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Il caso Majorana Pelizza
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E-book543 pagine5 ore

Il caso Majorana Pelizza

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Info su questo ebook

LUCI E OMBRE DI EVENTI MISTERIOSI, MA REALI, CHE I GIORNALI E LE TELEVISIONI MAINSTREAM NON HANNO MAI VOLUTO AFFRONTARE. UN'INCHIESTA GIORNALISTICA CHE RICOSTRUISCE LA STORIA DELLA MITICA MACCHINA CHE SAREBBE STATA IDEATA DA ETTORE MAJORANA, LO SCIENZIATO SCOMPARSO NEL 1938.
RINO DI STEFANO
È possibile che esista una tecnologia in grado di trasformare la materia in energia pulita, riscaldarla, trasmutarla o addirittura trasferirla in un'altra dimensione?
Sembrerebbe fantascienza se non ci fossero prove che attestano l'esistenza di una misteriosa macchina che, a partire dal 1976, ha suscitato l'interesse di tre governi (italiano, americano e belga) oltre al Vaticano. Questo saggio racconta la storia di un'inchiesta giornalistica iniziata nel 2010 e durata fino ai nostri giorni.
Con questo libro scoprirai:
  • come Rolando Pelizza, il protagonista di questa inverosimile ma documentata vicenda, racconta di essere stato l'allievo di Ettore Majorana.
  • Le perizie forensi che certificano che le lettere mostrate da Pelizza sono state vergate dalla mano di Ettore Majorana e le foto sono inequivocabilmente quelle dello scienziato siciliano.
  • La possibilità di trasmutare la materia, dimostrata da Pelizza da alcuni video e da una medaglietta che, poco prima di morire, avrebbe trasmutato in oro puro al 100%, inesistente in natura
... e molto altro ancora.
LinguaItaliano
EditoreOne Books
Data di uscita16 mar 2023
ISBN9791255281528
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    Anteprima del libro

    Il caso Majorana Pelizza - Rino Di Stefano

    Ringraziamenti

    Desidero ringraziare Alfredo Ravelli, titolare dell’omonimo Archivio e biografo di Rolando Pelizza, per avermi fornito alcuni documenti circa l’attività del protagonista di questa storia, inerenti al suo passato e al periodo successivo al 1992. Molti di questi documenti non sono mai stati oggetto di miei articoli e solo ora vengono pubblicati, pur con le dovute cautele. Intendo dire che non esistono prove certe su quegli avvenimenti e li sto proponendo al pubblico solo per dovere di cronaca, perché sappiano quale mondo si muoveva intorno a Rolando Pelizza. Soprattutto, però, desidero ringraziare mia moglie Loriana e nostro figlio Daniele per la pazienza che hanno avuto con me nel corso di questi anni. Il caso Majorana-Pelizza mi ha occupato quasi a tempo pieno, impegnando le mie giornate e la mia mente. Loro hanno capito il mio lavoro e mi hanno fornito quella comprensione e quell’aiuto psicologico che mi sono stati indispensabili per andare avanti. Se questo libro è stato pubblicato, lo devo a loro.

    Introduzione

    Questo libro è dedicato alla memoria di Rolando Pelizza. In un primo tempo non avevo intenzione di scriverlo. Poi, dopo la sua scomparsa avvenuta il 23 gennaio del 2022 per la pandemia di Covid, ho deciso di mettere insieme i miei appunti sull’inchiesta giornalistica del caso Majorana-Pelizza e raccontare come sono andate veramente le cose. È una realtà che nessuno conosce, anche perché tutto il parlare che si è fatto su quest’uomo troppo spesso è stato strumentale e adattato a situazioni personali che nulla avevano a che fare con la realtà dei fatti. A parte qualche piccola e rara eccezione, le cose sono andate così. La mia esposizione è dunque cronologica e racconta, con gli stati d’animo di quei precisi momenti, ciò che mi è realmente accaduto mentre svolgevo la mia inchiesta sul caso di una misteriosa macchina che avrebbe prodotto energia pulita a costo zero. Un caso, devo dire, che solo in un secondo tempo è diventato Majorana-Pelizza, quando il protagonista ha fornito lettere e foto fino a quel momento del tutto inedite dello scienziato scomparso nel 1938. Per prenderle in considerazione, io chiesi e ottenni che quel materiale venisse periziato professionalmente. E fu solo a quel punto, quando arrivarono le perizie che autentificavano i documenti, che fu possibile parlare del presunto coinvolgimento di Ettore Majorana con Rolando Pelizza.

