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Undici piume d’oca
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E-book211 pagine2 ore

Undici piume d’oca

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Info su questo ebook

Undici piume d’oca è un romanzo corale, in cui undici personaggi appartenenti a epoche diverse si raccontano, mettendo a nudo la propria anima attraverso la forma epistolare. Emozioni, speranze, pulsioni e delusioni di ciascuno si dischiudono pian piano al lettore, che ha modo così di immergersi lentamente in atmosfere distanti nello spazio e nel tempo, entrando in contatto con usanze e mentalità diverse dalla sua consuetudine e che, forse proprio per questo, riescono a dirgli così tanto di sé stesso. Poco importa che i destinatari siano figli, fratelli, amanti clandestini o amici di una vita, che le lettere trovino una replica o che cadano nel vuoto. Merito dell’autrice è sapersi immedesimare con viva partecipazione in ciascuna delle vicende narrate, e non è un caso se le voci che ricorrono più spesso e con più vigore siano quelle femminili: le loro parole – che provengano da una sacerdotessa egizia, da una suora di clausura del Seicento o da una ribelle di un futuro neanche troppo lontano – hanno uno straordinario potere generativo, lo stesso che riesce a mantenere viva e vivida la fiamma imperitura dell’amore.

Carla Perrone è nata nel 1968 a Torino, dove tuttora vive e lavora. Da sempre interessata alla psicologia, alla spiritualità e alla storia, ha pubblicato nel 2018 Il sussurro del colibrì e nel 2021 L’ultima cosa che vorrei dirti, entrambi con Book Sprint edizioni. Nel 2020, con la casa editrice Golem edizioni, La venere dei narcisi.
LinguaItaliano
Data di uscita30 nov 2022
ISBN9788830673700
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    Anteprima del libro

    Undici piume d’oca - Carla Perrone

    Nuove Voci

    Prefazione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani).

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterley. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov.

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    Introduzione

    Undici personaggi si raccontano, in un susseguirsi di missive, inviate ai loro cari.

    Alcuni risponderanno, altri no.

    Ma la mano che scrive, è sempre la stessa: la stessa anima, che si narra attraverso diverse esperienze di vita, percorrendo lo spazio e il tempo.

    Ma il filo che cuce la sua storia, è sempre l’amore, in tutta la sua forza.

    I. LA SACERDOTESSA – OSORKON – ANISAH

    La mia storia inizia qui.

    Una sola anima.

    Quando sono nata?

    Sicuramente, un giorno qui.

    1253 a.C.

    Da così tanto tempo non ho altro nome che questo: la Sacerdotessa, da non ricordare il mio.

    Sono vecchia ormai, circa 30 anni, tutti trascorsi qui, nella disciplina più ferrea, nelle privazioni, nell’educazione coercitiva, data dal mio stato di nascita, famiglia reale.

    Ma mai Regina.

    Sapevo quale fosse il mio scopo, il mio destino.

    L’alto onore di accompagnare lui, il Re.

    Il Faraone.

    Nella vita, nella morte. Ed ora sono qui.

    Ho percorso gli alti gradini della Piramide, insieme al grande corteo funebre, a fianco a te, mio Signore, mio Re.

    Educata dalla più tenera infanzia al sacrificio estremo di me in tuo onore.

    Ad accompagnare le tue incertezze, sostenere le tue paure, accogliere le tue lacrime, i tuoi dubbi, sorella, Sacerdotessa.

    Al confine tra la vita e la morte. Noi due.

    Di più, oltre a tutto il terreno, fino alle gole più alte e a quelle più profonde del Divino.

    Osorkon, fratello, mio Re.

    È dunque giunto, il giorno.

    Osservo i miei piedi nudi, si è rotto un laccio del mio sandalo, ed è buio, qui. Ti ho amato dal primo giorno, in cui entrambi eravamo bambini, uniti dallo stesso destino.

    Legati da un filo d’oro e di piombo.

    La tua vita, la mia. In dono per te.

    Il Corteo è stato splendido, altamente regale, come piaceva a te.

    Vedevo i tuoi occhi ancora lucenti, e vivi, gioire dalla tavola dorata, intagliata, bellissima.

    Faceva un gran caldo, e tu lo sai che non sono abituata a portare abiti pesanti, ma mi hanno ornata a festa, è giusto, con un abito di maglia di metallo, così pesante, e trascinarlo fin quassù è stato l’ennesima fatica, per questo gioco di ruoli che tanto ti piaceva al cuore.

