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In nome dei Medici. Il romanzo di Lorenzo il Magnifico
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E-book480 pagine6 ore

In nome dei Medici. Il romanzo di Lorenzo il Magnifico

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Il libro evento di quest'anno

Autrice del bestseller I sotterranei di Notre-Dame

Roma, febbraio 1466.
Arrivato nell’Urbe per risolvere questioni di affari, il giovane Lorenzo de’ Medici si trova subito circondato da insidie senza volto. Qualcuno, infatti, ha infilato sotto la sua sella un antico pugnale dall’elsa d’argento, con uno stemma dal disegno indecifrabile. Intimorito dalla silenziosa minaccia, Lorenzo comincia così una tortuosa indagine in una città piena di segrete ombre, di antiche glorie imperiali e sinistri fantasmi fin troppo ansiosi di risorgere fra i vivi. Chi è che trama alle sue spalle? Gli stessi che ostacolano l’estrazione di allume da parte della sua famiglia sui Monti della Tolfa? Nel tentativo di scoprirlo, il suo destino incrocerà quello di uomini potentissimi, come l’enigmatico cardinale Rodrigo Borgia, e di aristocratici ambiziosi che si muovono nella Curia romana, a caccia di ricchezza e prestigio. Ma l’incontro che cambierà la sua vita sarà quello con Clarice Orsini, aristocratica creatura dalla quale emana un segreto fascino: ne sarà stregato. Preso nelle spire di questo amore, Lorenzo non si accorge che nuovi nemici si stanno per levare contro di lui, alleandosi ai vecchi per un comune intento: l’erede dei Medici deve morire.

Dopo il successo di I sotterranei di Notre-Dame, un nuovo romanzo sul personaggio simbolo della famiglia Medici

Hanno scritto dei suoi libri:

«Una studiosa che ha dedicato anni di lavoro e altre opere a questo argomento… Si legge con gusto.»
Umberto Eco

«È un libro che si beve.»
Corrado Augias

«Una studiosa “prestata” alla narrativa, come Eco, Manfredi, Barbero.»
Il Giornale

«Un thriller storico molto atteso dagli amanti del genere.»
Il Venerdì
Barbara Frale
(Viterbo, 1970) è una storica del Medioevo nota per le sue ricerche sui Templari. Autrice di varie monografie, ha partecipato a trasmissioni televisive e documentari storici su temi quali il processo ai Templari e la Sindone di Torino. Ha curato la consulenza storica per la serie I Medici. Master of Florence in onda sulla RAI ed è autrice, insieme a Franco Cardini, del saggio La congiura, sui Pazzi. Dopo il successo di I sotterranei di Notre-Dame, torna in libreria con un nuovo romanzo storico su Lorenzo il Magnifico.
LinguaItaliano
Data di uscita31 lug 2018
ISBN9788822724038
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    Anteprima del libro

    In nome dei Medici. Il romanzo di Lorenzo il Magnifico - Barbara Frale

    1. Caput Mundi

    A Roma, tutto ha un prezzo.

    Giovenale, Satire, iii, vv. 183-184

    I

    Un’upupa gridò in qualche angolo del buio. Frullo d’ali nere nel crepuscolo incombente.

    La ragazza affrettò il passo lungo il vicolo deserto. Non si curava se il fango putrido dei rioni popolari inzuppava il broccato della sua veste. Nessuno doveva sapere dove stava andando, e comunque, neppure le sue fide guardie del corpo l’avrebbero seguita fin lì.

    Oltre quella cortina di case vecchie e sbrecciate, lucide per la pioviggine sotto una luna velata, Roma cantava a squarciagola nei fasti pagani del carnevale. Ma non lì, in quel luogo deserto e temuto.

    Da chissà dove giungeva un’eco flebile di musica lontana, poco più che un rumore indistinto. Nessuno osava sfidare l’aura maledetta che gravava su quel lembo di terra al centro del fiume, dove per secoli s’era svolto l’orrido rito di sacrifici umani. Il luogo sembrava interdetto ai comuni mortali da una barriera più possente e invalicabile che mura di pietra: il ricordo degli antichi dèi che custodivano la punta dell’isola. Certi giorni – dicevano – quando il vento fischia negli intercolunni di quel tempio pagano in rovina, se ne poteva udire la voce invocare libagioni cruente per placare la loro sete.

    La ragazza procedeva attenta, un grumo di angoscia addensato nel petto. Suoni sinistri parevano emergere intorno, strisciavano nell’aria velocissimi come versi di animali notturni. Venivano dal nulla, da bocche invisibili annidate dentro le fessure della pietra, sorprendenti e minacciosi nell’oscurità via via più fitta.

    Ponte Fabricio si apriva dinanzi a lei. Lo superò, s’inoltrò nel dedalo di vicoli angusti dove la tenebra pareva risalire dal fondo della terra.

    Il fiato corto, il cuore in gola, la ragazza arrivò alla punta estrema dell’isola, nel punto in cui la pietra era stata scolpita per ricordare la prua di una nave. Il tempo sembrava sospeso. Si voltò: come immaginava, le sue guardie non l’avevano seguita. Meglio così. Meglio per loro. Forse stava mettendo la sua anima in pericolo mortale, cercando colei che Roma additava come una temibile strega.

