Siamo la promessa
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Anteprima del libro
Siamo la promessa - Federico Negri
Federico Negri
Siamo la promessa
UUID: 9781310619861
This ebook was created with BackTypo (http://backtypo.com)
by Simplicissimus Book Farm
Sommario
Prefazione
In marcia
L'agguato
Primo interludio
Una fortuna inaspettata
La promozione
Verità
Ringraziamenti
Prefazione
Siamo la promessa è il primo volume della saga di Promise.
Ad oggi sono usciti anche:
Cuori D’Acciaio – secondo episodio
Il Pianeta Ostile – terzo episodio
che sono reperibili in tutti i principali ebook stores.
Grazie e buona lettura.
Questo romanzo è stato ispirato
dalla canzone Hold it against me
di Britney Spears.
L’ispirazione a volte proviene da fonti
alquanto inaspettate…
In marcia
Promise, terza luna del gigante gassoso Alcione.
Sistema Stellare di Tau Ceti, Anno 2528.
Ora.
«Mamma, non piangere».
Haria scosta la testa della madre dalla spalla, quel tanto che basta per poterla guardare negli occhi chiari, pieni di lacrime. La vecchia singhiozza in silenzio e, a ogni sussulto, il mondo di Haria trema.
«Ssshh», sussurra Haria, «tornerò presto, vedrai».
La donna si ravvia dietro l'orecchio una ciocca di capelli grigi e le accenna una carezza sul viso. Il suo palmo è morbido e caldo, e fa vagare Haria lontana dalle sue certezze.
Povera inferma, cerca anche di illuderla con un sorriso, ma quasi subito strizza gli occhi, e le lacrime riprendono a scendere.
Haria ignora le tentazioni di fuga e riprende a cullarla. «Non sarà pericoloso. Il professore è pieno di premure con me ed è anche una persona estremamente prudente».
«Professore», sbuffa la madre, «bah,ne sa meno della cattedra che occupa».
Haria si irrigidisce nell'abbraccio materno e la vecchia continua: «Lo so, non vuoi sentire parlare dei tempi andati, di come era tutto più avanzato. Tu sei solo una bambina e non hai visto, non puoi capire».
«E allora», la figlia si stacca da lei, «se non posso capire cosa vuoi spiegarmii, no? Ognuno ha avuto le sue opportunità, mamma. Questa è la mia e la sfrutterò, che colpa ne ho se i tempi sono quello che sono?»
«Bambina mia», riesce ancora a borbottare la madre e si nasconde il viso tra le mani.
Haria si alza in piedi, non vuole vedere altro. «Ti farò avere mie notizie, in qualche modo».
Gira sui tacchi e si avvia fuori da quel bugigattolo pregno di odori di garze, pitali e erbe medicinali. Sale le scale a due a due ed esce in strada, dove torna a respirare. Il cielo sta virando al grigio scuro e Tau Ceti sbiadisce già dentro la plumbea coltre di nubi del gigante gassoso, Alcione. L'aria fredda del mezzo-tramonto alza le foglie da terra. Haria si copre il naso con la sciarpa e s'incammina curva, con il petto pesante, per quell'acrimonioso congedo, e gli occhi pieni di vento.
Qualche settimana lontana da sua madre. Per la povera donna sarà durissimo, dovrà farsi aiutare dai vicini e da quelle tre amiche che le restano, e che sembrano ancora più rincitrullite. Come mai lei invece si sente così leggera? Forse perché qualche settimana senza piaghe sul sedere da medicare, vasi da notte da lavare e piedi ritorti da massaggiare, aiuta il morale.
Le pastiglie di psicocola le pesano in tasca e la richiamano come un amante insaziabile. Stringe i denti e respinge il desiderio. Deve restare lucida, non è il momento. Ricaccia le lacrime, dandosi dell'egoista e dell'ingrata, e si concentra per non infilare un piede in una delle tante crepe che ormai tormentano le opere costruite dall'uomo. Le radici delle piante s'insinuano tra le smagliature, fagocitando strade, palazzi e muri.