    Questo volume è anche la storia di un’amicizia nata gradatamente mentre la mia inchiesta prendeva forma. Infatti, per anni Pelizza non ha nascosto la sua diffidenza nei miei riguardi. E soltanto dopo, quando ritengo che si fosse accorto della mia correttezza nei suoi confronti, che ha cominciato ad aprirsi poco per volta. Ed è così che è nata un’amicizia che si è consolidata nel tempo. Nel ricostruire questa storia ho cercato di essere quanto mai scrupoloso, preciso e avulso dalle mille preoccupazioni che Pelizza di volta in volta tirava fuori perché non si parlasse di questo o quel particolare, in quanto lui era tenuto al segreto. A volte, devo dire, il suo comportamento non era esattamente ragionevole. Come diceva Umberto Eco, che di Pelizza era stato amico, «ciò che gli serviva di più era una laurea in buon senso». Se lo avesse esercitato, se fosse stato un po’ più razionale, forse la sua vita sarebbe stata diversa. È anche per queste mie benevoli critiche che Pelizza mi consegnava con il contagocce il materiale di cui di tanto in tanto disponeva. A volte apriva la sua conversazione con me, dicendo: Non parlo al giornalista, ma all’amico. Ogni volta che mi ha detto cose riservate, e che non avevano influenza sullo sviluppo del racconto, ho sempre rispettato il suo volere. Ma non mi dimentico mai di essere un giornalista professionista e come tale mi comporto quando devo esporre fatti e circostanze di questa controversa e inverosimile storia.

    La stragrande maggioranza delle rivelazioni contenute in questo libro nasce da conversazioni registrate e da documenti scritti. E il motivo che io abbia fatto la scelta di non inserire molti cognomi delle persone citate, mettendo solo l’iniziale puntata, è dovuta al fatto che ho esercitato il diritto di cronaca che mi viene dall’esercizio della mia professione, parlando di persone vere e viventi con le quali ho avuto a che fare. Ho anche omesso i nomi di cardinali, monsignori e altri personaggi implicati in questa vicenda. Al posto dei nomi ci sono delle lettere che non permettono di risalire alla vera identità, ma in questo caso l’ho fatto perché non avevo alcuna prova del loro coinvolgimento. Ho quindi raccontato ciò che sarebbe successo, ma non avendone l’evidenza ho preferito evitare che potessero essere riconosciuti. L’importante è che chi legge si renda conto di quanto oscura e complessa sia questa storia.

    Dico subito che non ho davvero la pretesa che il mio racconto venga preso come verità assoluta. Non credo di avere la verità in tasca, sono soltanto un giornalista che cerca quella verità. Tuttavia, ho la convinzione che il contenuto di questo libro possa avvicinare il lettore a ciò che è realmente avvenuto. Infatti, per quanto strana, inverosimile e controversa possa sembrare questa storia, è senza dubbio una storia vera. Deve essere comunque chiaro che con questo termine intendo dire che si tratta di una vicenda realmente vissuta. E come tale, giornalisticamente parlando, vale la pena di essere raccontata. Certi aspetti fin troppo eccezionali in essa contenuti, dovrebbero però essere verificati scientificamente per poterli prendere in considerazione. E questo non è mai stato concesso a nessuno. Ritengo dunque, per onestà intellettuale, che chi legge debba saperlo prima di continuare la lettura.