    Dal tugurio fatiscente trapelava una fioca luce di fiamme. La porta era aperta, come se la fattucchiera stesse aspettando la sua visita. Si fece coraggio ed entrò.

    La vide seduta di spalle, lo sguardo fisso verso il camino.

    «Alla buon’ora!», mormorò senza voltarsi. «È un pezzo che non ti fai vedere, donna Clarice Orsini».

    La ragazza stornò via gli occhi. Era divisa tra la paura e un vago senso di colpa.

    «Mi dispiace. Non è facile lasciare il palazzo per venire qui», rispose sulle difensive.

    «Lo so. E so pure che quando vieni, è perché vuoi chiedermi qualcosa. Qualcosa che io sola posso dirti».

    Clarice abbassò la testa, vinta da quell’amara verità.

    «È vero», mormorò in un filo di voce. «Abbiamo lo stesso sangue, noi due. Ma il tuo dono è molto più forte del mio».

    La donna si voltò di scatto, negli occhi un miscuglio fiammeggiante di rancore e tenerezza. Aveva la stessa età di Clarice, ma non poteva dirsi altrettanto fortunata. Era nata strabica, oltre che un po’ zoppa, e nessuno capiva quale diavolo avesse malignamente ispirato chi s’era incaponito a darle il nome di Bellezze. La sorte però non era stata del tutto ingrata, con lei; i suoi occhi storti infatti potevano vedere ciò che resta invisibile a gran parte degli altri esseri umani. Poteva sondare i sentieri dell’ignoto, ed evocando le tenebre, chiedeva aiuto per chi si guadagnava la sua lealtà, o la morte dei nemici.

    «Che cosa vuoi?», chiese ruvida.

    Clarice inspirò, come se l’aria buia potesse infonderle coraggio.

    «Un sogno», sussurrò a disagio, «mi ha lasciata molto inquieta».

    «Cos’hai visto?»

    «Mi trovavo in un tempio diroccato. Davanti a me, qualcuno teneva fra le mani la testa mozza di Medusa».

    «Medusa la Gorgone?»

    «Sì. I suoi capelli erano vipere feroci, si agitavano con le fauci spalancate. Dal collo mozzato usciva sangue che qualcuno raccoglieva in una coppa. Non so cosa volesse farne, ma avevo paura. Volevo fuggire da lì, ma i miei piedi non potevano muoversi. Cercavo di gridare aiuto, ma non avevo più voce. Ti prego, aiutami. Spiegami cosa vuol dire!».

    Bellezze si alzò, gettò uno sguardo storto e svogliato alla cesta che Clarice aveva lasciato sul tavolo per lei. Frittelle dolci e due bocconi di marzapane: una prelibatezza da principi che aveva discretamente trafugato dalle cucine durante una sortita nottetempo. Anche se il tugurio era inghiottito dalle tenebre, la donna aprì un cassetto e ne trasse un sacchetto di erbe secche. Si sarebbe detto che fosse capace di orientarsi anche nel buio più impenetrabile.

    «Che cos’è?», chiese Clarice titubante, mentre lo afferrava.

    «Mandragora e stramonio. Giusquiamo. Cicuta e belladonna».

    «Le erbe delle streghe… Non posso farlo!».

    Bellezze la sferzò con lo sguardo dei suoi occhi divergenti.

    «Hai sognato vipere: perciò qualcuno a cui tieni corre un pericolo mortale. Tu soltanto puoi sapere che succederà. Cosa fare, in quale direzione procedere. Quel filtro ti darà la chiaroveggenza che desideri. Se avrai il coraggio di berlo».

    Clarice si morse il labbro con gesto febbrile. Serpenti. Veleno. Ma chi dei suoi cari poteva correre un simile pericolo?

    Si portò macchinalmente la mano alla gola, l’inquietudine le occludeva il flusso del respiro. Le sue dita incontrarono l’oro del ciondolo che indossava sempre. Il metallo era caldo, come se traesse vita e tepore dal suo stesso sangue, dal pulsare del suo battito cardiaco. Gli occhi disassati dell’altra intercettarono quel gesto; e al solito, ne seppero interpretare le segrete verità.

    «Forse è qualcuno che non conosci», suggerì. «Non ancora. Ma lo incontrerai presto, e questo incontro ti cambierà la vita».

    Clarice deglutì a fatica, e il suo sguardo si perse nella tenebra dell’incertezza.

    «Chi è? Puoi dirmelo?», bisbigliò.

    Bellezze la scrutò di traverso; pareva chiedersi se l’affetto che nutriva per lei a causa del loro legame di sangue valesse poi lo scomodo di farle quel favore.

    «Dammi le mani!», ordinò infine.

    Clarice obbedì, distese le braccia, chiuse gli occhi. Per alcuni istanti interminabili soffrì al pensiero che il calore di quei palmi stretti intorno ai suoi come artigli prepotenti altro non fosse se non il riflesso della vampa risalente dall’inferno. Provò un intenso sollievo quando il contatto smise e si ritrovò di colpo libera.

    Riaprì gli occhi. Quelli dell’altra fissi su di lei erano acuti come punte di freccia.

    «Lo sconosciuto arriva da Firenze», sentenziò Bellezze. «Attenta, Clarice. Devi vegliare su di lui. Sorveglialo. Proteggilo dai pericoli in agguato. Qualcuno lo vuole morto: ma il suo destino è legato al tuo!».

