La vita del sempre
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Anteprima del libro
La vita del sempre - Simona Calderone
COMMEDIA
IL VARIETÀ
Il portone era aperto ma avevo voluto, suonando, fare l’educata.
L’elegante sala d’aspetto era piena di persone in attesa di spalancare le fauci con molto timore o quasi, di sedersi su una comodissima poltrona da cui la loro prospettiva dal basso avrebbe visto le deformità frutto di un punto di vista insolito, in cui dettagli e imperfezioni vengono alla luce. Agli occhi dei pazienti di un odontoiatra fa inorridire, prima del trapano, l’idea di vedere da vicino le mani palmate di lattice e gli occhi fissi di un estraneo che scruta dentro la tua sempre imperfetta bocca, salvo rarissime eccezioni. Ad alcuni il viso del dottore appare gigantesco e brutto, alterato, opprimente. Sensazione diversissima da quella che provavo io, seduta su poltroncine in pelle intonate alle tappezzerie e alle tinte dei muri. Tinte calde, pastello, arricchite ed ornate da lampadari essenziali e moderni, valorizzate e vive dalle piante poste agli angoli, da faretti senza neon e dunque generatori di una luce meno fredda; il tutto prima della dipartita, prima dell’entrata nel piccolo corridoio e nella sala prescelta dal boia.
Per ingannare l’attesa, la mia attenzione cadeva sulle riviste appoggiate in modo ordinato su un tavolino che diventava punto focale e pieno di un pavimento, i cui contorni comodi e spaziosi ospitavano sempre nuovi arrivati, al suono del campanello. Non potevo sbagliare: tra il gossip, la scienza e la psicologia la mia mano scelse quest’ultima che in un certo senso, in alcune pagine, diventava il risultato delle altre due. Prima rubrica: lettere dei lettori a cui rispondeva la tizia famosa che lavorava presso una conosciuta università.
Nel numero conservato dal dentista c’erano due lettere, per par condicio una di una casalinga e un’altra di un quadro che lavorava nella G(rande) D(istribuzione) O(rganizzata).
La prima, in sintesi, era la storia di una donna di casa che, in preda ad attacchi di pentimento, non riusciva a capacitarsi di avere ancora, dopo mesi, una relazione con un compagno di scuola del figlio adolescente. La seconda, che riportava, invece, l’esperienza virile, descriveva la sua incapacità di gestire l’inaspettata gravidanza dell’amante di sempre e di non riuscire a trovare una via di scampo. La risposta della celebre studiosa, per farla breve, iniziava con cara lettrice/caro lettore.... la psicologia ci insegna....bla bla bla. Vedrà (rivolta ad entrambi) che una volta messe a fuoco... Etc... Etc...
Ora, in tutta onestà, cara dottoressa: come si fa a rispondere così? Sa che cosa direi io ai cari lettori, cominciando dalla prima lettera?
Gentile e insoddisfatta signora, prima di rompere le gonadi con la sua inutile lettera, e prima di dire che non dorme perché il suo super io la castiga e la fa sentire nella morsa del peccato, non poteva pensarci? E comunque alla fine ha trovato una gratificazione anche di tipo sessuale, lei che probabilmente non viene più sfiorata da un marito a cui duole la prostata, ha conosciuto un giovane amante ben fornito e ancora si lamenta? Se poi ci tiene tanto a sé stessa e a suo figlio perché non termina la relazione e smette di raccontare la storia a tutti tramite un giornale?
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E lei grandissimo, nobile signore dai tratti suini, non sa come si generano i figli? Ora si meraviglia della brutta sorpresa di un bambino illegittimo, come se lei in quel letto non ci fosse mai stato, vero? E ora non ha la soluzione? Ora ricerca un parere psicologico? perché piccolo e vile essere non ti assumi le responsabilità, per una volta nella vita?
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Crudele? No. Io mi diverto sempre con le lettere idiote dei lettori e sempre cerco di immaginare una risposta, forse la più pratica, sicuramente la più sincera. Questo deriva dalla mia innata filantropia. Sì, sì, passione viscerale per la natura umana in tutte le sue sfaccettaure, belle, bellissime e orrende e tutte sempre vere perché in fondo, si deride, si altera, si muta solo un oggetto che di fondo si ama, o del quale si ha paura, o che, certamente, non rimane escluso dal nostro pregiudizio con l’indifferenza.