    Ho anche la speranza che questo libro renda giustizia a Rolando Pelizza, pur con tutti i limiti che una simile dichiarazione possa comportare. È anche per questo che invito il lettore a seguire con attenzione l’evolversi degli avvenimenti, senza mai abbandonare il buon senso e la concretezza della vita di tutti i giorni. Che la verità non sia mai palese, e spesso si nasconda nelle pieghe degli eventi, non è solo un modo di dire. Il vero problema, caso mai, è saperla riconoscere e accettarla per quella che è, a prescindere da ciò che ognuno di noi possa pensare su di essa. Buona lettura!

    R ino D i S tefano

    Una e-mail inaspettata

    Tutto cominciò con una e-mail. Ricordo che era sabato 3 gennaio 2009 e il messaggio mi venne inviato alle 19:09 da una persona che, fino a quel momento, per me era completamente sconosciuta: Enrico M. Remondini. Era da un anno che avevo lasciato «Il Giornale» per prepensionamento, anche se con un contratto di collaborazione in esclusiva. Ero stato chiamato da Claudio Scajola, non appena nominato Ministro dello Sviluppo Economico, ed ero entrato nel suo staff come addetto stampa per la Liguria. In quella veste avevo un ufficio presso la sede regionale del partito Popolo delle Libertà ( PDL ) in viale Brigata Bisagno, a Genova. Nonostante il mio nuovo incarico, continuavo la mia attività giornalistica. Per cui non mi sono stupito più di tanto quando Remondini mi inviò quella e-mail in cui diceva che tempo addietro aveva letto il mio saggio di cronaca sul caso Zanfretta e, dopo aver visto un programma trasmesso da Odeon TV al quale avevo partecipato, voleva rivolgermi alcune domande. Il mio libro sul metronotte che sosteneva di essere stato rapito da esseri alieni, risaliva al 1984. Da giovane cronista, avevo seguito quel caso per due anni, portando avanti una minuziosa inchiesta giornalistica che mi aveva convinto circa l’eccezionalità di quanto era accaduto a Zanfretta sulle alture dell’entroterra genovese. E non parlo della presenza di eventuali esseri alieni, quanto piuttosto di eventi che possono oggettivamente essere definiti straordinari. Il fatto poi che un’inchiesta dei carabinieri avesse accertato la presenza di 52 testimoni oculari circa la presenza di un grosso disco volante luminoso nei posti e nello stesso momento in cui avveniva l’avventura di Zanfretta, mi aveva spinto ad andare

    Una strana Fondazione

    Remondini, dunque, voleva sapere qualcosa a riguardo. Perché no? Allora gli risposi e gli diedi appuntamento nel mio ufficio. L’uomo che un pomeriggio mi si presentò davanti era un imprenditore genovese dal fisico alto e asciutto, capelli lisci e brizzolati, poco più che quarantenne. Mi disse subito che anni prima aveva letto il mio libro e che, dopo averlo prestato, non lo aveva più riavuto indietro. Notai, però, che il motivo della sua visita non era affatto il caso Zanfretta. Infatti, dopo aver speso alcune parole di circostanza sulla vicenda del metronotte, iniziò subito a parlarmi di qualcosa che gli stava molto più a cuore. Si trattava, mi disse, di una storia che risaliva a dieci anni prima, nel 1999, quando aveva lavorato per la Fondazione Internazionale Pace e Crescita di Vaduz, nel Liechtenstein. Remondini raccontava di questa Fondazione in termini piuttosto vaghi, facendo capire che le sue attività non fossero proprio alla luce del sole. E, per spiegarmi di che cosa stesse parlando, mi lasciò un dossier alquanto voluminoso, invitandomi a leggerlo. Devo dire la verità: l’uomo non mi aveva convinto. Mi sembrava abbastanza astratto e, da quello che mi aveva detto, la mia curiosità non era stata affatto stuzzicata. Per cui, quando ci lasciammo, gli promisi che avrei letto il suo dossier, ma di fatto me ne dimenticai. Dopo circa un mese, Remondini mi chiamò e mi domandò se avessi letto quelle pagine. Cercai di giustificarmi come potevo, dicendogli che non ne avevo avuto il tempo. E, parzialmente, era vero. Ma gli dissi anche che lo avrei fatto. Il problema è che sono un eterno distratto e, per quanto avessi quel plico sulla mia scrivania, ancora una volta dimenticai di sfogliarlo. Passò quindi un altro mese e, ancora una volta, Remondini mi chiamò. Lo legga, mi raccomando – mi disse – Vedrà che lo troverà molto interessante…. Questa volta, oltre che scusarmi, gli promisi che non me ne sarei più dimenticato. E, infatti, quella sera stessa, chiuso nel mio studio, iniziai a dare un’occhiata al dossier.

