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Ti stavo aspettando: Un fantasy scritto da una esordiente assoluta. Di soli 18 anni.
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E-book258 pagine3 ore

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Info su questo ebook

Ambra, diciassette anni e testa fra le nuvole, ama scrivere, disegnare, rifugiarsi in un mondo di fantasia per fuggire dalle ombre del passato.
Lei ha un segreto, una visione che la perseguita: ha visto la sua amica del cuore inghiottita dal buio di un folto bosco.
Dieci anni dopo un'altra sparizione si verifica nello stesso luogo e Ambra, non più bambina spaventata, ma adolescente combattiva e piena di domande, si avventura nella foresta con l'amico Morgan, avvicinandosi al mistero irrisolto.
La rivelazione sarà scioccante: nella scura radura, la ragazza troverà un popolo di magici Eletti, un paio di gelidi occhi viola che le scuoteranno l'anima e una nuova se stessa.
“Il suo viso magro e scavato e i suoi gesti furtivi e rituali avevano spaventato centinaia di avventurieri e cacciatori che avevano osato inoltrarsi profondamente nel bosco nelle prime ore della notte. Erano state scritte molte leggende su di lui; alcune dicevano fosse un assassino, alcune che fosse una bestia del bosco con sembianze umane, alcune che fosse un mago eccezionale che tramava nell’ombra.”

“– Scriverò quando vivrò la mia favola! – amavo dire a chi mi chiedeva perché non coltivassi la mia passione.
In quel momento, se il fato mi avesse donato del tempo da vivere, avrei scritto la mia favola.
La storia di popoli nascosti in caverne sotterranee, di maghi e assassini, di amiche scomparse e amori impossibili.
Di futili illusioni, di desideri struggenti, di cuori d’amici spezzati, di lacrime.
Di mamme troppo impegnate per parlare della vita con la propria figlia.
E poi di te, papà. Di quanto mi hai insegnato. Di quanto la tua mente,il tuo cuore, le tue braccia siano state il mio nido, il mio porto, la mia Casa.”
LinguaItaliano
EditoreDamster
Data di uscita2 mar 2013
ISBN9788868100599
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    Anteprima del libro

    Ti stavo aspettando - Martina Podestà

    Martina Podestà

    Ti stavo aspettando

    Prima Edizione Ebook 2013 © Damster Edizioni, Modena

    ISBN: 9788868100599

    Damster Edizioni

    Via Galeno, 90 - 41126 Modena

    http://www.damster.it  e-mail: damster@damster.it

    Martina Podestà

    Ti stavo aspettando

    INDICE

    Prologo

    I

    II

    III

    IV

    V

    VI

    VII

    VIII

    IX

    X

    XI

    XII

    XIII

    XIV

    XV

    XVI

    XVII

    XVIII

    XIX

    XX

    XXI

    XXII

    XXIII

    XXIV

    XXV

    XXVI

    XXVII

    XXVIII

    XXIX

    XXX

    XXXI

    XXXII

    XXXIII

    XXXIV

    XXXV

    XXXVI

    XXXVII

    XXXVIII

    XXXIX

    XL

    XLI

    XLII

    XLIII

    XLIV

    XLV

    XLVI

    XLVII

    XLVIII

    XLIX

    L

    LI

    LII

    LIII

    LIV

    LV

    Epilogo

    Catalogo

    A voi che mi avete accompagnato

    durante questo mio viaggio nella fantasia.

    Alla mia famiglia,

    e ai miei amici di sempre.

    La terra è il giusto posto per amare:

    non so affatto come potrebbe migliorare.

    Vorrei andarmene scalando una betulla,

    e salire rami scuri lungo un tronco innevato, verso il cielo,

    fin dove l’albero non potrebbe condurmi,

    ma fosse pronto a piegare la cima e riportarmi giù.

    (Birches, Robert Frost)

    Prologo

    Il sole tramontava pigro quel pomeriggio di luglio.

    L’estate era nel pieno del suo vigore, si udiva un piacevole frinire di cicale in sottofondo; una dolce luce rosata macchiava il bosco di colori arancio-dorati e, ascoltando con attenzione, si poteva cogliere il cicaleccio di centinaia d’animali del sottobosco, il vivace cinguettio d’uccellini di montagna, il gorgoglio di un ruscello scorrere rapido e festoso in prossimità di chissà quale vallata.