    Il falso monaco sbucò da un vicolo oscuro. Un lurido pertugio angusto, poco più che la tana di un sorcio fra i muri marci e sbrecciati della Suburra.

    Un’occhiata rapida attorno a sé, per orientarsi. Da lontano vedeva le quattro possenti colonne del tempio di Marte Ultore, ancora ostinatamente in piedi nonostante l’insulto dei secoli.

    S’inabissò dentro la folla. Teneva il cappuccio ben calato sulla faccia, e il saio nero che portava addosso era così intriso dall’odore d’incenso che nessuno avrebbe messo in dubbio la sua reale appartenenza a un qualche ordine religioso. E comunque nessuno gli badava, nel pandemonio di gente che si riversava nel centro di Roma in quella mattina di festa.

    Il vento gli gettava addosso zaffate di miseria, il tanfo di gente disperata che suda e non si lava, che ha l’alito guasto per la fame; eppure sgomitavano e si agitavano come pesci fuori dall’acqua, quei pezzenti, ostinati a non voler morire.

    Il falso monaco risalì con pazienza quella fiumana di plebaglia eccitata in attesa del grande evento. Anche per lui sarebbe stato un giorno cruciale. Era la resa dei conti.

    In lontananza, apparve il grande arco di Porta Flaminia; e sì, li vide.

    Erano proprio loro. Arrivavano a Roma boriosi come generali freschi di conquiste, con quell’aria strafottente che sembrava il loro marchio di fabbrica. Traboccavano dell’arroganza che dona il denaro. Tanto denaro, da sentirsi i padroni del mondo.

    Il falso monaco infilò la mano dentro la manica del saio, dove teneva nascosto il pugnale con l’elsa d’argento. Aveva scelto proprio quello perché portava impresso lo stemma della sua casata. Antichissima e illustre, nonostante fosse ispirata all’umile mondo dei contadini. Risaliva addirittura ai tempi in cui Roma aveva da poco cacciato Tarquinio il Superbo. Era quello dei suoi antenati, dei quali doveva riscattare il nome lavando l’offesa con il sangue del nemico. Il nemico più infame di tutti, quello che non ha onore e non conosce regole, dedito soltanto alla lurida religione del dio quattrino.

    Era ferma, la mano sul pugnale, ma nel profondo dell’anima una corda tremava. Nella sua mente, l’eco del colloquio che aveva causato la missione.

    «È necessario spargere il sangue?»

    «Sì. Per il bene di tutti».

    «Ma la mia anima immortale sarà dannata!»

    «Il Signore guiderà la tua mano. Perché sta scritto nei santi Vangeli, che sono il Verbo di Dio: è meglio se muore un solo uomo per il popolo, e non perisca tutta la nazione».

    «E sia. Che muoia un uomo soltanto. Muoia Lorenzo de’ Medici!»

    «Il suo sangue ricada su di noi. E sopra i nostri figli».

    II

    Mezzogiorno.

    Faceva spaventosamente caldo, per essere ancora d’inverno. Si sudava infagottati in quelle lane doppie, dentro quei mantelli foderati di pelliccia indossando i quali, alla partenza da Firenze, si poteva appena trovare scampo dal freddo.

    Lorenzo gettò un’occhiata a monsignor Gentile Becchi, il devoto canonico fiorentino che per anni gli aveva fatto da precettore. Appesantito dall’età e dalla gravità dei suoi pensieri, accompagnava l’allievo per vegliare su di lui nella missione commerciale che Piero de’ Medici aveva affidato al figlio. Non sarebbe stato di troppo, un uomo anziano e saggio; l’incombenza di cui dovevano occuparsi non mancava di incognite né di risvolti inquietanti.

    «Sembrate affaticato dal viaggio», gli disse Lorenzo con la gaia irriverenza che lo distingueva. «La vostra bella fronte pelata è imperlata di sudore. Dovreste essere euforico, no? Non vi esalta l’idea di visitare l’Alma Roma, così piena di monumenti e di grandiose memorie classiche?».

    Gentile Becchi non raccolse la provocazione, né si adombrò per il tono impertinente; era abituato alle intemperanze del suo facoltoso allievo. Obbedire e servir tacendo: con i Medici occorreva fare così. Gradivano una deferenza prossima alla sottomissione, ma in compenso erano generosi verso coloro che li sapevano accontentare; Gentile Becchi non conosceva nessuno tra i loro molti protetti e accoliti che non avesse fatto una carriera invidiabile. Inoltre Lorenzo, nonostante l’esuberanza, era un allievo così brillante da regalare ai suoi maestri molte soddisfazioni.

    «Perché siete tanto impensierito, monsignore?», insisteva l’erede di Piero de’ Medici.

    «Penso alla lettera di tuo zio», rispose Becchi. «Dice che ci attende subito fuori le mura di Roma, e che non dobbiamo azzardarci a entrare in città senza la sua guida. Per nessun motivo. Cosa avrà voluto dire?»

    «Che rischiamo grosso, mi sembra chiaro!».