    Un dossier interessante

    Remondini, dovetti ammetterlo, aveva ragione. E più andavo avanti nella lettura, più trovavo quelle pagine assolutamente interessanti. In sintesi, il dossier presentava la Fondazione per cui aveva lavorato Remondini. Nella documentazione si diceva che la Fondazione Internazionale Pace e Crescita era la sola a disporre di una tecnologia assolutamente fantastica. Macchinari in grado di smaltire rifiuti solidi urbani, rifiuti liquidi organici, rifiuti tossici e, persino, scorie radioattive. Inoltre, quelle macchine, chiamate Zavbo, potevano anche compattare rocce instabili, distruggere rocce pericolose, scavare gallerie nella roccia, attuare leghe speciali, produrre energia pulita. Per offrire questi servizi, la Fondazione aveva creato una rete di vendita europea che prevedeva un certo numero di rappresentanti in grado di contattare tutta una serie di potenziali clienti. Il primo elenco era allegato: 24 nominativi che comprendevano le maggiori acciaierie europee, due governi nazionali e due amministrazioni regionali italiane. Remondini era, appunto, uno degli agenti che dovevano contattarli.

    Due furono le cose che mi colpirono di più nella lettura. La prima riguardava quella che veniva definita cronologia dell’invenzione. Si parlava di qualcosa di nuovo ed eccezionale che sarebbe stato scoperto intorno al 1958–60 e progressivamente perfezionato, fino ai giorni nostri. La seconda notizia che catturò la mia attenzione riguardava invece la nascita della Fondazione stessa. Il documento, che suscitava non pochi interrogativi, recitava testualmente:

    «Il testimone che ci viene consegnato dagli Autori della scoperta è la nitida visuale cristiana del servizio alla famiglia umana.

    È marcato: Crescita autentica della Persona e del Nucleo Familiare, nella PACE della società e tra le Nazioni, Concordia democratica attiva dei Popoli.

    È sigillato: rispetto, anzi salvaguardia e piena tutela, della Natura. Prendiamo il testimone nelle mani con trepidazione e serenità, e corriamo verso il traguardo della nascita e della realizzazione completa della Fondazione Internazionale Pace e Crescita.

    Sembra anche a noi che sia meglio costruire anziché distruggere, non importa quanto possa essere difficile e se per farlo occorrono molto più coraggio e pazienza, assai più fantasia e sacrificio».

    Non solo. In calce alla stessa pagina, appariva la nota Traguardi successivi, cui seguiva Studi e ricerche: realizzazione di conduttori senza alcun assorbimento di energia, e nel campo delle comunicazioni, l’ottenimento di trasmissioni perfette, senza ausilio di satelliti, prive di ogni interferenza e a qualsiasi distanza.

    Tecnologia da fantascienza

    Un programma a dir poco fantascientifico. Trasmettere senza satelliti, privi di interferenze e a qualsiasi distanza: quale tecnologia avrebbe mai potuto ottenere risultati di quel tipo? E questi signori, che parlavano con un linguaggio piuttosto curiale, come mai disponevano di attrezzature in grado di ottenere risultati così eclatanti? Insomma, le domande che mi ponevo erano tante e tutte complicate. Però, non avevo modo di trovare delle risposte. L’unica strada, al momento, era quella di Remondini. Dovevo incontrarlo, parlargli e farmi dire quanto di vero ci fosse in quelle pagine, ognuna delle quali era marchiata con la scritta Riproduzione Vietata. Tutti i diritti sono riservati alla Fondazione Internazionale Pace e Crescita.