    Anche i capelli mi hanno adornato, con un cerchio d’oro, che termina con una testa di serpente che mi cade proprio qui, in mezzo agli occhi.

    La vista del Divino.

    E sono venute le giovani, a dipingermi gli occhi col piombo in polvere e l’hennè, neri e lunghi, bellissimi.

    Ma io piangevo, ed era difficile rifare continuamente il trucco, per loro.

    Avevo paura fratello mio, Osorkon, perché era l’ultima luce che avrei visto, e anche se per tutta la vita ero stata preparata a tanto onore, accompagnandoti ho avuto un cedimento.

    Dopo, pentita, mi sono recata al tempio, e in ginocchio sotto la statua di Anubi, ho domandato perdono per la mia stoltezza.

    Io lo so bene che avrai bisogno di me.

    Lo so bene quale onore mi attende.

    Ma la mia anima ha tremato, per ciò che dovrò incontrare, le tue paure.

    I tuoi abissi. I tuoi morti.

    E ti dovrò tenere per mano e salvarti da essi.

    E da te.

    I gradini non finivano mai e il sole mi bruciava le spalle.

    Davanti a me, tu.

    Dietro gli altri reali, i Sacerdoti, i tuoi figli e poi i guerrieri e il popolo da basso, che strepitava, alzando un polverone impietoso tra grida, pianti e canti funebri.

    Quando siamo giunti allo spiazzo che dà visione della piccola porta che accede alla tomba, ecco… mi si è spezzato il laccio del sandalo.

    Quella piccola distrazione mi ha fatto ridere un po’… così, di colpo… e tutta la compostezza s’è rotta con quel laccio.

    Cercavo di trattenere quella risata sciocca, inutile, e avrei voluto dirti: «Osorkon, svegliati! Ti stanno mettendo lì dentro! Ci stanno seppellendo vivi. Dentro quella tomba! Alzati, diglielo che sei vivo, che non è vero, che non vuoi che tua sorella venga lì con te, che c’è il sole, furente, fuori.»

    Ma non era vero.

    Per fortuna ero davanti a tutto il corteo, solo dietro il tuo corpo e coloro che ti portavano mi davano le spalle, non hanno visto quell’ilarità che poco si confaceva ad una Sacerdotessa di alto rango, di stirpe reale.

    Un tempo, assieme a te, Faraone, sarebbero stati sepolti tutti, tua moglie, i tuoi figli, le tue guide spirituali.

    Ma poi questo atto di devozione e crudeltà è cambiato.

    Soltanto una persona può andare col Faraone nel suo inferno, il Sacerdote, o la Sacerdotessa che lo ha accompagnato in vita, che è stato scelto in fasce ed allevato, per questo.

    Di sangue reale.

    Eccomi.

    Tua sorella.

    Non ricordo, in tutta la mia esistenza, di aver mai potuto desiderare tanto.

    La mia vita è stata donata alla tua, da sempre.

    Ho ascoltato i tuoi pianti, tollerato la tua vanità.

    Ignorato le tue ingiustizie. Pregato.

    Ho speso il mio tempo in onore di Anubi, Dio del passaggio dalla vita alla nuova vita, la morte.

    Ho imparato ad ungerli, i morti, e cospargere di unguenti le tenere membra dei tuoi figli, ed avvolgerli in candide bende, sicché il disfacimento delle carni non potesse intaccarne né l’aspetto, né l’anima.

    Ho preparato per loro vasellami colmi di vino e d’acqua, e scelto i frutti più acerbi, che maturassero piano per trovarli dolci e molli al loro risveglio nella tomba.

    Ma adesso, sei tu.

    Siamo noi.

    Ho dovuto abbassare un poco la testa, per accedere dalla porta stretta e bassa… Pensare che mi dicevi sempre ch’ero così bassa che avrei potuto nascondermi in un orcio!

    Il buio è arrivato.

    Improvviso.

    Ma gli altri recavano torce e, qualche metro in avanti, si scorgeva ancora alle mie spalle il sole, la luce, l’aria, la vita.

    Il corridoio era stretto e il sandalo rotto m’incespicava il passo.

    E poi il cuore, Osorkon.

    Mi mancava l’aria ad ogni passo, abbandono della vita.

    Mi girava la testa e il respiro.

    Percorrendo quel tunnel, mi tornavano alla mente i ricordi di noi piccoli, che dividevamo una focaccia, che ridevamo degli anziani e dei maestri, e scappavamo via, vestiti di niente, tra le scalinate dei templi e gli sguardi immobili degli Dèi.