    Chi aveva risposto era l’unico amico che Lorenzo avesse condotto con sé in quel viaggio: Roberto Malatesta, figlio naturale di Sigismondo, signore di Rimini. Era un bel ragazzo alto, nobili natali e fegato da vendere, occhi azzurri decisamente svegli e un sacco di ricci neri renitenti alla disciplina del pettine. Nonostante l’aspetto che gli dava un’aria da trovatore galante e squattrinato, la faccia incline alle smorfie buffe come un guitto sempre in cerca di donne e di guai, era piuttosto assennato; rispetto a Lorenzo, che sotto quell’aria seria da filosofo stoico celava un animo incline alle feste e ai piaceri, sembrava il perfetto contraltare.

    «Ecco lo zio. Santo cielo, che muso lungo!».

    Fermo a una trentina di passi fuori la porta, videro un uomo su una bella mula; era canuto, vestito di nero, e li guardava con gli occhi delle scolte che presidiano un confine bellicoso. Benché fossero passati anni dall’ultima volta che lo aveva visto, Lorenzo non faticò a riconoscerlo: era Giovanni Tornabuoni, fratello di sua madre e dirigente della filiale romana del Banco Medici, forse la più strategica delle loro numerose ramificazioni. La sua faccia temporalesca si aprì a una schiarita quando fu raggiunto dal nipote e dagli altri due.

    Salutò con il dovuto sussiego monsignor Becchi, rivolse un cenno d’amicizia al Malatesta, poi guardò Lorenzo allargando il braccio come per raccogliere in un sol gesto la città che stava davanti a loro e metterla ai suoi piedi.

    «Benvenuto nella città dei Cesari, figliolo! Che te ne pare?».

    Il ragazzo aggrottò la fronte e strizzò leggermente gli occhi, turbati dalla luce di quel sole incongruo che si accaniva a riscaldare l’aria. Conosceva la storia di Roma antica a menadito, ma solo dalla carta dei tanti libri studiati; trovarsi lì era tutta un’altra cosa.

    «Vista da fuori appare strana», rispose assorto, «ha un carattere imperiale, certo. Ma anche fatiscente».

    «Una fogna», sintetizzò Roberto a mezza bocca. Dava così voce ai pensieri che il suo amico, educato da Cosimo alla sottile arte della diplomazia, non avrebbe mai espresso.

    In quel punto, alte mura dall’aria maestosa e vetusta affioravano dall’erba e dalla terra della campagna circostante. I grandi conci di travertino bianco messi in posa dai Cesari si alternavano a rozzi tufelli scuri del tempo barbarico, mentre mattoni rosa nuovi di zecca rattoppavano alla meglio le brecce più recenti. Ogni tanto, in quel bailamme di stili architettonici diversi, affiorava come per caso una testa di marmo, una gamba di porfido rosso, un pezzo di bassorilievo mutilo e sbrecciato, raminghi relitti di una storia millenaria ognuno dei quali poteva dire la sua su ciò che un tempo Roma era stata.

    «Questa è Porta Flaminia», disse Tornabuoni. «Ha una storia illustre: sotto i suoi fornici passarono molti generali di Roma che tornavano vincitori dalle loro campagne militari».

    «Sempre fogna rimane», commentò Roberto. «Guardate lì. Si scarica tutto!».

    Additava un pezzo di muro sconnesso, un grumo di pietre agglutinate sormontato da un boschetto di fichi selvatici cresciuti nella terra accumulata dai secoli dentro le sue vaste crepe. Edera e gramigna vi prosperavano in un quadro di desolante abbandono che invitava lo spirito a meditare sulla caducità di qualunque gloria terrena.

    «Quello è il Muro Torto», fece Tornabuoni. «Sono quasi mille anni che si teme il crollo, eppure quel muro scalcagnato sta sempre là».

    «Questo rientra nel carattere di Roma, la Grande Babilonia», sentenziò monsignor Becchi. «Sembra sempre sul punto di finire, perché Dio vorrà sprofondarla per colpa dei suoi troppi peccati; invece resiste, perché custodisce la tomba di Pietro».

    Strano, pensò Lorenzo; suo zio Giovanni non aveva sorriso, né risposto con un cenno compiaciuto come sarebbe stato cortese fare, dopo il commento ispirato di Becchi. Anzi, la sua espressione pareva divenuta persino più tetra.

    Gettò uno sguardo rapido a Roberto, che lo ricambiò convinto: la faccenda che li aveva condotti nell’Urbe era più spinosa del previsto.

    «Entriamo, adesso. Raccomando cautela», li ammonì Tornabuoni, «tacete, lasciate fare a me».

    Dall’arco s’intravvedeva uno scorcio della piazza, un angolo della Città Eterna, e sotto quel fornice vigilato dai gendarmi, una giovane donna dall’aria attenta e predace. Se ne stava immobile, ritta in piedi, quasi fosse lì ad aspettarli. Di certo non era bella, poverina, con quegli occhi strabici; vestiva come un’umile popolana, ma la sua figura possedeva nondimeno qualcosa che denotava distinzione.

    Giovanni declinò alla sentinella le generalità di suo nipote e di chi lo accompagnava, intanto elargiva una lauta mancia perché non facesse troppe domande e non si mettesse a frugare nella vettura che Lorenzo portava con sé, carica di casse piene di mantelli e pellicce, che tuttavia occultavano nelle loro fodere un bel po’ di fiorini d’oro.

