna di metallo, il Signore degli Automi.

    Shem, che comandava gli elementi, che tramutava in Demoni le petulanti scorie umane.

    Tevani, maestra illusionista, domatrice della mente, l’algida Signora della Valle della Luna.

    Impensabile, la loro morte. Titani soverchiati dagli insetti.

    L’oscurità gli aderì al viso come una seconda pelle, la sentì formicolare sulla punta delle dita e scivolare sul resto del corpo, una veste di tenebre irrequiete.

    La colpa era di Abel, il rinnegato, e dei suoi maledetti guerrieri.

    Suo fratello l’aveva ostacolato fin dall’inizio, eppure mai, neppure per un misero istante, si era arreso all’idea di averlo perso per sempre. Impossibile scorgere un nemico nell’alleato di un’esistenza intera, nell’unico per cui avrebbe dato la sua stessa vita. Con incredulità e sdegno aveva osservato la nascita della Compagnia del Viandante, uno pseudo esercito creato con il preciso scopo di mettergli i bastoni tra le ruote. Li aveva tollerati finché era stato possibile, finché non era giunta l’ora di dare una lezione ad Abel, un duro castigo che l’avrebbe fatto ritornare in sé come una secchiata d’acqua gelida. Li aveva sterminati in blocco, per mano di Shem e delle Ombre.

    Neanche quello era bastato.

    Abel non era mai tornato al suo fianco, a occupare il posto che gli spettava di diritto. Era fuggito, si era macchiato del sangue di sua sorella Tevani. Tra i mercenari della Compagnia del Viandante, tre soltanto erano sopravvissuti, caparbi e ostinati come blatte, ma tanto era bastato per porre fine all’esistenza di Shem e Caleb.

    Non c’era perdono per un affronto simile contro la natura delle cose, contro l’inviolabile equilibrio cosmico che sanciva il dominio dei potenti sui più deboli. Per riequilibrare la bilancia, avrebbe colmato uno dei piatti con il peso di centinaia di migliaia di anime urlanti. Grazie alla loro immolazione, sarebbe ritornato al suo mondo, lasciandosi terra bruciata alle spalle.

    Quel pensiero gli donò il primo sorriso della giornata. Non si preoccupò di nasconderlo dietro una smorfia: l’abito tenebroso era ormai completo, lo avvolgeva come una torcia di nere fiamme vorticanti.

    Guardò un’ultima volta la superficie del mare torturata dalle onde, cento passi a strapiombo sotto la fragile lingua di roccia, quindi si voltò ad affrontare il suo esercito.

    Il vocio indistinto, che saturava l’aria come il ticchettio di un immenso formicaio, cessò di colpo. Innumerevoli volti si levarono a fissarlo, raggelati e sgomenti dal suo aspetto. Ma un fuoco ardeva in ogni paio d’occhi, un fuoco che tradiva esaltazione e la brama di bagnarsi nel sangue ancora caldo dei Sottomessi, i fragili popoli del Regno. Spaziò con lo sguardo sulle Cento Tribù di nome, mille di fatto, orde di barbari possenti e barbuti, alcuni glabri, dalla fronte tatuata, altri ancora bardati con le ossa strappate ai corpi dei nemici. Mastini irsuti dalla stazza di leoni scortavano una delle tribù, mentre i membri di una seconda erano seduti a cavalcioni di cinghiali elefantiaci. Erano troppe per poterle contare, le varietà di uomini e donne assiepate ai suoi piedi in attesa di un gesto o una parola. Avrebbe lasciato quel compito ai nemici terrorizzati.

    Kain temporeggiò di proposito, per tenere i guerrieri sulle spine. Luridi parassiti, come gli abitanti del Regno che avrebbero sventrato al suo comando. Quando il loro compito fosse giunto al termine, avrebbe scagliato i sopravvissuti nel calderone d’anime insieme ai vinti, olocausto necessario a riattivare la Porta dei Mondi e ad aprirgli il cammino di ritorno a casa.

    Malgrado tutto, provò un brivido d’orgoglio al pensiero di avere ai propri piedi un tale esercito, di una portata senza precedenti nelle cronache di quel mondo. Era il frutto di enormi sacrifici e pazienti manovre diplomatiche, anni di frustrazione e ira repressa, quando l’istinto gli urlava di far uso della forza bruta, di mostrare a quei pezzenti il vero volto degli Dei inclementi calati dal cielo. Invece no, si era concentrato sull’obiettivo finale, aveva resistito a ogni tentazione. Soltanto alcuni dei suoi piani erano falliti, come a Dekka, insorta contro i suoi prescelti, e nel principato di Hiram, dove l’esercito che doveva essere suo si sgretolava nell’incertezza dopo la scomparsa del sovrano.

    Sibilò un’imprecazione. Alla sua destra si stagliava un gigante di metallo cremisi: la crudele armatura Mangiauomini da lui forgiata con l’aiuto dei manàlorin. Il molosso aveva attraversato mezzo Regno, saziandosi di sangue lungo il cammino, per accorrere al suo cospetto come una falena attratta da una potente luce.

    Inamovibile e priva di fattezze, la Mangiauomini era in realtà un sarcofago chiodato dentro al quale si agitava, ancora vivo, il corpo straziato di Hiram. Kain sorrise nuovamente nel suo sudario oscuro. Il principe gli aveva fatto perdere molti soldati, ma lo stava ripagando nella giusta misura. Aveva indossato l’armatura di sua spontanea volontà, lo stolto, anticipando il corso degli eventi. Meglio così. Negli ultimi tempi, il trattenersi dal calpestare quell’arrogante scarafaggio era divenuto uno sforzo quasi insostenibile.

    Si compiacque per qualche istante ancora alla vista della corazza sanguinea del suo nuovo campione, poi si girò dal lato opposto, dove un altro utile cane attendeva una carezza del padrone.

    Crawl, lo Sciamano Supremo delle Cento Tribù, abbassò lo sguardo all’istante, gli occhi eclissati dalle folte sopracciglia grigie. Le sue labbra strisciavano l’una sull’altra come lombrichi, blaterando chissà quali preghiere alla Madre Notte. A volte Kain si sorprendeva a chiedersi se quell’ometto non avesse in fondo ragione nei suoi sproloqui, se non fosse davvero stata la Dea crudele dei Figli della Notte a causare il suo naufragio, per fare di lui il proprio emissario su quel pianeta insulso.

    Scempiaggini, che scacciò via con una vampata rabbiosa del manto di tenebre.

    Era stata in realtà una meravigliosa coincidenza, che il suo aspetto e i suoi poteri aderissero con tanta perfezione ai dettami della superstiziosa fede dei Figli della Notte. Grazie all’adorazione di quei fanatici aveva trascinato a sé reti colme di infinite schiere di barbari che popolavano le terre a nord della Catena di Hamlet - oltre a guadagnarsi la fedeltà assoluta di centinaia d’occhi e orecchie sempre all’erta lungo le strade e le città del Regno. Persino la modesta propensione all’uso delle Arti Arcane di quei corvi si era rivelata utile in qualche occasione, e ancor più lo sarebbe stata nelle battaglie a venire.