    Tutto il bosco era animato da un unico, ritmico respiro vitale. Ambra e Lucia erano sedute a gambe incrociate tra la ghiaia e le sterpi di una piccola radura, all’ombra di una frondosa quercia stracolma di ghiande.

    Davanti a loro troneggiava imponente una grossa pentola di metallo annerita, probabilmente trafugata dalla cucina di una madre distratta; all’interno di essa galleggiavano mesti in due dita d’acqua fiori, foglie  profumate, funghi e bacche rosse.

    Le bambine, a turno, mescolavano con energia l’intruglio che ormai era diventato di uno strano color ocra, e vagavano per il bosco alla ricerca di qualche ingrediente segreto.

    Amavano passare intere giornate a giocare nel bosco, e quello di fare pozioni come vere streghe era uno dei loro giochi preferiti.

    Erano bambine felici. Ed erano amiche per la pelle, sebbene fossero diverse quanto il sole accecante di una giornata equatoriale e la luna timida e romantica in una notte artica.

    Ambra aveva capelli del color cioccolato fondente, lunghi fino alla vita, e grandi occhi scuri vispi e accesi, dentro ai quali si poteva leggere  un’intelligenza e una sensibilità particolari.

    Lucia era sempre stata una bambina bellissima, solare e radiosa; portava due morbide trecce sulle spalle, aveva un sorriso pieno e contagioso incorniciato da due fossette, e una miriade d’efelidi sul naso.

    Il bosco, poco lontano dalla loro casa, aveva sempre avuto una fortissima attrattiva su di loro, ma mentre Ambra ne sapeva vedere il lato oscuro, le insidie che si potevano celare nel buio del sottobosco, i rumori particolari che, quando il sole calava, la facevano sobbalzare, Lucia era spensierata, ingenua, libera da qualsiasi ragionevole paura.

    In quella giornata come tante altre, Lucia era ancora più eccitata del solito.

     Appena i colori del crepuscolo cominciarono a tinteggiare il cielo, quando le bambine avrebbero dovuto incamminarsi verso casa, Lucia con gli occhi sfavillanti di emozione disse all’amica:

    – Appena viene buio, mettiamo via tutto e andiamo a fare le esploratrici nella radura delle lucciole!

    La radura delle lucciole era uno spiazzo proprio al centro del folto bosco.

    C’era il rischio di perdersi e, se fossero tornate troppo tardi, al ritorno avrebbero ricevuto una brutta strigliata.

    Tuttavia Ambra, alla quale il coraggio certo non mancava, non si era mai tirata indietro alla proposta di una simile avventura.

    Quando un buio particolarmente denso e vischioso cominciò a scendere, Ambra con un brivido prese il suo zainetto e si incamminò verso il punto più scuro del bosco.

    Era una delle prime volte che si avventuravano così profondamente all’interno.

    Camminavano silenziose una dietro l’altra. Accanto a loro si udiva solo il fruscio della ghiaia e delle foglie, e versi di piccoli animali.

    Ambra, sebbene animosa, procedeva col cuore in gola. Sobbalzò sentendo un rumore strano molto vicino, e con un sospiro si accorse che si trattava della planata di un pipistrello.

    Camminavano ormai da mezz’ora, ed erano giunte in prossimità della radura.

    Ambra, un secondo dopo l’altro, si accorse con crescente angoscia che si sentiva stretta, avvolta in quella morsa di buio gelido… Una sensazione di panico le strinse forte la bocca dello stomaco.

    C’era qualcosa di brutto, insano e terrificante in quel posto.

    Non vedeva più, non capiva, e aveva follemente paura.

    Dovevano andarsene. Subito.

    Ambra provò a mandare giù quel maledetto nodo che le si era formato in gola, e prese per mano Lucia.

    – Andiamo Lucia. – La voce che le usciva era tremolante, niente più di un pigolio.

    – Ho paura... ti prego, ti prego torniamo a c-casa… – piagnucolò.