    «Avete con voi denaro?», chiese la guardia.

    «Lo stretto necessario per restare in città», rispose Tornabuoni. «Mio nipote è qui per motivi di studio, vuole vedere le rovine di Roma».

    «Allora ne avrà ben donde! Dentro quei cofani?»

    «Portiamo panni fiorentini, magari li venderemo», dichiarò Giovanni al gendarme in tono evasivo; poi gli scoccò un’occhiata che quello captò al volo, e subito dette l’ordine di farli passare.

    «Quanto denaro hai portato, Lorenzo?», chiese poi a voce bassa, cavalcando accosto a lui.

    «Diecimila fiorini, zio. E ne avremo altri, se ce ne sarà bisogno».

    «Sono una bella somma!», esclamò Tornabuoni.

    «Mio padre crede che l’appalto per l’allume della Tolfa vada sbloccato alla solita maniera, pagando lautamente chi di dovere. E si domanda perché mai non l’abbiate già fatto. Cos’è successo, zio? Sono diventati di colpo tutti incorruttibili, i funzionari della Curia Romana?».

    Giovanni scrollò la testa con vigore.

    «Il denaro apre qualunque porta, figliolo, ma stavolta la faccenda è più complicata. Ottenere in esclusiva l’appalto per cavare l’allume dai Monti della Tolfa sarebbe una vera manna, per i Medici. La filiale romana è tartassata dalle richieste di cardinali e monsignori che vogliono denaro in prestito per mantenere uno stile di vita consono al loro alto rango: ma non sono propensi a restituirlo nei tempi pattuiti, e se lo fanno, è un dramma ottenere gli interessi che ci devono. L’allume del resto è prezioso per qualunque attività. Lo si usa per conciare le pelli, per la tintoria, per le miniature e mille altre attività. Rientra persino nella preparazione di vari farmaci. Insomma, firmare quel contratto sarebbe un colpo altrettanto grosso quanto lo fu quello che riuscì a tuo nonno Cosimo, quando rese i Medici banchieri dei papi. E c’ero andato molto vicino, credimi!»

    «Qual è il problema, zio?».

    La faccia di Tornabuoni virò al rosso vinaccia. Sembrava torturato tra angoscia e vergogna.

    «Concorrenza sleale», disse evasivo.

    «Quando mai la concorrenza gioca pulito?», fece il Malatesta.

    «Roberto ha ragione, zio. In concreto, quali problemi abbiamo?».

    Attimi di bruciante esitazione, poi le labbra di Tornabuoni si mossero timidamente per articolare qualche parola pronunciata con timore.

    «Sono accaduti orribili incidenti nella zona delle miniere. Qualcuno dice che i monti sono infestati da presenze diaboliche».

    Il Becchi si fece il segno della croce. Roberto lanciò all’amico un’occhiata in allarme. Lorenzo, tuttavia, sembrava piuttosto scettico.

    «Il diavolo colleziona anime umane, non minerali», disse.

    «Chissà! In ogni caso, tuo padre ti attribuisce poteri sovrumani, nipote mio, se ti manda qui per risolvere un problema che sembra sfuggire all’umana comprensione. E deve ritenermi un emerito imbecille, se ha deciso di inviare te, che sei ancora un ragazzo, per chiudere l’appalto. Diamine! Dirigo ormai da un pezzo la filiale romana della banca, e non era mai stato scontento del mio operato».

    Tornabuoni aveva parlato con il cuore in mano, sdrammatizzando con un bel po’ d’ironia la gravità di quanto diceva; c’era comunque un sensibile risentimento, nelle sue parole, che nessuno dei presenti mancò di cogliere.

    «Siete in errore», disse Becchi. «Credetemi, Tornabuoni: l’arrivo di Lorenzo a Roma non dipende da sfiducia di messer Piero verso di voi».

    «Monsignore ha ragione, zio», confermò Lorenzo. «Le cose stanno ben diversamente da come immaginate. Di certo mio padre vi ha benedetto mille volte, quando gli avete scritto che la trattativa per le miniere ristagnava da un pezzo. Gli avete offerto un’occasione imperdibile per allontanarmi da Firenze, e lui l’ha colta al volo».

    Giovanni Tornabuoni ne fu sinceramente sorpreso.

    «Figliolo, da come parli pare che tu sia in rotta con Piero. Perché ti vuole lontano da Firenze? Che cos’hai fatto?».

    Lorenzo non rispose, e tanto Becchi quanto Roberto erano chiusi in una leale omertà. Lo zio però intuì lo stesso quale fosse la magagna. Dalle lettere allarmate di sua sorella ne sapeva abbastanza, su quella storia, per parlare con sicurezza e autorità.

    «Temo d’aver capito», disse Giovanni. «C’è di mezzo Lucrezia Donati, un’altra volta!»

    «Lucrezia Ardinghelli», precisò il monsignore con occhi severi. Aveva calcato la voce sul cognome che lei portava da sposata.

    «Figliolo, ascolta tuo zio che ha i capelli bianchi e ti vuole bene. Piero ha ragione: lontano dagli occhi, lontano dal cuore. Capisco che sia la ragazza più bella di Firenze, e che tutti le corrano dietro. Hai avuto tempo di corteggiarla e farti avanti, ma ora basta! Lucrezia è la moglie di un altro. Insistere a vederla offende la legge di Dio, ma è anche molto pericoloso. Tu non sei un giovanotto qualunque, Lorenzo. Sei l’erede dei Medici. I nemici della tua famiglia possono approfittarne per montare una faida prendendo a pretesto l’onore vilipeso di suo marito».