    «Attendiamo il vostro ordine» mormorò Crawl, che continuava a fissarsi i piedi.

    Kain apprezzava quell’ometto servile. Gli ricordava Shem, con il suo corpicino fragile e la mente contorta, sempre disposto alla crudeltà fine a se stessa. Crawl era docile come lui: temeva Kain ed era perfettamente conscio del privilegio di godere del suo favore, condizione che gli assicurava il potere assoluto tra i suoi consimili. Lo Sciamano sapeva che, perdendo il suo appoggio, avrebbe perso di riflesso ogni autorità tra i barbari e i Figli della Notte, per poi venir fagocitato dalle continue faide che scuotevano il formicaio delle Cento Tribù.

    Vermi insignificanti...

    Li aveva fatti friggere abbastanza nei loro roventi istinti animaleschi. Era finito il tempo della diplomazia e delle strategie occulte, finito il tempo delle razzie e delle schermaglie per sondare la resistenza del nemico. Era giunta l’ora di fare sul serio: un attacco frontale dirompente, che avrebbe spezzato la colonna vertebrale dell’esercito di Feledan.

    E se non fosse bastato, gli restava un asso nella manica. Si augurò quasi che lo obbligassero a farne uso: gli effetti disastrosi l’avrebbero ripagato di ogni penoso attimo di esilio.

    «Che abbia inizio.»

    Non servivano discorsi né spiegazioni, con quella gente. Un’immagine valeva più di mille parole.

    Lasciò che il turbine di energia nera lo avvolgesse come un tornado. Levò le braccia al cielo. Dai palmi delle mani il fumo sgorgò denso e vivo, gorgogliando e dilatandosi come un ammasso di bubboni pestilenziali. Tutti gli occhi erano puntati su di lui, la folla di guerrieri fremeva d’impazienza.

    Il fumo assunse una forma definita: un corvo colossale, le ali spalancate, gli artigli tesi, il becco aguzzo spalancato e pronto a dilaniare. Kain calò le braccia con un gesto teatrale e il corvo discese in picchiata sull’esercito, provocando urla e sconquasso, per poi rialzarsi in volo un istante prima di sfiorare le teste dei guerrieri. La sagoma fumigante scomparve verso sud, dissolvendosi come un brutto sogno sullo sfondo delle cime innevate.

    Quando l’apparizione svanì davanti ai loro occhi, i selvaggi sollevarono le armi e scossero la terra con urla di guerra. Kain li incitò con un ruggito, amplificato dal verso agghiacciante della Mangiauomini.

    La sconfinata macchina di distruzione si mise in moto.

    Le schiere si disposero in formazione per dare inizio alla marcia verso i passi montani, dove le guarnigioni dei Sottomessi fedeli a Hiram che presidiavano la zona si sarebbero gentilmente scostate per lasciarli passare. Raggiunta la cima, i selvaggi sarebbero discesi sul Regno come una valanga inarrestabile di muscoli e acciaio.

    Kain sfiatò vapore nero al pari di un calderone in ebollizione, colmo di ingredienti per un rito oscuro.

    Che il Bianco Viandante si preparasse pure, insieme al pugno di superstiti della sua Compagnia. Questa volta, non gli avrebbe riservato alcuna pietà.

    ------

    Nel Villaggio ai confini della palude di Draslund, la quiete della sera venne squarciata da un ruggito inumano.

    L’anziano Cacciatore alzò lo sguardo al cielo crepuscolare, mentre milioni di insetti del pantano si azzittivano all’unisono. I due nipoti, seduti a cavalcioni di un grosso ramo davanti alla capanna arborea, abbandonarono i soldatini di giunchi intrecciati per sondare la penombra con lo sguardo.

    «Nonno! Cos’è stato?» piagnucolò il più grandicello.

    Come rare volte nella sua vita, l’anziano non seppe cosa rispondergli. In tutti i lunghi anni della sua esistenza, inclusi i tempi in cui era ancora un vigoroso cacciatore di rettili, non aveva mai udito nulla di simile.

    I volti dei membri della tribù sorsero dalle capanne, tutti ugualmente celati dalle maschere di pelle coriacea. Alcuni stringevano lance e reti tra le mani. Nel giro di istanti gli immensi alberi brulicarono di uomini e donne, sulle piattaforme, sui rami, sulle passerelle di corda sospese nel vuoto. Risvegliata da quel ruggito, la premonizione si era impadronita di ciascuno come una pressante sensazione fisica.

    L’anziano si alzò sulle gambe traballanti, sorretto dalla giovane nuora, finché non fu in grado di reggersi da solo contro un tronco. Il ruggito nel cielo si ripeté una seconda volta, assordante e terribile. Per un istante il vecchio si persuase che il Verme Primordiale di Ilterya fosse strisciato fino a loro per distruggerli, ma rifiutò l’idea con un tremito involontario: se una tale aberrazione della natura si fosse trascinata dalla Città Morta sino al Villaggio, avrebbe divelto metà della selva al suo passaggio. Non certo un dettaglio che potesse sfuggire agli abili battitori della tribù.

    Cos’era, allora?

    Un poderoso battito d’ali squassò l’aria, una forma passò in volo radente tra le fronde, troppo rapida per distinguerne l’aspetto. Vi fu un urlo di terrore. Una lancia cadde nel vuoto ancora stretta tra le dita di una mano amputata. Il resto del corpo cui apparteneva era scomparso senza lasciare traccia.

    Un popolo meno avvezzo alle crudeltà della vita - e ai mille differenti aspetti indossati dalla morte nel suo mestiere quotidiano - sarebbe piombato nel panico. I Cacciatori, invece, agirono con disciplina innata: mentre gli adulti serravano le fila in posizione di difesa, vecchi e bambini si rifugiarono nelle casupole.

    L’anziano rifiutò il braccio della nuora e rimase fermo dov’era, aggrappato al tronco. Il suo fragile cuore batteva come un tamburo.

    «Dov’è?»

    La stessa domanda martellava nel petto di ogni figlio della tribù. Scrutarono con ansia i brandelli di cielo sempre più scuri oltre la cappa del fogliame, in assoluto silenzio, come quando facevano la posta a un jakantor.

    «Dov’è?»

    La massa vorace precipitò dritta sulle loro teste, sfasciando rami e fronde nell’impeto della picchiata. Puntò la base di un grosso ramo dov’erano accucciati alcuni Cacciatori: il ramo si spezzò con un rumore secco e rovinò su quelli sottostanti, trascinandosi dietro i poveretti in un groviglio mortale di tralci. Le loro urla si spensero molto più in basso, contro il duro suolo.

    Tutto era avvenuto in un battito di ciglia, ma un’immagine restò impressa sulla retina dell’anziano, quella di un corpo squamoso sormontato da vaste ali membranose. Lo cercò dappertutto, senza successo. Era di nuovo svanito nel nulla, fulmineo e letale come l’ombra della morte.