    Ci incontrammo un pomeriggio, nel mio ufficio. Quel giorno aveva gli occhi sorridenti. Evidentemente gustava il piacere di avermi incuriosito. Quello che non capiva, però, è che io non ero affatto convinto di quanto avevo letto. Mettiamola così: non ci credevo, fino a prova contraria. Tanto per cominciare, da dove veniva quella tecnologia? E chi l’aveva data a quella Fondazione? Inoltre, chi stava dietro la Fondazione stessa?

    Tutte queste cose non le so – mi rispose candidamente Remondini – Quello che posso dirle è che la Fondazione esisteva, io li ho contattati tramite amici di Lugano e per un certo periodo ho lavorato per loro. Per poco, perché nel ’99 a un certo punto hanno tagliato i contatti e non li ho più sentiti….

    Ma si rende conto del livello di tecnologia di cui disponevano o, almeno, dicevano di disporre?.

    Sì, certamente. Ma per loro era normale. Dicevano che potevano realizzare tutto quello che promettevano. Del resto, quando prendevo i contatti con i potenziali clienti, mi dovevo impegnare proprio nella misura da essi stessi stabilita.

    E mi mostrò anche una copia del contratto che gli avevano fatto.

    Remondini mi spiegò, inoltre, che il suo contatto principale con la Fondazione era il direttore Renato L. che viveva, appunto, a Lugano. Questo discorso dei contatti in Svizzera salterà fuori diverse volte durante la mia inchiesta sulla misteriosa tecnologia. Tanto da farmi pensare, e non credo di sbagliarmi, che proprio in Svizzera esista in qualche modo il cuore pulsante che ha dato origine a tutta la storia. Ma di questo ne parleremo più avanti.

    L’inganno non spiegato

    Fino a quel punto, tutto quel che sapevo era in quei fogli. Documenti destinati a restare riservati e che, invece, finiti casualmente sotto gli occhi di un giornalista ficcanaso, adesso rischiavano di far saltare il banco. Più ci pensavo, però, e meno quel casualmente mi convinceva. Remondini diceva che era giunto fino a me a causa di Zanfretta. Provai allora a buttare sul piatto della conversazione alcuni nomi di personaggi legati alla storia di Zanfretta. Provai ad accennare a Mauro Moretti, il medico che aveva svolto le prime regressioni ipnotiche sull’ex metronotte. Poi gli citai il professor Marco Marchesan, di Milano. Ma Remondini non dava segni di aver mai sentito nemmeno parlare di quelle persone. Insomma, ignorava tutto e tutti del caso Zanfretta. In altre parole, non aveva mai letto il libro. Di conseguenza, non era venuto da me spontaneamente, come avrebbe voluto farmi credere. Qualcun altro, con ogni probabilità, gli aveva chiesto di farlo. Già, ma chi? Dal momento che non sapevo niente di lui, cominciai a indagare per i fatti miei. Non che mi aspettassi chissà che cosa, ma alcune notizie sarebbero dovute uscire. Infatti, trovai che la famiglia Remondini fa parte da decenni del mondo imprenditoriale genovese ed è sempre stata caratterizzata da legami molto stretti con il Vaticano. Del resto, che Remondini avesse una concezione religiosa della vita molto più alta della norma, me ne ero accorto da subito. Per quanto io mi ritenga un credente (anche se intellettualmente un libero pensatore), lui andava ben oltre i miei parametri.

    Un bel giorno, un po’ seccato per quella che ormai credevo una presa in giro, affrontai apertamente l’argomento con lui. E gli dissi che pensavo che qualcuno lo avesse mandato da me. Fu come rimbalzare contro un muro di gomma. Come era prevedibile, negò tutto e disse che l’iniziativa di contattarmi fu esclusivamente sua. Non riuscii però a spiegarmi come mai ignorasse del tutto la storia di Zanfretta. Su quell’argomento preferì glissare…