    Lorenzo non disse nulla; sapeva benissimo di correre un grosso rischio, ma come tutti i giovani uomini invescati in faccende di donne, se ne infischiava. Quella sonora paternale se l’era sorbita già cento volte dal Becchi, che infatti annuiva con forza approvando le parole di Tornabuoni; l’unico sollievo erano gli occhi franchi e dispiaciuti di Roberto. Per lui come per Lorenzo, giovani dal sangue caldo e gagliardo, le ragioni del cuore e dell’inguine erano le più nobili, quelle in nome delle quali combattere guerre.

    Stufo di subire la ramanzina, Lorenzo rallentò il cavallo per restare indietro di qualche passo; la donna misteriosa, che fino a quel momento era rimasta immobile a fissarli sotto l’arco, ne approfittò per accostarsi a lui. Afferrò con gesto da padrona le redini del suo cavallo, incurante delle guardie che assistevano, e che del resto non mossero un dito per farla allontanare.

    «Come vi permettete?», le chiese Lorenzo. Tanto ardire lo urtava.

    Per tutta risposta, la sconosciuta gli prese la mano sinistra con sicurezza rapace; quindi cominciò a scrutarne i segni. Lorenzo decise di lasciarla fare: per qualche incomprensibile ragione, le sentinelle continuavano a sorvegliare la scena in silenzio, come se quella popolana godesse di un’autorità invisibile, non riconosciuta da nessuna legge, eppur temuta. La rispettavano; anzi, sembravano quasi soggiogati da lei.

    «Vedo fortuna», mormorò la donna assorta, mentre i suoi occhi strabici percorrevano attenti le rotte incise sul palmo di quella mano. «Vedo quattrini e amore. Però…».

    Tacque di colpo. Il suo sguardo incongruo trafisse Lorenzo, e in quell’istante inoculò in lui il tarlo del dubbio.

    «Cosa vedi?», le chiese turbato. «Qualche pericolo?».

    La donna taceva, come in sospeso.

    «Sì, brutte cose», rispose infine. La sua voce aveva assunto un sinistro tono oracolare. «Scamperai alla morte se troverai una rosa. A cinque petali, simile a una stella».

    «Vattene!», tuonò Roberto Malatesta. Li aveva raggiunti, e intendeva allontanare la sconosciuta dal cavallo di Lorenzo assestandole scudisciate con il suo frustino per cavalli. «Va’ via. Non importunare il mio amico!».

    Giovanni Tornabuoni gli fece subito segno di smetterla; aprì la borsa e ne prese un fiorino d’oro che lanciò alla donna. Sembrava spaventato per l’irruenta reazione di Roberto, e persino le guardie che sorvegliavano la porta ora li fissavano ammutoliti, colti da qualcosa che poteva essere uno scrupolo superstizioso. La donna posò su ognuno di loro uno sguardo solenne come un decreto; pareva voler dire che intendeva graziarli tutti, per il momento. Saggiò la moneta con i denti per capire se era autentica. Convinta del fatto suo, la lasciò cadere nello scollo del corsetto e voltò loro la schiena per andare via senza dire nulla. Lorenzo notò che soffriva anche di una leggera zoppia.

    «Ma chi è?», chiese smarrito.

    «Si chiama Bellezze», rispose Tornabuoni. Lo disse in tono sommesso, sembrava fare una confidenza desiderando che restasse segreta.

    A Roberto quel nome parve grottesco.

    «Bellezze? Ma se è brutta come il diavolo!»

    «Non è il caso di nominarlo», protestò Giovanni. «Quella donna si guadagna da vivere come levatrice, ma dicono sia una strega».

    La risata di Roberto morì di colpo; ora non aveva più nessuna voglia di scherzare.

    «Sembrava fosse lì per aspettare me», disse Lorenzo. «Ha parlato di una rosa. O di una stella, non ne sono sicuro».

    «Guardati dalle zingare e dalle fattucchiere, nipote. Roma ne trabocca, spuntano fuori da ogni buco come i topi dalle fogne. Non devi indisporle e nemmeno dar loro confidenza: eviterai di incappare nella malasorte. Ma ora procediamo. Dobbiamo addentrarci in quella strada che va a destra; è la via più breve verso la nostra meta».

    Allungava il braccio davanti a sé, indicando un viale decisamente più largo dei molti vicoli angusti che sboccavano sulla piazza.

    «Dove stanno correndo tutte quelle persone?», chiese Lorenzo. Il suo sguardo era attirato da un flusso di popolo che si accalcava proprio all’imbocco di quella strada, convergendo da tante direzioni diverse.

    «Oggi è il due di febbraio», rispose Giovanni, «le domeniche del carnevale sono sempre molto animate, a Roma. Forse però è meglio non passare di là. Se restiamo ingolfati nella calca, rischiamo di farci spolpare vivi dai ladri».

    Ciò detto, spronò il cavallo per fargli cambiare direzione, e si diresse seguito dalla vettura e dagli altri verso un vicolo laterale, stretto e scomodo, che s’inoltrava nel dedalo urbano delle stradine minori sgombere dalla folla.