    I Cacciatori non rimasero ad attendere un secondo attacco: restare immobili e all’erta non sarebbe servito a nulla contro quel mostro alato, era necessario assumere una posizione meno svantaggiata. I guerrieri più esperti della tribù impartirono ordini con i tradizionali gesti e fischi adottati nella caccia. Per tutta risposta, l’intero contingente intraprese una rapida discesa verso terra, saltando di ramo in ramo, correndo lungo le serpentine di assi infisse nei tronchi, calandosi lungo le funi di emergenza. In breve, il piccolo esercito di bipedi coperti di pelli di rettile, armi in pugno, sciamò come un nugolo di insetti ai piedi delle mastodontiche radici degli alberi sacri.

    L’anziano ebbe la prontezza di afferrare per il braccio uno degli ultimi a muoversi, un giovane guerriero la cui maschera pendeva storta da un lato. Ignorò lo sguardo di sorpresa del ragazzo.

    «Non appena avrai scoperto cosa sta accadendo, devi tornare per riferirmi tutto!»

    «Come?» sbottò il giovane, ansioso di sottrarsi alla morsa del vecchio per unirsi ai compagni.

    L’anziano mollò la presa con sdegno.

    «Inventati qualcosa, smidollato! Urla, fammi dei gesti, oppure arrampicati quassù di corsa. L’importante è che mi tieni aggiornato, capito?»

    «Sì, ho capito...» disse il ragazzo, prima di lanciarsi a rotta di collo verso la fune più vicina.

    Il vecchio Cacciatore dubitava che il suo desiderio sarebbe stato esaudito, malgrado la posizione di riguardo che occupava nella gerarchia della tribù. Il massimo che potesse fare era attendere e sperare. Cercò di arrestare il tremito che dalle mani gli risaliva lungo le braccia e si diffondeva in tutto il corpo.

    «Maledetta vecchiaia!»

    I suoi figli e le sue figlie erano laggiù, e anche i nipoti, mischiati nella calca dei guerrieri. Se solo avesse avuto una decina di anni in meno, e la forza di seguirli! Con impotenza li vide allontanarsi di corsa verso il Villaggio, udì le loro voci e i loro passi farsi sempre più distanti, finché rimase solo con i singhiozzi e i sussurri degli indifesi lasciati indietro insieme a lui.

    Il tambureggiare del suo cuore segnò il passare del tempo con rintocchi via via più regolari. Proprio quando il ritmo era tornato alla normalità, un barrito fragoroso lo fece nuovamente accelerare all’impazzata. Al verso seguì un’ondata di luce diffusa, gialla e arancione, che bagnò i tronchi degli alberi sacri sotto la cupola di fronde. Al vecchio parve di sentirli crepitare, ma il suono sinistro proveniva dal lato opposto del Villaggio, trasportato fin lì dal vento.

    La nuora uscì dalla capanna con le guance rigate di lacrime. Si era tolta la maschera, un gesto inammissibile fuori dall’intimità delle pareti domestiche. Non era una donna forte, stava raggiungendo il limite.

    «Cosa succede? Cosa dobbiamo fare?» lo implorò, in cerca di guida e di rassicurazione.

    L’anziano scosse la testa, per non guardarla in faccia.

    «Non lo so. Aspettiamo.»

    Si succhiò le gengive prive di denti, mentre spiava in basso, sempre meno speranzoso di vedersi recapitare le preziose informazioni. Tanto più si sorprese quando il giovane comparve trafelato.

    Il ragazzo agitò le braccia come un ossesso, poi mise le mani a coppa intorno alla bocca e gridò:

    «Fuoco! Il Villaggio va a fuoco!»

    ------

    «Ahahah! Oggi vado a fuoco, non mi ferma nessuno!» berciò il capo villaggio Slan, imperlando di goccioline di saliva il boccale del suo avversario.

    Dopo la settima sconfitta consecutiva a Due Draghi, questi era di nuovo sobrio e ben deciso a restarlo, con l’obiettivo di salvare almeno le mutande. Si passò una mano tra i capelli sudati. Il calore alimentato dalla massa di avventori assiepati nel salone del Licantropo era insopportabile. E che dire del puzzo di corpi lerci, del frastuono di voci, delle grasse risate, del pietoso strimpellare del cantastorie più stonato del Regno? In breve avrebbe avuto un attacco, se lo sentiva.

    «Che fai, ti ritiri?» lo schernì Slan, facendo beccuccio con le labbra carnose. Il suo volto grasso, lucido di sudore, i ciuffi di pelo nelle orecchie e gli occhietti iniettati di sangue lo facevano assomigliare in tutto e per tutto a un suino. Quando grugnì una risata, la somiglianza fu completa.

    L’avversario - un disgraziato perdigiorno dalle tasche bucate - si ritrovò la parola maiale sulla punta della lingua, ma per l’ennesima volta evitò di pronunciarla ad alta voce. Slan poteva anche essere ubriaco fradicio e lento nei gesti come un ippopotamo, tuttavia le sue guardie del corpo erano pagate per supplire a quelle carenze: uomini atletici, spietati e attenti a ogni mossa, che non avrebbero esitato a inchiodargli la lingua sul tavolo con uno stiletto appuntito.

    Provò a concentrarsi sulle due carte consunte che gli restavano in mano, poi studiò sconsolato gli eserciti di cellulosa schierati tra i boccali, su un improbabile campo di battaglia cosparso di macchie d’unto e noccioli di oliva. Slan aveva messo in campo il suo Drago, protetto da una barriera di Orchi e Troll. Lui poteva contare su una carta Goblin dagli angoli slabbrati, nascosta dietro una Torre. In mano aveva altri due stupidi Goblin, che rispondevano al suo sguardo atterrito con espressione canzonatoria. Lo sfiorò il pensiero che l’artista li avesse dipinti così di proposito, per farsi beffe degli imbecilli come lui che gettavano via tempo e denaro in quel genere di svago.

    Si piantò le unghie scheggiate di una mano nella guancia.

    «Concentrati!»

    «Allora, ce la fai?» lo provocò quel porco del capo villaggio.

    «Un momento!»

    I suoi occhi scivolavano ossessivamente da una carta all’altra, quasi sperassero in un miracolo di metamorfosi improvvisa. Si accorse che gli tremavano le dita. La pila di monete accanto a sé era svanita da tempo, così come gli orecchini d’oro e la collana sgraffignata alla sua donna. In quell’ultima mano, si stava giocando persino il tetto.

    Meglio rifiutarsi di onorare il debito e poi strisciare fuori dal Licantropo con le gambe rotte, o affrontare invece la furia della sua dolce metà, nonché dei delinquenti spaccaossa che costituivano la sua famiglia?

    «Mi resta un’unica scelta...» pensò.

    Afferrò con decisione uno dei Goblin, regalando un sorriso smargiasso al suo avversario.

    «Dopo questa, ti assicuro che riderai meno!» dichiarò.

    Alzò il sedere dalla sedia per depositare la carta sulla metà opposta del tavolo, tra le fila dell’esercito nemico. Ancora una spanna e avrebbe inavvertitamente urtato il boccale pieno di limpaq. I muscoli delle sue gambe erano già tesi per scattare verso l’uscita. Chissà se una notte all’addiaccio nella palude era così terribile come la dipingevano?