La Città è ancora poderosa e ardita, da lontano. I due bracci dell'Antenna si scorgono a chilometri di distanza, più alti di qualsiasi edificio. E più morti delle altre due lune di Alcione. Haria ha percorso quel tragitto per anni, oramai riesce a muoversi senza una lanterna anche durante le ore più buie.
Gira un angolo e scorge la sagoma familiare dell'Università, con il suo portone di legno scuro imbullonato al muro di biocemento. Giunta nell'atrio, una grande stufa di terracotta riscalda l'ambiente e le lampade a olio spandono la loro luce morbida. Nuno, il guardiano, siede proprio davanti alla stufa, con le mani tese davanti a sé, come in adorazione di un dio dimenticato. Si volge appena, udendola entrare, e abbozza un sorriso di saluto sotto i baffi biondi, ispidi come uno spazzolino.
Haria percorre i corridoi poco illuminati sino allo studio del professor Phinner, il suo tutor e mentore. Spinge l'uscio sbeccato senza indugio, Phinner arriverà alle prime luci.
Accende la lampada a olio sullo schedario, la fiammella tremola e rivela un uomo seduto sulla poltroncina nell'angolo che la sta fissando. Haria sobbalza e va a sbattere con un gomito contro lo scaffale.
«Chi sei?» gorgoglia lei.
L'uomo non risponde e non muove muscolo. Ha una faccia squadrata, con la pelle slavata e ripiegata in rughe profonde attorno agli occhi e alle labbra. Le iridi sono metalliche, mentre i capelli biondi sono venati di grigio. Porta un paio di pesanti stivali scuri, con solide borchie di ferro a rappezzare i buchi dell'usura. In mano ha un caschetto, coperto di liso tessuto nero, e indossa un'uniforme polverosa. Un soldato o, come dicono tutti, un teschio.
Sarà una spedizione orchestrata dai militari, d'altronde. Haria riprende un po' di coraggio. «Ok, ok. Sono la dottoressa Haria Gillia. Questo è l'ufficio del professor Phinner, non puoi stare qui in sua assenza».
«Sto proprio aspettando Phinner. Arriverà a momenti, non ti preoccupare».
Si fruga nel taschino sino a estrarre una pipetta da fumo che accende con studiata lentezza, osservando Haria di sottecchi.
«Quindi sei tu la dottoressa?», il soldato stringe un poco gli occhi, come se stesse cercando di catalogarla nel suo archivio.
La bocca dello stomaco le si chiude. Non sarà mica che questo troglodita sia uno dei militari che li scorteranno là fuori? Si è immaginata qualche prestante ufficiale, interessato alle sue ricerche, con il quale discorrere di filosofia e di scienza dinanzi al fuoco del bivacco. Se quello è un deputato dei personaggi che si accompagneranno a loro, le premesse sono pessime.
«Sì», sussurra lei. «Anche tu fai parte della missione?» chiede sperando di spostare il mattone che sembra essersi materializzato sotto il suo sterno.
Il militare non pare disturbato dalla domanda e risponde convinto: «Io sono il comandante di questa missione, bambina. Piuttosto», la squadra da testa a piedi, «sei sicura di essere maggiorenne?»
Le guance le avvampano di calore. «Sono laureata».
La più giovane laureata della storia di Promise, per la precisione, ma se lo tiene per sé. Incrocia le braccia e lo fissa con lo sguardo più carico di riprovazione che le riesce di imbastire. Questo bifolco non saprà neanche cosa significhi essere laureati. Quante notti bisogna passare a studiare, con i morsi della fame che ti distruggono la concentrazione, perché i buoni pasto per gli studenti non bastano mai. Dato anche che ci hanno mangiato sia lei che sua madre.
«Sei già stata fuori la notte?» continua lui, noncurante.
«Ma che domanda è? Certo che no. È illegale andare fuori dopo il coprifuoco».