    Lorenzo però non li seguiva. Troppo attratto dalla confusione di uomini, suoni e voci all’imbocco del viale, si era diretto proprio lì, avido di curiosare.

    Tra monsignor Becchi e il Tornabuoni corse immediato uno sguardo apprensivo: niente come la folla è in grado di celare un’insidia. E mai come in quella Roma incline alle feste e alla violenza la ressa sa sputar fuori nemici acquattati nell’ombra, pugnali affilati che ti arrivano addosso quando meno te l’aspetti. Non li vedi nemmeno. Li senti penetrare nella carne, un dolore lancinante: ed è già troppo tardi.

    III

    Il falso monaco procedeva arrancando tra la marmaglia in attesa. Quella specie di percorso a ostacoli, faticoso come navigare controcorrente, gli garantiva l’invisibilità. Sul finire della mattinata, prima di pranzo, tutta la città era venuta ad assembrarsi lì perché si doveva correre il Palio degli storpi.

    Saranno già entrati da Porta Flaminia, pensò. Ancora un po’ di pazienza, e sarò lì con loro….

    Gli atleti coatti, tutti poveri infelici che avrebbero lottato alla disperata per guadagnarsi un pasto, intanto si mettevano sulla linea della partenza vestiti con abiti buffi e ridicoli, sì da attirare lo scherno degli spettatori. Privi di ritegno e di umana compassione, i romani non risparmiavano uova marce, sassi, palle di fango o addirittura innominabili sozzure messe da parte nei giorni precedenti proprio per avere munizioni con cui bersagliare quei malcapitati. I divieti papali contro simili crudeltà si rinnovavano ogni anno, copiosi e inutili come foglie secche in autunno.

    «Dico a te, frate!».

    Il falso religioso si fermò irrigidito: era l’unico che andasse in direzione opposta a quella che percorreva la fiumana di gente, perciò aveva dato nell’occhio.

    «Pace e bene», mormorò sguardo a terra.

    «Dicono che il papa ha in serbo parecchie novità, quest’anno. Tu sei uno di Chiesa, ne sai niente?».

    Il falso monaco cercò di mascherare il suo intenso sollievo. L’uomo che l’aveva interpellato sembrava privo di sospetti, dunque decise di saziare alla svelta la sua curiosità per toglierselo di torno.

    «So che la corsa sarà diversa dal solito», rispose imitando la calma serafica dei minoriti. «Sua Santità è un uomo morigerato. Vuole limitare sguaiatezze e volgarità».

    Era la sacrosanta verità: veneziano d’origine, Paolo Barbo detestava il carattere ridanciano dei romani, che durante il carnevale poteva facilmente trascendere in vere e proprie scelleratezze. Per secoli gli ebrei di Roma avevano subito come un’angheria l’obbligo di scegliere ogni anno alcuni tra loro per correre il palio; poiché prestavano denaro alla gente, e in ciò si rendevano utili alla collettività, papa Barbo aveva proibito che i giudei subissero ulteriori molestie. Una lodevole intenzione, prendendo la quale il pontefice aveva tuttavia fatto i conti senza l’oste: sopravvissuti a mille calamità storiche, i romani sarebbero usciti indenni anche dalle sue manie di purificazione morale. La gente s’era organizzata di rione in rione, c’erano state assemblee popolari e molte consultazioni. Spontaneamente, dal basso, poiché nessuno dei governanti si pigliava la briga di farlo, era stata messa in programma una corsa di volontari uno più infelice dell’altro. Storpi, ciechi, mutilati da campagne militari vecchie o recenti, in tanti avevano raccolto l’invito: per una cena in osteria e qualche vestito buono raccattato in giro, il premio della contesa, quei poveri disgraziati sarebbero corsi a piedi sino a Napoli.

    Il papa non poteva farci nulla: non era mica peccato, se gli storpi volevano correre! E gli stessi giudei, finalmente affrancati da quel vergognoso fardello sopportato così a lungo, avevano messo quattrini di tasca propria per pagare l’allestimento dei palchi; quindi erano venuti a gustarsi il palio degli storpi in mezzo agli altri, pronti a urlare e tirare uova marce sui concorrenti, felici di stare dall’altra parte, per una volta.

    «E poi? Che altro sai?», insisteva lo sconosciuto.

    Il falso monaco ebbe un accesso d’ira, per qualche istante fu tentato di sguainare il suo pugnale e usarlo per aprire un’asola nella pancia di quell’importuno. Pazienza, si disse. Sono vicino alla meta….

    Era nel giusto. Poco distante da lui, ignaro di tutto, Lorenzo s’era affacciato all’imbocco della grande via e il suo cavallo venne fagocitato dalla folla.

    «Che succede?», gridò Lorenzo a quelli che stavano accalcati sgomitando proprio davanti a lui. Bisognava urlare, per sperare di ottenere risposta, tant’era forte lo schiamazzo.

    «Beato te che stai a cavallo!», rispose uno sdentato, «che vedi, da là sopra?».

    Lui aguzzò la vista, ma oltre alla serrata cortina di teste in perenne oscillazione, riusciva a scorgere ben poco.