    Sbam!

    La porta sbatté all’interno con tanta violenza da spingere a terra una sgualdrina e la mezza tacca avvinghiata su di lei come una piovra. Pustola, il pezzente ubriacone che passava giorno e notte sdraiato sulla soglia della locanda, rovinò all’interno con gli occhi spiritati e la bocca scardinata da un panico talmente grande che non riuscì a buttarlo fuori.

    «L-l-là f-f-f...»

    Un avventore infastidito lo afferrò per la collottola, deciso a scaraventarlo via insieme alle sue pulci, ma per sorpresa sua e di tutti gli altri il mite Pustola puntò i piedi. I suoi occhi scagliavano lampi di puro terrore.

    «Q-q-qualcuno... P-per favore!»

    Allungò un braccio implorante verso il centro della sala, dove aveva individuato Slan e i suoi. La luce del locale svelò il taglio profondo che portava sopra al gomito e il sangue che gli imbrattava la veste bucherellata. L’uomo che lo tratteneva arretrò con una smorfia di disgusto.

    Lo scagnozzo alle spalle del capo villaggio si chinò a chiedere disposizioni:

    «Che facciamo, signore?»

    Slan scatarrò sul pavimento con aria seccata e dimenò due dita grassocce verso la porta.

    «Tu e un altro, andate a dare un’occhiata. Se riuscite ad acchiappare chi ha ferito il nostro amico, sapete cosa fare. Poi date una scarica di botte pure a lui, per insegnargli che non mi piace essere interrotto durante il gioco.»

    Il giovane annuì con un sorriso truce e fece cenno a un collega calvo e tarchiato. Si aprirono il cammino fino alla porta con l’arroganza di due paladini del Re e scomparvero nella luce incerta della sera. Slan sbuffò un’imprecazione e tornò a dedicarsi alle carte.

    «Allora, dov’eravamo rimasti... Toccava a te, vero?»

    Strabuzzò gli occhi. La sedia al lato opposto del tavolo era vuota.

    I due uomini rimasti insieme a Slan compresero subito la gravità della loro distrazione, quando videro le vene gonfiarsi sul collo del capo e il suo viso tingersi della tonalità di rosso delle grandi occasioni.

    «Imbecilli! Stupidi ritardati, figli di una capra! Vi pago per fare una cosa, una cosa soltanto, e voi non ci riuscite?»

    Rovesciò il tavolo con uno scatto d’ira, scagliando una pioggia di carte, limpaq, olive e salsicciotti sulla schiena di un povero innocente, poi alzò il tono della ramanzina e continuò, continuò, continuò. Le due vittime di quell’attacco verbale senza precedenti chinarono il capo e si rassegnarono a subire. Ribellarsi a Slan equivaleva a perdere il diritto di vivere al Villaggio, e nessuno di loro aveva intenzione di tornare al Regno, dove li attendevano pesanti condanne - o peggio ancora, l’arruolamento forzato nella grande guerra tra i principati.

    Sbaaam!

    La porta sbatté di nuovo. Questa volta, con energia sufficiente a strapparla dai cardini e proiettarla sino ai piedi di Slan, falciando ogni cosa sul proprio cammino.

    Quando sfiorò i suoi alluci, Slan notò che su di essa si agitava una massa sanguinolenta e mezzo carbonizzata, che puzzava di zolfo. Il capo villaggio vi riconobbe denti sbarrati privi di labbra e occhi disciolti come cera, e balzò indietro inorridito.

    «Che diavolo succede?» urlò, con voce più acuta del normale di un’ottava.

    Le parole trillarono come una campanella nel silenzio da funerale calato sulla locanda, interrotto appena dai gemiti dei feriti. Slan si accorse di avere un centinaio d’occhi puntati addosso, occhi sbigottiti e spaventati che attendevano una degna risposta dal capo villaggio. Anche se temeva di essersela fatta addosso, Slan assunse il piglio di un vero condottiero, petto in fuori e pugni stretti sui fianchi.

    «Voi due, con me!» ordinò ai suoi scherani.

    Avanzarono a grandi passi tra due ali di ossequiosi avventori della locanda. Slan traballava per il troppo limpaq, che gli risaliva dallo stomaco come bile. Tra gli abitanti, distinse con la coda dell’occhio un gruppetto di Cacciatori. Pensò di invitarli a unirsi al gruppo, ma che figura ci avrebbe fatto? Avrebbero messo in giro la voce che il capo si affidava a quei selvaggi coperti di squame, e la sua autorità ne avrebbe risentito. Non sembravano disposti a offrirsi come volontari, per cui li lasciò perdere.

    Man mano che si approssimava al riquadro della porta scardinata, avvertì un gran calore sulla pelle. Era effetto della paura? Giunsero alle sue orecchie, dall’esterno, dei lamenti soffocati, e un altro suono che gli sembrava familiare. Era lo stesso che produceva il suo mastino, quando rodeva un osso sotto al tavolo della sala dei banchetti.

    «Sciocchezze» si disse.

    Sguainò la spada dall’elegante fodero che cingeva al fianco. La portava sempre con sé, per ostentare il potere che gli derivava da un passato di ufficiale nell’esercito del Re. Strinse l’elsa tra le dita sudate, soppesando l’arma. Si chiese se sapesse ancora usarla, o se gli sarebbe sfuggita di mano al primo affondo. Forse era meglio lasciare in testa i due guardaspalle: loro di certo non avevano problemi a maneggiare una lama.

    Mise un piede oltre la soglia e capì che avrebbe dovuto pensarci prima.

    Il mostro era curvo su un corpo umano sbrindellato: lo abbracciava con le ali membranose, vi affondava le fauci, rovistava nelle carni con avidità. Mosse il collo robusto con uno scatto secco, per strappare via un blocco di viscere, poi gettò il capo cornuto all’indietro e ingollò il tutto con un borboglio di piacere.

    Slan avvertì a malapena il fracasso di un pezzo di metallo che rimbalzava sul selciato - la sua spada.

    L’incubo, invece, ne parve indispettito. Sporse il muso imbrattato di sangue, le labbra ritratte a mettere in mostra file su file di zanne aguzze come canini. Le palpebre si chiusero e aprirono un paio di volte, con pigrizia, sugli occhi gialli a fessura. Poi il mostro inspirò a fondo e contrasse le narici.

    Il capo villaggio, in preda al primo e ultimo infarto della sua vita, si raffigurò l’assurda scena di uno sternuto colossale che sotterrava lui e la sua scorta in una montagna di muco ripugnante. In effetti qualcosa sgorgò a fiotti dalle narici della bestia, ma erano fiamme, vampate azzurre dieci volte più roventi di quelle che alimentavano la forgia di un fabbro.