«Mi si dice che qualche figlio di papà si avventuri, di tanto in tanto...».
Haria si sforza di tenere lo sguardo fisso sul militare. I suoi amici gliene hanno raccontate a pacchi di quelle corse notturne, braccati dai teschi. Le psicocole non crescono sotto i sassi, bisogna contrabbandare le erbe da oltre il Muro. Meglio sviare il discorso, prima che l'uomo nero inizi ad elencare tutti i vizi dei figli di papà, che sono illegali. E visto che lei ne è dentro fino alle orecchie.
«Potrebbe davvero essere arrivato qualcosa dallo spazio, secondo te, comandante?»
«Questo me lo dovrai dire tu», il soldato spinge l'indice nella sua direzione, come se volesse pigiare un pulsante invisibile. «Tu e Phinner. Io ho solo il compito di portarvi avanti e indietro sani e salvi».
«Quanto dista il luogo dell'impatto, o meglio del presunto impatto?», chiede la ragazza.
«L'informazione è top-secret, lo sai». Parla masticando la pipetta, sputando parole e fumo assieme dai lati della bocca.
Haria muove un passo e appoggia i polpastrelli alla scrivania. «Io credo che sia un meteorite. Da quanto mi ha detto Phinner, solo un bambino del popolo libero ha riportato di aver visto l'oggetto rallentare in fase di discesa. È l'unico testimone diretto».
«Già. Comunque né io né te siamo qui per pontificare. Andremo fin là e cacceremo il becco dentro la buca che quell'affare avrà fatto. E torneremo indietro, vivi possibilmente».
«Non vedo quali pericoli dovremo affrontare» Haria storce la bocca in una smorfia. «Gli insediamenti del popolo libero sono sparuti, che interesse avrebbero a stuzzicarci?»
L'uomo sogghigna. «Non ho intenzione di farmi rompere le scatole da quegli straccioni. Saremo silenziosi e veloci, non si accorgeranno neanche di noi».
La porta cigola sui cardini e Phinner interrompe il loro discorrere.
Porta una giacca pesante, in contrasto con il suo solito stile ricercato. Gli occhiali sono calcati sul naso e fermati dietro la nuca con un laccetto elastico, che spunta tra i capelli color ferro. Si muove con gentilezza, come un vecchio gatto, rispettato dalle belve del Direttorio grazie alla sua infinita docilità e ubbidienza.
«Comandante», borbotta il professore e accenna un piccolo sorriso ad Haria, a mo' di saluto.
«Vi siete già presentati, vedo», aggiunge. Si gira verso la cassettiera e prende a rovistare negli schedari, ficcando di tanto in tanto nella borsa a tracolla un documento che ritiene di interesse.
Haria vorrebbe precisare che no, affatto, il buzzurro non si è presentato, ma le parole le muoiono in bocca. Preferisce non metterlo in difficoltà, povero professore. Non ha neanche l'ardire di guardare quel tizio con la riprovazione che si meriterebbe.
Il comandante si spinge sui braccioli e si mette dritto. Fissa la nuca del professore con un mezzo sorriso e scandisce «Quattro zero zero. Qui sotto, e puntuali. Volevo solo dirti che ho la conferma dalla staffetta, è positivo. Però sono molto più vicini di quello che credevamo, dovremo correre».
Phinner interrompe la sua ricerca, restando con le mani immerse dentro il cassetto. Increspa la bocca in una smorfia.
«Partiamo subito»,propone. «Non possiamo rischiare che uno di quei selvaggi accidentalmente la rovini»
«Alle quattro in punto. Prima non si può. Arrivederci professore. Dottoressa». Il militare si muove verso l'uscita con passo leggero, come se avesse le suole degli scarponi ricoperte di bambagia.
Non appena l’altro è uscito, Phinner prende a scuotere la testa come il batacchio di una campana.
«Non è possibile, non è possibile», mugugna e rimesta nel cassetto. Haria non lo riconosce,il professore è sempre molto affabile.
«Cosa