    «Eccoli!», esclamò poi. Favorito dalla sua posizione, intuiva da lontano il profilo in corsa di quelle figure ridicole e miserabili.

    «Che vedete?», gridavano quelli vicini. Cercavano di saltare in sella anche loro, per sbirciare qualcosa.

    A mano a mano che gli storpi si avvicinavano, Lorenzo distingueva sempre più dettagli e si sforzava di descriverli agli altri: sperava così che fossero in tal modo soddisfatti, che stessero un po’ più calmi e smettessero di assaltare la sua povera bestia.

    Il primo corridore era un gobbo di bruttezza oscena, con due bozze grandi come le bestie del deserto che avevano portato in groppa i Re Magi; il poveretto era anche nano, e sotto quel lubrico groppone deforme muoveva due gambette infantili secche e storte, che almeno arrancavano svelte. Un altro mancava delle gambe; stava caricato su una specie di carretta di legno munita di quattro ruote piene, con la quale avanzava di buona lena spingendo con le mani sul terreno.

    Poi c’era un uomo privo di entrambe le braccia, che forse creò un certo subbuglio fra i giudici perché non era sicuro che fosse regolare ammetterlo alla corsa. Lo spasso maggiore per il pubblico era infatti la ridda di cazzotti e ditate negli occhi che i corridori si davano l’un l’altro durante il tragitto, ma il poveraccio, gravemente minorato, non poteva competere né difendersi. Così strillava vedendosi sottratta la speranza del premio, e si rifaceva assestando agli altri calci sugli stinchi e anche sotto la cintura.

    Tutti ridevano per quello spettacolo osceno e compassionevole. Il falso monaco ne approfittò per liberarsi di quel saio bigio che aveva ben assolto al suo compito. Da quel momento in poi avrebbe recuperato la sua vera identità, al di sopra di ogni sospetto.

    «Che succede?», vociavano tutti attorno a Lorenzo.

    Cominciava a temere di essere sbalzato di sella, perché il cavallo s’innervosiva.

    «Hanno deciso di far correre tutti quelli che si sono presentati», gridò, «però a condizione che chi ha tutte e due le gambe buone, deve procedere saltando su una sola, per questione di giustizia!»

    «Bravi! Evviva er papa! Evviva er sor bargello!».

    Stordito da tutto quel caos, Lorenzo cominciò a guardarsi attorno per capire come uscire da quel marasma. Troppo tardi. Nasser, il suo purosangue, cominciò a dilatare le froge, nitriva impaurito. Scartando senza controllo aveva fatto il vuoto attorno a sé, finché s’imbizzarrì sul serio gettando il panico tra i presenti.

    «Yudu-un! Yudu-un!», gridò qualcuno.

    Facendosi audacemente largo fra gli altri, un giovane biondo dall’aria fragile e furbi occhi chiari aveva afferrato le briglie del cavallo. Tentava di carezzargli il muso per placarlo, e intanto continuava a ripetere quell’invocazione. C’era nella sua persona un fare seduttivo e ambiguo. Anche il suo sorriso accattivante ispirava ammirazione e nel contempo diffidenza.

    «Yudu-un!».

    Lorenzo lottava per non finire disarcionato, ma lo sconosciuto calmò il cavallo guidandolo fuori dall’imbocco del viale. Senza più la calca che gli insidiava i fianchi, la bestia si placò, tornò docile. Lorenzo scese con un salto e chiuse gli occhi per smaltire la paura.

    «Me la sono vista brutta!», disse allo sconosciuto. «Chiunque siate, mi trovo in debito con voi!».

    Il ragazzo che era intervenuto con prontezza per cavare Lorenzo dai guai doveva avere poco più di vent’anni, e apparteneva senza dubbio a una famiglia facoltosa. Vestiva di buon velluto cremisi decorato alle maniche e allo scollo da galloni in broccato verde squillante, preziosi per quanto vistosi. Gli tese una mano con viva cordialità.

    «Siete sul serio in debito con me» rispose. «Il che poi è singolare. Come banchiere, in genere sono gli altri a trovarsi in debito con voi. Ho davanti Lorenzo de’ Medici, o mi sbaglio?»

    «Non vi sbagliate, messere. Come sapete il mio nome?».

    Il biondino sorrise e si mise le mani sui fianchi con aria spavalda.

    «Semplice deduzione. Da un po’ si diceva in giro di voi, della vostra venuta a Roma. Ho notato quella carrozza che vi aspetta laggiù, ho visto le sei palle dello stemma sulla vostra sella. L’accento fiorentino ha fatto il resto. Rinaldo Orsini», concluse stringendogli la mano.

    «Orsini», rifletté Lorenzo, «venite da una famiglia antica e illustre. Cos’era quella parola che avete detto al mio cavallo?».

    Il ragazzo si strinse nelle spalle.

    «E che ne so?!».

    Scoppiarono a ridere all’unisono.

    «Credo sia arabo, l’ho sentito da uno stalliere saraceno che mi ha venduto Nadia, la puledra più bella della mia scuderia», disse poi il biondino, «la farò correre al palio di Piazza Navona. Ho buone speranze di vincere, specie se dovesse azzopparsi El Vicente, lo stallone del cardinal Borgia. Ah, se ne capisce di cavalli, quel maledetto valenziano!»

    «Di cavalli come di femmine», s’intromise

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