    Ricordavo le ore a studiare e poi le belle gite al grande fiume sacro ove potevamo bagnarci, e stenderci al sole, tra le canne, ad ascoltare lo scorrere dell’acqua.

    Tutta una vita, racchiusa in quei ricordi lievi. Freschi.

    Ma fa freddo invece, qui.

    Ho avuto un mancamento, sembra che questo tunnel già sia la mia morte, assieme alla tua.

    Ho dovuto appoggiarmi alla parete con una mano per non cadere, ho perduto il sandalo, e il mio piede si ferisce sul pietrisco diaccio.

    La parete è bagnata, dura.

    Ripensavo alle tue parole, al tuo sguardo, nell’ora dell’ultimo respiro… «Non lasciarmi, sorella.»

    E come potrei?

    Sono nata, per questo momento.

    Ora io ti terrò per mano nel grande incontro che t’attende, con Anubi, e lui ti mostrerà chi tu sei stato, e scenderemo insieme in quell’inferno, e poi saliremo nel tuo paradiso, ci rinfrescheremo con le vivande che abbiamo recato qui per te, poi riposeremo.

    La strada sarà lunga e non lo so quali dèmoni Anubi avrà da mostrarci, ma ci sono io con te.

    Ci sarò io a preservare la tua anima, e spero di non impazzire, o non morire, facendo da scudo a tutto ciò che ci attende.

    Sono forte. Mi appellerò a tutti gli Dèi che mi hanno sostenuta e seguita in questa vita.

    Il tunnel è terminato. Finalmente, siamo giunti, la stanza è ampia, illuminata da torce appese alle pareti, danzano le fiamme, perché un po’ d’aria si muove ancora, adesso.

    Ma quando gli altri ci lasceranno, tutto sarà fermo.

    Ho paura, Osorkon.

    Ti prego non lasciarmi, tu, da sola in questo inferno.

    Ecco, ti hanno posato dentro al tuo sarcofago, è splendido.

    Accanto a te i vasi funerari, con le teste di gatto, dipinti e decorati magnificamente.

    Osservo. Altri vasi, colmi d’acqua, vino e spezie. Unguenti. Focacce.

    Sarò io a beneficiarne per qualche giorno.

    Poi, morirò, assieme a te, dentro la tua tomba.

    C’è un giaciglio accanto a te, e sarà lì che mi coricherò per l’ultimo sonno.

    Ci hanno lasciati soli, fratello. Come quando eravamo bambini, e potevamo dormire assieme, tutti assieme, noi e gli altri fratelli, al fresco della notte.

    Ti ricordi, quanto era bella nostra madre quando indossava quella veste bianca, e si faceva intrecciare i capelli in tante piccole trecce.

    Hanno chiuso la porticina che dà sul tunnel, li ho sentiti andare via.

    Fuori la vita.

    Qui, noi due, e la morte.

    Prego.

    Anubi, vieni a prendere la mia mano, io ti attendo.

    Aiutami a guidare mio fratello Osorkon, il grande Faraone tuo figlio e mio Re, nelle viscere dei suoi peccati.

    Salva le nostre anime.

    Donami la forza di sostenerlo e se, vorrai, preserva la mia mente, e il mio cuore.

    Ora le torce, lentamente si affievoliscono.

    Buio.

    Aria.

    Soffoco, Osorkon.

    Sono pronta.

    Respiro piano, perché voglio conservare l’aria.

    So che finirà presto, e il buio, l’umido e la morte mi raggiungeranno.

    Aspiro l’aria, ed è come bere una sorsata d’acqua tanto è densa, pesante.

    Osservo il tuo sarcofago bello, rannicchiata a terra, e so che sei lì, inerte, quasi sorpreso da una morte tanto prematura, inaspettata.

    La malattia ti ha sorpreso, e a nulla sono servite le cure.

    Respiravi con affanno e i tuoi occhi belli vagavano incerti, alla ricerca di un colpevole, un traditore, qualcuno da condannare, come sempre.

    Osorkon, solo il Divino.

    Tutti ci muovevamo attorno a te, spaventati, disperati, e raccoglievamo le tue grida di dolore, il tuo lezzo, le tue viscere che annerivano, e non sapevamo cosa fare.

    Eri il più bello, giovane, altero, il Faraone d’Egitto, generoso e moderno.

    E

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