    La morte di Slan fu tutto sommato rapida e dignitosa, più di quella che in tanti al Villaggio gli avrebbero augurato - e se possibile somministrato. Il calore fu troppo intenso anche solo per formulare un pensiero, tantomeno per urlare: Slan avvampò come una torcia silenziosa insieme alle sue guardie del corpo e ai disgraziati che la mala sorte aveva posto sul tragitto delle fiamme

    Nella fuga generale che seguì, uomini e donne schizzarono in ogni direzione, rifugiandosi tra le pareti della locanda o disperdendosi nei viottoli rischiarati dalle lanterne di carta colorata. Solo il rettile restò dov’era. Distolse lo sguardo dai moncherini di gambe rimasti a fronteggiarlo e annusò l’aria con fare riflessivo.

    Sbuffò ancora una zaffata di vapore, poi spinse sulle zampe possenti, sbatté le ali e si proiettò nel cielo buio sopra al Quartiere dei Piaceri. Il Villaggio rimpicciolì sotto di lui a velocità vertiginosa, inghiottito dalle tenebre insieme alle stradine butterate dagli incendi.

    ------

    Il Draken mugolò di contentezza.

    In parte specie dominante, in parte serpente, in parte Nahash.

    Era quest’ultimo che sorrideva e che stringeva a sé le briglie del controllo, da qualche parte in quell’affollato intrico di carne, ossa e anime distinte.

    La cognizione di possedere quel corpo invincibile e perfetto gli donava un’ebbrezza mai sentita prima. Era come ubriacarsi con il nettare degli Dei dopo un’esistenza intera trascorsa a sorseggiare birra tiepida. Mai più, ora che il corpo del re dei rettili era suo!

    Una scossa violenta lo fece sobbalzare senza preavviso. Un eventuale testimone avrebbe scorto la sagoma del Draken perdere il controllo a mezz’aria e avvitarsi su se stessa fin quasi a schiantarsi al suolo, prima di recuperare l’assetto.

    «Idiota, shhh!» sibilò Nahash nella mente collettiva ospitata dal corpo della bestia. Curioso come quel difetto di pronuncia fosse diventato parte di lui al punto di sopravvivere anche in forma di pensiero. «Quando ti abituerai? Per poco non ci ammazzavi tutti quanti!»

    Il Draken era stato generato - e ammaestrato - con il solo scopo di evolversi nella belva più letale di tutta Draslund, se non del mondo conosciuto. La supremazia e il controllo erano parte integrante del suo essere tanto quanto gli artigli, le zanne o le corna taglienti. Nahash comprendeva quanto traumatica doveva essere stata per il Draken la sua invasione, ma non per questo era disposto a tollerare un ammutinamento. Ormai erano una cosa sola, e come tale dovevano comportarsi.

    «Calmati» gli intimò, avvertendo ancora il riverbero delle sue onde di ostilità. Poi decise di cambiar tattica. «Non é stato divertente, shhh? Tutti quegli umani in fiamme! E quel porco fuori dalla locanda, l’hai visto? Se non avessimo esagerato con la cottura, ci avrebbe alimentati per un giorno intero, shhh!»

    Parve funzionare. Nahash sentì che l’avversione della belva si addolciva al ricordo del dilettevole massacro, tramutandosi pian piano in euforia. Era stato favoloso! Si era aspettato grandi cose da quella prima esperienza, ma non credeva che la simbiosi fosse già tanto avanzata da conferirgli poteri quasi divini. Lo stesso Barak, il Dio degli elementi adorato dagli umani, invidiava le sue fiamme.

    Di quel passo, anche le seccanti battaglie contro l’orgoglio ferito della bestia sarebbero presto cessate. Avrebbero pensato, parlato e agito all’unisono, di comune accordo, come un’ordinata assemblea di anime. Sarebbero diventati uno, come l’antico Nahash e il suo serpente.

    Il suo pensiero volò al passato, alla Città Mondo, alla metamorfosi forzata che gli aveva salvato la vita nell’incendio, cambiando per sempre la sua natura. Era stato spaventoso, poteva riviverlo a occhi chiusi. Lui che si dibatteva tra le braccia di Anasia come un fanciullo neonato, affascinato e inorridito dalle spire squamose del suo nuovo corpo... Gli sguardi stomacati dei suoi fratelli... L’istinto primitivo del serpente che lottava per il diritto all’esistenza...

    Ogni volta che ripensava a quei momenti, gli veniva un’enorme voglia di stanare Anasia dal buco in cui si era rifugiata e restituirle il favore con un paio di pinze arroventate. A freddo, però, sapeva di doverle la vita, una vita che finalmente avrebbe acquisito un senso, dopo tanti decenni buttati via a vagabondare nei panni di quel giullare maligno, per vergogna della propria duplice natura. L’abito rattoppato di pelle umana - che gli toccava rinnovare ogni poche settimane - non gli mancava affatto. Il cappello, invece...

    Sogghignò, producendo un gorgoglio di fiamme involontario.

    Il Draken avrebbe scelto il suicidio, piuttosto che farsi bardare con un berretto a sonagli su misura.

    Guardò in basso, dove la terra scorreva rapida e uniforme sotto la luce incerta delle stelle. Il letto lucente dell’Udan si snodava come una serpe abulica fino all’orizzonte, dove si intuiva già lo scintillio delle acque del Mare Interno. Il vento gli fischiava sulla pelle coriacea, trinciato dalle placche ossee dure come il ferro. Nahash dominava le correnti d’aria come se fosse nato con le ali - e lo era, in un certo senso, dato che il corpo del Draken era anche il suo. Ben altro modo di viaggiare, rispetto al lento strisciare che l’aveva condotto dalla mura di Sostar sino a casa, tra i miasmi di Draslund. Quanti duri giorni a trascinarsi nel fango, nei crepacci, sotto le rocce, sempre in fuga dai predatori e da ogni contatto umano, nutrendosi soltanto di topi e rane?

    Dorian e Kyra l’avrebbero pagata cara per quell’affronto. Li aveva sottovalutati una volta, non l’avrebbe fatto una seconda. Un vero peccato, comunque. L’avevano servito bene, anche se ignari, ed erano dotati di tutto il potenziale necessario a servirlo ancora. Ormai, però, non gli serviva più l’aiuto di nessuno, tantomeno di quei due umani presuntuosi. Li avrebbe inceneriti in tutta calma, prima la figlia e poi il padre, quindi si sarebbe dedicato a Kain e Abel.

    «Shhh! Hai visto, padre, cosa siamo diventati?» pensò «Saresti fiero di noi, per una volta?»

    Infiammò un terzo delle stelle del cielo con il suo alito rovente, e accelerò il volo verso il Mare. Da lì, avrebbe mutato rotta verso ovest, verso le grandi pianure dove la guerra era in procinto di entrare nella sua fase più devastante.

    Poveri umani, il peggio non era neanche cominciato...

    Ancora non conoscevano la furia del Draken.

    ------

    Seduto sul bordo della palafitta con le gambe penzoloni nel vuoto, Berial il pescatore masticava lentamente una foglia di tabacco. Lo spicchio di luna alto nel cielo si rifletteva nei bagliori mutevoli della corrente del fiume, che giorno e notte trasportava fango, foglie e cadaveri di creature dalla palude sino al mare. Non riposava mai, pensò Berial. Non ne aveva alcun bisogno, era il poderoso Udan, l’acqua divina che dispensava vita e morte a tutta la regione.