Restituito il giornale al suo letto smaltato, in compagnia degli altri suoi simili, noto d’improvviso un bambinetto di circa tre anni, le cui manine lo aiutano a non stancarsi dallo stare in piedi perché poggiano sulle ginocchia della mamma. E’un bambino con le gote paffute e dolci, con gli occhioni grandi e puri, e il suo piccolo beccuccio roseo crea una fossetta sotto il labbro inferiore. Il nasino a patata ha una goccina di muco semi-trasparente che non è stata ancora notata ed eliminata e la sua espressione, nel totale, emana tranquillità e gioia, senza lamenti, senza capricci. Sta lì, buono, buono e si guarda intorno per poi ritornare col suo meraviglioso volto a quello della madre, a colei che rappresenta la vita, la stabilità, la sicurezza, la protezione inattaccabile da ogni evento esterno, quel guscio umano di calore e conforto che a noi figli viene regalato alla nascita e di cui, per nove mesi, vediamo l’interno e il mistero ma che poi, nati, dovremmo scoprire dall’esterno con grande e incomparabile sorpresa, come scudo invisibile e permanente.
Sta lì e non si muove, ora la madre si accorge che è necessario un fazzoletto e lo prende, cercando in borsa, e lo appoggia su quelle narici morbide e lui soffia, soffia e per lo sforzo alza una manina come se fosse necessaria una piccola spinta per espellere l’indesiderato inquilino.
Ora sorride, ora ringrazia tacitamente con quel sorriso che vale la vita e quel naso rosso spicca sulla pelle bianca e perfetta. Mi gusto la scena e insisto nel voler continuare a guardare ma un mio vicino di divano comincia ad entrare indebitamente nel mio spazio, muovendosi e voltandosi a destra e a sinistra, come se non trovasse una posizione abbastanza comoda, nel ricercarla, mi sferra una gomitata. Chiede scusa e mi volto a rassicurarlo che non è successo niente e lui mi guarda attonito. Un ragazzo delle superiori, di aspetto standard direi: capelli ad alto voltaggio, maglia aderente con catenina e ciondolo d’acciaio stile tribale, cinta nera, jeans moderni che penzolano da un bacino molto stretto e coprono due gambe lunghe e molto magre. Gambe che, evolute data la generazione a cui appartiene, rispetto alla mia, calzano sportivo e slavato. La punta di eleganza risiede nell’elastico degli slip con tanto di spot, che lascia presagire parte dell’indumento intimo su cui si intravedono colori shock e fantasie come stelle stilizzate o fiorellini del primo amore. L’antierotismo eccellente ovvero roba da congelamento progestenico, ai miei tempi.
E quando non sai che fare, osservi. La varietà umana presente nello spazioso salottino è tale da saziare ogni mio sguardo: proprio di fronte a me siede una signora stile bambola di porcellana, impeccabile nel suo tailleur di lana pettinata e le scarpe con tacchi sei, di vera pelle, buona fattura, sicuramente costose, stessa marca della borsa, stessi dettagli nelle cuciture e la stessa rigida morbidezza. Il sottogiacca ne riprende il colore e il filo di perle con cammeo centrale le dona quel senso di antico, come antichi sono i solchi del suo sguardo e la contenuta, dignitosa amarezza che si portano dentro, nel rispetto di un’eleganza inculcata e perseverata, senza sforzo, per anni.
Ieratica la donna, dritta sulla schiena, ferma e fiera nel suo volto ben truccato sugli occhi grinzosi e sulle labbra d’un rosso acceso. I capelli cotonati, d’un biondo che si pone tra un platino e le foglie d’autunno. La classica tinta delle signore cotonate di settant’anni. Ancora piacevole. Ancora ingannatrice. Al suo fianco la nonna classica, poveretta, diversa estrazione sociale, diversa vita, diversi obiettivi, diversi linguaggi, diversi abiti. La vecchina sfoggia una gonna sotto il ginocchio, nera, larga immensamente come i suoi fianchi, e un twin set grigio perla, di quelli che si comprano nei mercati, quelli con le perline lungo la fila di bottoni. Calze pesantissime, scarpe ortopediche ed una borsa riesumata dall’ultimo matrimonio del cugino della nipote di secondo grado. Ha un cerchietto che le tira indietro i capelli ormai completamente grigi e tagliati appena sotto l’orecchio. Il suo viso non ha trucco, e le sue guance scendono sotto un paio di occhiali dalla montatura marrone ed eccessiva con lenti spesse che rendono i suoi occhi giganti. Ha le mani gonfie e le due identiche fedi che porta le stringono eccessivamente l’anulare sinistro. Accanto a lei la badante di