    Ma Lucia proseguì, sorridente, beata, con il suo vestito bianco alle ginocchia, incurante dell’amica…

    Ambra la inseguì, corse, pianse, la prese per il braccio, urlò.

    Invano.

    Qualcosa incombette su loro con violenza e straordinaria eleganza.

    Veloce come un’ombra, letale come un animale feroce, luminoso come un debole raggio di luce gelata.

    Ambra lasciò la mano di Lucia, e la vide sparire dai suoi occhi.

    Sulla bocca l’eco di un urlo sordo.

    I

    Sbadigliai con forza, stiracchiandomi per bene e sdraiandomi ancora di più sul mio banco. Guardai l’orologio. Appena le 11. Sospirai all’idea di passare altre due ore in quella gabbia di matti.

    Davanti a me c’era un foglio quasi immacolato scarabocchiato da qualche appunto distratto e molto vago e, al margine sinistro del foglio, un capolavoro al quale lavoravo dall’ora di storia: una fata snella e  leggiadra, con grandi e aggraziate ali simili a quelle di una farfalla; al suo cospetto qualche pigro gnomo barbuto con buffi cappelli in mano.

    Sorridendo alla vista del mio disegno mi accinsi a disegnare un folletto imbranato che sbucava timido dal cilindro di uno degli gnomi, il frutto di una mente folle combinata alla lettura di troppi libri.

    – … Possiamo quindi affermare che il risultato dell’esperimento fatto in laboratorio è che siamo davanti a quale tipo di legame, signorina Manni?

    Sentendomi chiamare in causa, alzai gli occhi allarmata, con un’espressione incredula, come se mi si fosse chiesto un parere sul quarto segreto di Fatima.

    Davanti a me vidi la prof dal muso rinsecchito, che con gli occhiali sospesi sul vecchio naso adunco e le labbra rugose strette in una perenne smorfia mi guardava con aria interrogativa, in attesa di una mia risposta relativa ad una qualunque diavoleria scientifica.

    Rimasi per un momento interdetta, gesticolando per prendere tempo con la mia migliore faccia da poker.

    Morgan, con violenza mi schiaffò davanti al naso gli appunti di un’ora e mezza di lezione.

    Ah, la mia ancora di salvezza!

    – Covalente polare  – dissi in un sol fiato alla De Salici.

    – Bene, Ambra. Giunti a questo punto è ovvio che un esperimento di tipo….

    Scampato il pericolo, lasciai che la voce della professoressa diventasse di nuovo un brusio, e tirai un lungo sospiro di sollievo. Feci un gran sorriso al mio fedele compagno di banco, il quale, a metà tra divertito e arrabbiato, mi tirò un allegro scappellotto dietro la testa.

     Massaggiandomi la testa, contrariata, tornai alla mia comoda posizione sdraiata, e cominciai a leggere la mia copia frusta dalle troppe letture di Orgoglio e pregiudizio, abilmente nascosta dentro al libro di chimica.

    Dopo nemmeno un minuto, Morgan mi passò un bigliettino spiegazzato, scritto nella sua calligrafia grande e scomposta. 

    Mr Mondo ti stava guardando…

    Lo lessi e sospirai.

    Proprio davanti al banco di Morgan era seduto Daniel, il  Casanova della IV C. In quest’esatto momento si stava passando una mano tra i capelli a spazzola striati di un biondo dorato.

    Le sue spalle larghe e muscolose si alzavano e si abbassavano ritmicamente sotto l’attillatissima maglietta bianca.

    Potevo quasi immaginare il suo sguardo incorniciato da folte ciglia bionde, altezzoso ed intenso, capace di mandare nel pallone persino quella vecchia zitella della De Salici. Mi concessi qualche minuto di fantasticherie tutt’altro che scolastiche prima di rispondere con sgarbo a Morgan.

    Sei matto? Starà guardando Tina Bellicapelli.

    Lanciai uno sguardo acido alla ragazza seduta dietro di me: Tina Corbelli, da me e Morgan soprannominata Tina Bellicapelli, una specie di androide cotonata con il cervello nebulizzato dai profumi nauseabondi che si metteva ogni mattina.