    Per lui, invece, la necessità di fermarsi a recuperare le forze aumentava anno dopo anno. La rete diveniva più pesante, le gambe più molli, l’acqua più fredda. Sbadigliò, si passò una mano sugli occhi e sulla fronte, dove la pelle era più grinzosa, i capelli più radi. Di frequente si trovava a pensare ai giorni passati, piuttosto che a quelli a venire. Era stata una lunga vita, monotona forse, ma una bella vita. Non era mai stato benedetto dall’amore di una donna o dal sorriso di un figlio, e gli andava bene così. Amava la sua solitudine. Se poi gli andava di conversare o di bere con qualcuno, non mancavano altri pescatori con cui farlo. Che diamine, persino il vecchio fiume Acqua Gialla era un’ottima compagnia. Le rane cantavano per il vecchio Berial, gli uccelli componevano melodie in suo onore. Che altro poteva desiderare?

    Sputò nel fiume una pallottola di tabacco masticato e sollevò un ginocchio al petto. L’ultimo anno non era stato affatto tedioso, e neanche lontanamente solitario come piaceva a lui. I soldati al lavoro sulle palizzate e sul ponte alla foce dell’Udan erano presto diventati una presenza sgradevole e ingombrante. C’era stata persino una battaglia. Lui e gli altri pescatori erano balzati in barca e avevano remato a tutta forza verso l’interno per sfuggire a quella follia. Al ritorno, malgrado il sollievo di ritrovare quasi intatte le loro baracche sulle palafitte, avevano trascorso due giorni interi a raccattare cadaveri di soldati e cavalli - ancor più spesso parti di cadaveri - per gettarli in mare. Un esercito poderoso si era aperto la strada verso ovest, calpestando l’erba rigogliosa sino a tramutarla in una distesa di poltiglia fangosa, costellata di rottami di armi e armature, viscere, escrementi e brandelli di bandiere.

    Berial non sapeva a quale dei tre principi appartenesse quell’esercito, né gli interessava. L’importante era che se ne fossero andati tutti quanti, vincitori e vinti, e che le cose fossero tornate alla normalità.

    A proposito di normalità, si rammentò l’impegno di aiutare Caril e i suoi figli, il giorno dopo, a raddrizzare i pilastri della loro abitazione. Un gran brutto sacrificio per le sue ossa. Era ora di stenderle sull’amaca.

    Quando si alzò sulle gambe anchilosate, un’ombra coprì la luce della luna. Avvertì un battito d’ali, come quello di un gigantesco pipistrello. Alzò gli occhi al cielo notturno e intuì una sagoma spaventosa che volteggiava in cerchio lassù sopra la sua testa. Congelò sul posto come un roditore sorpreso dall’arrivo di un rapace, senza poter distogliere lo sguardo dal cielo, senza neppure il coraggio di sibilare un’imprecazione.

    Ma il predatore si librava a grande altezza e non aveva notato la sua presenza, oppure non era in cerca di selvaggina, perché dopo tre o quattro giravolte sbatté le ali con decisione e si fiondò verso occidente, ignorandolo completamente.

    Berial rimase impietrito finché non cessò il tremito che gli squassava il corpo intero. Sapeva per istinto di non essere mai stato tanto prossimo alla morte - il che era tutto dire per chi aveva trascorso l’intera vita ai margini di Draslund.

    Due pensieri irrazionali gli attraversarono la mente, premonizioni sorte dal suo spirito mentre lambiva la soglia dell’altro mondo...

    Il primo era che quel mostro fosse a caccia di una preda ben più sostanziosa di un pover’uomo come lui: forse un intero esercito di soldati ignari, accampati da qualche parte nel buio silenzioso della pianura.

    Il secondo irragionevole pensiero riguardava Dorian, il guerriero taciturno che in tempi non lontani aveva traghettato fino al Villaggio, e sua figlia Kyra, cui aveva prestato lo stesso servizio.

    Si chiese cosa ne fosse stato dei due, che avevano portato un pizzico di novità nella sua vita sempre uguale.

    Si chiese se l’ombra della morte appena passata sul suo capo non fosse invece destinata a loro.

    Pregò le acque placide dell’Udan affinché portassero il suo avvertimento a padre e figlia, attraverso il mare, attraverso la pianura, attraverso le infinite leghe che separavano le loro esistenze.

    II - Mutazione

    La quiete era assoluta nella sala del trono di ossidiana, immersa nelle tenebre del colossale silo eretto dal popolo di Ys. Gli echi dei suoni della città di Sostar non potevano attraversare lo spesso strato di mura, né vi riusciva la luce del sole. Buio e silenzio, com’era stato per lunghi secoli, prima che i Quattro vi stabilissero il proprio quartier generale.

    Il ronzio del portale che prendeva vita riverberò nella sala come il brontolio di un tuono lontano. Fasci di luce bianca sfrigolarono simili a lampi tra gli stipiti di pietra istoriati con motivi di tralci di vite, sino a tessere una ragnatela luminosa che a sua volta si condensò in una superficie piatta di pura energia. Onde liquide ne corrugarono la superficie in cerchi concentrici che si dipartivano dal nucleo; due braccia tese sbocciarono con un crepitio, seguite da una testa irsuta, finché l’intero corpo di Gonzo scivolò fuori con uno schiocco liquido e piombò a peso morto sul pavimento. L’ex monaco accarezzò e baciò il suolo gelato come un naufrago scampato per un nonnulla alla tragedia.

    Dopo di lui, il portale partorì in rapida sequenza altri due esseri umani con le spade in pugno, uno dei quali stordito quanto Gonzo. Raduan fu costretto a piegarsi su un ginocchio e chinò il capo, mentre l’arma gli scivolava tra le dita: troppa la nausea e lo spaesamento, per mantenersi ritto come il suo compagno d’armi. Dorian, già preparato agli sgradevoli effetti di quel viaggio, fu l’unico dei tre a non dar segni di cedimento.

    Spronò Raduan con voce dura:

    «Rimettiti in sesto! Forse non siamo soli.»

    Di certo Kain non se ne stava annidato tra le ombre in attesa della loro comparsa, o la sua sola presenza li avrebbe fatti sudare di terrore - come Dorian rammentava del loro unico, ignominioso incontro. Niente, tuttavia, avrebbe impedito all’Oscuro di lasciare altri ad aspettarli al posto suo. Dorian cercò di scrutare nel buio oltre l’alone di luce proiettato dal portale, e con sua sorpresa ci riuscì piuttosto bene. Un altro dolce frutto della mutazione in atto nel suo corpo?

    «Raduan, in piedi!» ragliò una seconda volta.

    L’amico si drizzò malgrado il cerchio alla testa e la nausea feroce che gli mordeva lo stomaco. Gonzo non ci provò neanche.

    Il portale si spense con un gemito, lasciandoli soli nell’oscurità.

    «Mamma!» guaì Gonzo.