    Alla ricerca della Fondazione

    In ogni modo, pur col dubbio che qualcuno, per ragioni a me ignote, avesse voluto sottopormi il caso della Fondazione, decisi di andare avanti e di sapere qualcosa in più sull’argomento. Tanto per cominciare, su Internet non esisteva traccia della Fondazione Internazionale Pace e Crescita. Né esistevano documenti sul professor Nereo B. che, secondo Remondini, ne sarebbe stato il presidente. Trovai soltanto una voce, molto confusa e non spiegata, che riguardava le macchine Zavbo. Ma nulla che potesse servire a far luce sulla Fondazione. A quel punto, per rendermi conto se i documenti che avevo in mano fossero autentici, decisi di rivolgermi a qualcuno che potesse dirmi con assoluta certezza se la Fondazione esisteva o meno. Decisi quindi di scrivere alla International Company Profile ( ICP ) di Londra, un’azienda specializzata in indagini commerciali internazionali, per avere qualche certezza. La ricerca mi costò un centinaio di euro, ma ne valse la pena. Venni così a sapere che la Fondazione Internazionale Pace e Crescita era stata costituita l’11 aprile del 1996 a Vaduz, Liechtenstein, con ufficio in Werdenbergerweg 11, telefono (423) 232 5566. Il capitale iniziale era stato di 30 mila franchi svizzeri. Non risultava che la Fondazione avesse mai svolto attività operative o commerciali nel Liechtenstein. Così come non risultava esserci traccia di pagamenti o altro. Inoltre, la legge locale permetteva che non venissero registrati i nomi dei responsabili della società.

    Nel bel mezzo di questo nulla, improvvisamente il primo luglio del 2002 la società venne chiusa e gli uffici abbandonati. Dunque, la Fondazione Internazionale Pace e Crescita in tutto era rimasta aperta per sei anni e due mesi. Successivamente venni a sapere che la chiusura della Fondazione era correlata all’incontro che avvenne il 19 maggio 1997 tra lo stesso Pelizza, accompagnato dal suo amico Bruno G., e Nereo B., presidente della Fondazione stessa. In quell’occasione Pelizza minacciò di denunciarlo se non avesse chiuso subito la Fondazione, ma Nereo B. lo avrebbe fatto solo cinque anni dopo.

    Chi pagava le spese?

    Le domande che mi ponevo andavano aumentando. Prima di tutto, ammettendo per ipotesi che quella tecnologia da fantascienza fosse del tutto inventata, chi poteva permettersi il lusso di aprire una fondazione di quel tipo e di mantenerla in piedi per oltre sei anni, accollandosi tutte le relative spese? Mantenere una società, anche in un Paese permissivo come il Liechtenstein, aveva comunque un costo. L’affitto si paga, le utenze pure, senza parlare del personale. Anche se avessero avuto una sola segretaria, lo stipendio glielo dovevano comunque versare. Allora, chi pagava? E, soprattutto, perché? A meno che, come forse era più probabile, la sede della Fondazione non fosse presso lo studio di un commercialista. Anche in quel caso, però, il professionista andava pagato. Più tardi venni a sapere che i 30 mila franchi svizzeri erano la quota che il Liechtenstein chiede per costituire una società sul suo territorio. Se tutto fosse stato una bufala, o anche una truffa, almeno dovevano esserci due soggetti: il truffatore e il truffato. Non si può pensare che un malintenzionato di qualsiasi genere possa costituire un’impresa come quella, senza pensare a un qualche modo per farla fruttare. Perché se c’è una cosa certa nella breve vita della Fondazione Internazionale Pace e Crescita è che non ha lasciato traccia di qualunque tipo di attività d’impresa. Sappiamo che metteva in circolazione agenti che contattavano grandi aziende, offrendo servizi che nessuno al mondo sarebbe stato in grado di proporre, ma non risulta che qualcuno sia mai stato truffato o che abbia perso denaro a causa della Fondazione. Com’è possibile, quindi, che non ci fosse alcun atto penale o una denuncia, se l’intento poteva essere truffaldino? Anche perché, a ben vedere, gli unici, che ci hanno rimesso dei gran soldi sono stati proprio coloro che hanno aperto la Fondazione. Inoltre, perché chiudere i battenti da un giorno all’altro, dopo aver contattato fior di grandi imprese e governi nazionali, promettendo servizi incredibili?