    Daniel purtroppo era orrendamente attratto da questa sottospecie di bellone: l’ultima sua fiamma era una sorta di top model molto bionda e molto oca, avete presente quelle con l’aria di una a cui sono stati sequestrati tutti i neuroni?

    Feci un altro sospiro. Le disgrazie che attanagliano la vita di una teenager sono davvero troppe.

    Rinunciai al mio libro, guardai il foglio che avevo davanti e ricominciai a disegnare.

    Disegnare è bello. Quasi quanto scrivere.

    È un po’ come sputare fuori briciole del proprio mondo interiore, ed il mio penso sia uno dei più popolati che esistano: streghe, fate, ibridi dalla pelle blu. 

    Per me la fantasia è l’arma migliore che abbiamo contro il grigiore della vita; non è un modo per fuggire dalla realtà, ma per crearne una nuova, parallela ma decisamente più meravigliosa.

    Non so come si possa vivere senza sognare. Forse è possibile, ma ci si ritrova un giorno aridi e marci dentro come la De Salici.

    – Sua figlia ha una fervida immaginazione. – Dicevano le maestre con la puzza sotto il naso delle mie scuole elementari a mia madre. – È sempre distratta e sulle nuvole. Dio solo sa cosa c’è in quella testa!

    Mia madre fingeva di scuotere la testa esasperata, ma appena poteva mi sorrideva e mi faceva un occhiolino di sottecchi.

    Sono sempre stata come lei. Una folle, un’artista, come amava definirci.

    Era sempre talmente solare e allegra… O perlomeno, lo era sempre stata prima dell’incidente.

    Il suono della campanella interruppe i miei pensieri, e mi fece sobbalzare.

    Salutai frettolosamente Morgan, e con la tracolla ancora aperta corsi via.

    Arrivata a casa buttai la cartella il più lontano possibile: non volevo sentir parlare di porcherie scientifiche per lo meno per tutto il fine settimana.

    Meccanicamente accesi il televisore, e vidi mamma che come sempre comunicava le notizie con la sua espressione più seria, quella da lemure arrabbiato, come diceva sempre papà quando la imitava.

    Ricordandolo scoppiai a ridere da sola, e la casa vuota echeggiò di quel rumore molesto.

    Subito dopo sentii una piccola fitta. Mi faceva sempre male pensare a lui, a quanto terribilmente mi mancava; lui più di chiunque altro era capace di farmi ridere e divertire, di prendermi in giro, di giocare con me.

    Era un bambino cresciuto. Già… Queste furono le esatte parole che mamma gli disse quando si separarono.

    Rabbrividii, ma cercai di scacciare via quei pensieri bui.

    Con una gran dose di buona volontà cominciai a cercare qualcosa da cucinare. Spaghetti, perfetto!

    Affermando che sono una gran cuoca userei un eufemismo.

    Anche dicendo che sono una cuoca lo userei.

    Mi limito a dire che produco cose abbastanza commestibili, il mio più alto risultato, culinariamente parlando, è proprio il fatto che non mi sono mai avvelenata con i miei piatti.

     Proprio mentre stavo regolando il timer - macchina infernale che non suona mai quando dovrebbe - tenevo in mano il pane da riscaldare e riempivo la pentola d’acqua da far bollire, squillò il telefono.

    Maledissi mentalmente Morgan e la sua mania di chiamare sempre nei momenti meno opportuni.

    – Morgan – risposi con voce minacciosa. – Non ci vediamo da circa cinque minuti. Ti conviene che sia molto urgente. Come minimo Daniel deve averti supplicato di chiedermi di sposarlo!

    – Scusa cara, non volevo disturbarti – esordì una voce maschile, profonda e pacata.

    Oh, maledizione! Zio Vincenzo.

    – Ehm, ciao zio. Non mi disturbi affatto… Ecco, pensavo fosse un amico, e… Ehm… Come va? – Ringraziai il cielo che lo zio non potesse vedermi paonazza.

    – Ambra... – La sua voce era tremolante, tesa. Sentii un brutto presentimento.

    – Non volevo che venissi a saperlo dal telegiornale. Ricordi Neva, quella signora che vive accanto a me…

    – Cosa le è successo? – La mia voce era stridula, avevo il cuore in gola.