    Dorian lo fece tacere con parole tutt’altro che delicate, nel timore che il suo baccano mascherasse il rumore dei passi di un nemico. Una precauzione inutile: non vi fu altro segnale di vita se non il suono del loro respiro.

    Raduan trasalì. Due occhi lo spiavano dalle tenebre, occhi che effondevano una tenue luce rossastra, occhi da Demone come i tanti che l’avevano squadrato con rabbia assassina durante le battaglie della Compagnia del Viandante. Per poco non affondò la spada tra i due cerchi luminosi, prima di accorgersi che appartenevano a Dorian.

    «Che ti sta succedendo?» pensò, atterrito.

    Non c’era stato il tempo per una vera spiegazione, da quando si erano ritrovati nella Valle della Luna, ma era chiaro che qualcosa di anomalo stava accadendo al suo vecchio amico.

    La sagoma di Dorian affiorò dal buio nell’alone di luce prodotto dal suo stesso guanto. L’aura azzurrina scavò ombre profonde nel suo volto angoloso, estremamente pallido, donandogli l’aspetto di una creatura delle tenebre. Il cremisi degli occhi scemò senza svanire del tutto.

    Dorian si scrollò di dosso gli sguardi atterriti di Raduan e Gonzo senza darvi peso: la sua attenzione era tutta per quella sala dagli influssi maligni. Fece un passo verso il trono e si sporse a guardare oltre lo schienale, quasi temesse di scoprirvi seduta una figura ostile. Il pesante seggio di pietra nera era vacante.

    Raduan e Gonzo - cui il buio improvviso aveva dato la forza di scattare in piedi - seguirono Dorian nella sua ronda, occhi e orecchie tesi al minimo segnale di pericolo. Due passi davanti al trono trovarono un’arma abbandonata: un fioretto dalla lama annerita e corrosa, di cui rimaneva poco più che l’elsa. Dorian strinse le labbra al ricordo dell’orrenda fine del cacciatore di taglie Laban, che l’aveva tallonato sin lì per tutta Sostar, per poi ricevere una ricompensa ben diversa da quella che sperava. Il mucchietto di cenere accanto ai resti dell’arma era l’unica testimonianza della sua esistenza, dopo il mortale tocco dell’Oscuro.

    Un lampo di luce violenta fece trasalire tutti e tre. Si voltarono di scatto, Dorian e Raduan con le spade levate, mentre Gonzo si rattrappiva alle loro spalle.

    Il portale era di nuovo vivo. Con un lieve risucchio, le sagome di Pryce e Tasha caracollarono nella sala.

    «A-alla buon’ora!» balbettò Gonzo.

    Raduan si fece avanti per sorreggere i nuovi arrivati.

    «Tutto a posto?»

    Pryce annuì con uno spasmo, livido in volto. Tasha si sollevò sulle gambe traballanti e trovò la forza di imprecare alla moda dei pirati.

    «Le burrasche mi faranno un baffo, dopo questa piacevole esperienza...»

    Raduan le diede un buffetto e sorrise insieme a lei. Sì, era stato un tragitto davvero gradevole anche per lui: come affogare in un vortice senza fondo, fatto di colori e luce, per poi venir strizzato in un buco della serratura e infine rigonfiato a suon di calci dal lato opposto. Roba da rivoltare lo stomaco al più scafato dei lupi di mare.

    Mentre i due giovani si rimettevano in sesto, il portale sfolgorò una terza volta. Il Bianco Viandante, quando ne uscì con passo fermo, non aveva perso il suo sorriso mite, né l’equilibrio e la compostezza. Si permise un lieve sogghigno nel notare l’aspetto dei suoi compagni di traversata.

    «Suvvia, non è stato così terribile!»

    Dorian pensò a quanto il Viandante gli aveva narrato della sua Città Mondo dalla prodigiosa tecnologia, che doveva offrire mezzi di trasporto dall’effetto comparabile a quello dei portali. Per i figli del Regno, invece, avvezzi tuttalpiù al galoppo di un destriero o al rollare di uno scafo sulle onde, era un’altra storia.

    Abel alzò le mani e un caldo chiarore le avvolse, ben più acceso dell’esangue alone luminoso esalato dal guanto di Dorian.

    «Lascia fare a me» disse, con un cenno sbrigativo.

    Dorian obbedì, anche se punto nell’orgoglio, poiché la luce del Viandante era sufficiente a rischiarare i passi dell’intero gruppo.

    «Per di qua» disse. C’era una sola uscita dalla sala: il passaggio che portava alla zona centrale del silo, sormontato da un basso architrave.

    Gonzo frignò come un bambino:

    «Dobbiamo già andare? Sono così stanco!»

    Raduan incrociò le braccia sul petto, quando lo vide stravaccato sul gran seggio di ossidiana.

    «Sai a chi appartiene quel trono?»

    «Quale trono?» chiese Gonzo. Osservò meglio dove si era seduto e balzò in piedi con uno strillo di sgomento.

    «Su, non farci perdere altro tempo» lo redarguì il guerriero con aria rassegnata.

    Dorian li guidò dentro al passaggio. Raspò quasi la testa sul soffitto, come se fosse più basso della prima volta... o lui fosse cresciuto di almeno un dito. Stava cambiando, a causa della mutazione, e non riusciva a liberarsi della sensazione che il cambiamento fosse sempre più rapido.

    Una sgradita sorpresa interruppe il corso dei suoi pensieri: l’uscita del passaggio era murata da una parete di mattoni.

    Sulle prime credette a uno scherzo della vista, ma il tocco delle dita gli confermò l’esistenza di quella barriera solida e invalicabile. Si voltò ad affrontare il resto del gruppo.

    «Questa non c’era, ve lo garantisco.»

    Abel non parve troppo sorpreso:

    «Quando ha capito di non poterti seguire nella Valle, mio fratello ha adottato la soluzione più semplice: murare la sala per impedire a chiunque di uscirne, rendendo inutile l’arrivo dal portale.»

    «Perché non l’ha distrutto?» domandò Tasha.

    «Scherzi?» la rimproverò Pryce «Un portento del genere non ha prezzo!»

    «Dev’essere più o meno quel che Kain ha pensato» concordò Abel. «Il portale potrebbe ancora venirgli utile.»

    «Distruggiamolo noi, allora!» disse Tasha.

    «No. Ho fatto una promessa al Guardiano. Quando questa follia sarà giunta al termine, intendo tornare nella Valle ad aiutarlo.»

    «E noi con te» concluse Raduan «ma ora abbiamo un problema molto più concreto da affrontare.»

    Lui e Dorian provarono a investire la parete con il loro peso, senza risultato. Una grandinata di colpi con le spade servì soltanto a smussare le lame. I sei membri del gruppetto rimasero a guardarsi, imbronciati. Di tutti i pericoli che temevano di dover affrontare al loro ritorno a Sostar, quella semplice parete di mattoni si stava dimostrando il più imprevedibile ed efficace.

    Abel si fece avanti con aria risoluta.

    «Kain ha pensato a tutto, ma non sapeva del mio nuovo potere.»

    Accostò i palmi delle mani alla parete, chiuse gli occhi e si concentrò. Gradualmente, la luce che gli sgorgava dalle dita s’intensificò. Il calore crebbe di pari passo, come se Abel stesse attizzando una fornace in quello stretto spazio. Dorian, che aveva già visto quell’energia rovente all’opera contro Tevani, incitò il resto del gruppo ad arretrare.

    «Indietro, lasciamogli spazio.»

    A distanza di sicurezza, cercarono di seguire quel che accadeva in fondo al passaggio, ma il fulgore si era fatto così intenso da non potervi dirigere lo sguardo, come il nucleo incandescente di una minuscola stella. Anche a quella distanza, Dorian fu costretto a tergersi il sudore dalla fronte.

    Raduan era preoccupato.

    «Qualcosa non va. Dobbiamo fermarlo!»

    D’impulso, fece per avanzare, ma Dorian gli sbarrò il cammino con un braccio.

    «Aspetta.»

    Raduan incrociò con sospetto lo sguardo di quegli occhi tinti di rosso. Sapeva che tra Dorian e Abel le cose erano cambiate, per colpa del rinnegato Addestratore di Serpenti. Il Viandante non godeva più dell’amicizia e del rispetto incondizionato del comandante della sua Compagnia, non come una volta. Raduan decise comunque di fidarsi e non provò a forzare il braccio che lo tratteneva.

    Poco dopo, la luce si affievolì fin quasi a spegnersi. Questa volta Raduan scattò avanti.

    «Abel!»

    «Va tutto bene» rispose il Viandante, benché il tono di voce spento dicesse l’esatto contrario.

    Raduan lo sorresse per un braccio. Abel si appoggiò a lui con gratitudine.

    «Mi è costato più energia di quanto immaginassi, ma ha funzionato.»

    Il resto del gruppo era sopraggiunto e fissava lo squarcio aperto nella parete con occhi spalancati per lo stupore. Gonzo toccò il bordo del foro con le dita, là dove il mattone si era fuso come cera: le ritrasse con un gemito.

    «Scotta!» annunciò, mentre soffiava sulle dita tese davanti alle labbra.

    La cavità sfrangiata era sufficiente a consentir loro il passaggio, malgrado un certo sforzo per incunearsi nel pertugio e sbucare dal lato opposto senza ustionarsi sui bordi ancora roventi. Dorian fu il primo, Raduan e Abel chiusero la fila.

    Incapparono in un paio di cadaveri stesi al suolo di fronte alla parete, con le gole tagliate da lato a lato. Accanto ai corpi giacevano gli strumenti utilizzati per erigere quel muro in fretta e furia. Il loro ultimo giaciglio era una pozza di sangue rappreso.

    «Mostro maledetto!» inveì Tasha, toccandosi la fronte con due dita. Si udì Gonzo trattenere un conato di vomito.

    Abel storse le labbra, nauseato. Quello era lo stile di Kain, senza dubbio. Pensare che ai tempi della Città Mondo non gli causava nessuna ripugnanza. Lui e il gemello erano una cosa sola, un solo modo di pensare e agire. Intercettò lo sguardo disgustato di Dorian e capì che il guerriero glielo stava rinfacciando.

    «Kain non poteva costruire da sé il muro, né poteva lasciare testimoni dell’esistenza della sala qui nelle viscere dell’Uovo. Non c’era altro possibile finale per questi disgraziati.»

    Pryce aveva già distolto lo sguardo dai due corpi. Non era un guerriero, lui, certi spettacoli gli rivoltavano le viscere e gli facevano battere il cuore a mille. Preferì dedicare l’attenzione al mostruoso granaio lasciato ai posteri dallo scomparso popolo di Ys. Alzò il capo fino a farsi scricchiolare le vertebre del collo, e anche così non riuscì a scorgere il soffitto immerso nella semioscurità. Qualche sprazzo di luce filtrava dalle crepe che il tempo aveva scavato nelle spesse pareti di roccia dell’Uovo, abbastanza da aiutarlo a perdersi con lo sguardo nell’opprimente, aliena immensità della costruzione.

    Faceva freddo, un freddo da gelare le ossa. Si avvicinò a Tasha e le gettò un braccio intorno al collo, provando a stringerla a sé - in parte per darle calore, in parte per godere di quello di lei. La ragazza si sottrasse con un gesto infastidito. Neanche il tempo di abbassare il braccio, che Gonzo vi si era insinuato come un gatto in cerca di tepore.

    «È praticamente la stessa cosa» dichiarò, con faccia di bronzo.

    Pryce lo cacciò via con uno spintone.

    «Non credo proprio!»

    «Avete finito con le buffonate?»

    Dorian li fissava con le braccia incrociate sul petto. Nell’oscurità avvolgente del silo, i suoi occhi avevano ripreso a bruciare di tiepide fiamme rosso sangue. In quella posa, ricordava un Golem di marmo pallido.

    Gonzo schizzò via a capo chino, Pryce mormorò una scusa. Sapeva di non aver motivo di temere quell’uomo, che malgrado l’atteggiamento duro era il miglior amico di Raduan e un personaggio degno di rispetto e ammirazione. Eppure non riusciva a sentirsi a suo agio in presenza del guerriero. Non era un uomo come tutti gli altri. Forse non era neppure un uomo.

    Dorian li condusse al centro del silo, seguendo le impronte che andavano e venivano sul pavimento coperto di polvere e dei resti scrocchianti di antiche granaglie. Si fermarono accanto al massiccio pilastro centrale, che si innalzava verso il soffitto fino a perdersi nelle ombre. Dorian spiegò a tutti della piattaforma mobile che scorreva lungo il pilastro, guidata da un ingegnoso meccanismo di cinghie e pulegge. Com’era lecito immaginarsi, della piattaforma non c’era traccia: se Kain si era preoccupato di murare l’accesso alla sala del trono, con altrettanta facilità doveva aver bloccato la piattaforma in cima al granaio.

    Alla luce sempre più flebile emessa dalle mani di Abel, Pryce trovò una leva promettente e la tirò verso il basso: si udì lo scatto delle mascelle di un congegno inceppato, e null’altro. Per esacerbare lo sconforto del momento, l’alone luminoso del Viandante si affievolì e si spense del tutto. I contorni delle loro sagome sbiadirono nel perenne crepuscolo del guscio di pietra, prima che Dorian rimettesse all’opera il suo guanto.

    «Perdonatemi, ho bisogno di recuperare le forze» disse Abel.

    Raduan lo fece accomodare a terra, schiena al pilone.

    «Riposati, non abbiamo fretta» disse.

    «Proprio nessuna» ribadì Tasha, con una punta di sarcasmo.

    Se lo scavare un buco nella parete di mattoni aveva inciso tanto sulle energie del Viandante, era inutile sperare che ripetesse il miracolo con le pareti di roccia del granaio: dovevano scovare un’altra via d’uscita, oppure rassegnarsi a una lunga prigionia.

    Dorian impartì ordini secchi a ciascun membro del gruppo, Abel escluso. Non si curò del fatto che non fossero

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