    – Non lei, sua nipote… Vedi lei è… sparita. Il… Il bosco. Mi dispiace tanto…

    Lasciai cadere il telefono a terra. Avevo gli occhi sbarrati, tremavo. Il mostro che mi aveva tormentato per tanti anni si rifaceva ora vivo dentro di me, lo sentivo ricominciare a mangiarmi da dentro.

    Quei ricordi bastardi, senza bussare, tornarono a farmi visita.

    Quella notte Ambra tornò verso casa in lacrime, tremante, livida. Era un miracolo che fosse riuscita a muovere le gambe e a scappare.

    Al confine del bosco, spaventata, vide diverse macchine della polizia parcheggiate, molti uomini in divisa, e naturalmente sua madre, che con il cuore in gola corse ad abbracciarla .Il suo profumo non era mai stato così buono e rassicurante.

    C’era anche suo padre, il volto reso irriconoscibile dalla furia, che per chissà quale motivo urlava e urlava in faccia a dei poliziotti che sembravano smarriti quanto lei.

    Con una stretta al cuore vide i genitori di Lucia, l’uno accanto all’altro, con gli occhi vacui e pieni di panico, immobili e pallidi come due fantasmi.

    Ambra si sentì talmente provata da quel dolore intimo e lacerante che dovette abbassare gli occhi.

    Gli uomini in divisa cominciavano ad avvicinarsi a lei, a farle domande, a tentare di rassicurarla, a soffocarla.

    Avrebbe voluto dire troppe cose,  forse avrebbe voluto urlare, gridare a tutti che era stata una vigliacca perché non era riuscita a salvare la sua amica. Un vortice di sensazioni viscide e angosciose la travolsero come un’onda.

    – Lucia se n’è andata. – Singhiozzò con dei pesanti lacrimoni che le grondavano dagli occhi grandi e scuri come la notte. – La mia piccola Lucia... L’ombra l’ha portata via e ora vorrei essere sparita an-anch’io…

      E fu il buio.

    Accucciata per terra, con la testa tra le gambe, mi morsi forte il labbro per non piangere.

    La mattina appena trascorsa, una delle tante in quegli anni passati, piena di risa, scherzi, preoccupazioni stupide e sospiri mi sembrava talmente lontana, talmente futile.

    Sul cammino della mia vita l’ingombro di quel mistero mal celato sembrava in quel momento maledettamente importante, ingiusto, inverosimile.

    Per l’ennesima volta da quando era passata quella giornata di luglio di tanto tempo prima, sentii il desiderio ardente di risolvere quell’enigma.

    Qualcosa si mosse dentro di me.

    Forse avevo deciso.

    II

     Sarah, la Dea è in tutto quello che vedi attorno a te. – Le dissero un giorno. – Ogni forma di vita è energia, forza vitale, organo di un immenso corpo che è Gea. La Dea. La Terra. Persino tu ne fai parte. E una volta che sentirai questo potere immenso defluire tra te ed il Tutto, sarai in grado di fare qualunque cosa.

    Per anni queste parole avevano costituito per lei una sorta di mantra che si ripeteva ogni qualvolta si trovasse in difficoltà. Per questo si erano ancorate dentro di lei, più forti che mai.

    Durante il suo periodo d’Addestramento aveva imparato a distinguere il verso di ogni animale, a prevedere la direzione del vento e delle correnti, a riconoscere ogni specie vivente del bosco, a fare piccole e grandi magie.

    Ora, a diciassette primavere compiute, per lei si avvicinava il gran momento: quello in cui sarebbe entrata a far parte della Tribù per sempre.

    – Ariun navee{1}. – Disse un uomo dalla barba incolta e il volto ferino, con voce autorevole.

    L’uomo si trovava al centro di una strana formazione triangolare di uomini e donne con cappucci colorati a coprire i volti, vitrei e distanti come quelli di fantasmi.

    Portavano vesti bellissime, di tutti i colori presenti in natura. Gli uomini più anziani portavano bastoni elaborati di legno scuro per accompagnare la loro camminata. Le donne erano

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