    Se si pensa che il mondo sia fatto da imbecilli, tutto può essere ritenuto possibile. Ma se soltanto si esamina la realtà oggettiva delle cose, e intendo quella più prosaica delle fatture e delle bollette da pagare, allora i conti non tornano. Non possono tornare. C’era qualcosa in più, qualcosa che ignoravo e che non riuscivo a focalizzare. Ma c’era.

    Il contatto negato

    Provai allora l’approccio diretto. Sapevo, infatti, che Remondini era rimasto in contatto con Renato L., il direttore della Fondazione, e gli chiesi di chiamarlo. Volevo tentare una via amichevole, magari parlargli e farmi spiegare che cosa era successo. Anche perché negli ultimi tempi Remondini se n’era uscito con una nuova versione sull’origine della macchina. Una volta mi disse che, parlando con Nereo B., aveva saputo che la macchina sarebbe stata inventata da alcuni scienziati italiani che non erano riusciti a brevettarla. A un certo punto, sempre secondo il racconto che gli avrebbero fatto, questi scienziati si sarebbero rivolti al Vaticano, chiedendo la protezione di Giovanni Paolo II. Il Pontefice non solo li avrebbe protetti, ma poi avrebbe fatto in modo che potessero continuare il loro lavoro nel Liechtenstein.

    Come favola non era male, tanto più che mancava un qualsiasi supporto probante a sostenerla. Ammettendo quindi che ci potesse essere un sottofondo di verità, restava da stabilire dove finiva la fantasia e cominciava la realtà. Forse L. poteva dire qualcosa in più? Il tentativo venne fatto una sera quando, di fronte a me, Remondini chiamò Renato L. Con una certa prudenza, e pesando bene le parole, l’imprenditore genovese spiegò all’amico svizzero che un giornalista italiano voleva sapere qualcosa in più sull’attività della Fondazione, tanto più che ormai era chiusa da anni. Credo che, in condizioni normali, l’ex direttore di un’azienda ormai estinta da tempo, non si sarebbe opposto. Invece, inaspettatamente, L. non la prese bene al telefono e disse chiaro e tondo a Remondini che non solo non aveva nulla da dichiarare, ma che lo stesso Remondini si doveva guardare bene dal dire una sola parola circa l’attività della Fondazione. E buttò giù, dicendo al povero Remondini di non disturbarlo oltre.

    Devo dire che l’imprenditore genovese rimase abbastanza scosso da quella reazione, tanto più che diceva di considerare quello della Fondazione soltanto un curioso ricordo. E per lui, forse, era proprio così. Ma soltanto per lui. Per qualcun altro la storia era ben diversa. Di fatto, qualunque cosa ci fosse sotto, per certe persone non sarebbe dovuta uscire allo scoperto.

    Fu a quel punto, e solo a quel punto, che decisi di scrivere un articolo per raccontare la storia della Fondazione Internazionale Pace e Crescita. Era venuto il momento che si sollevasse il velo sulla loro attività. Se a qualcuno non stava bene, peggio per lui. In effetti, l’articolo lo scrissi. Superando anche le resistenze di Remondini che, nel frattempo, si era fatto prendere da diverse paure. Ma mi rendevo conto che, lavorando nello staff di un ministro, se lo avessi pubblicato avrei potuto dar l’idea che il mio lavoro fosse stato ispirato da altri. Per cui, me lo tenni in un cassetto per alcuni mesi. A farmi decidere per la pubblicazione, furono le premature dimissioni di Claudio Scajola in seguito all’ormai noto scandalo della sua casa in via del Fagutale, a Roma, con vista sul Colosseo. Erano i primi di maggio del 2010. Nel giro di qualche giorno la carriera di un brillante uomo politico si interrompeva bruscamente e la struttura che lo appoggiava, della quale io facevo parte, si sgretolava. Non voglio commentare questa vicenda perché ritengo che il tempo sia galantuomo e che, prima o poi, la verità verrà comunque a galla. Certamente un primo passo è stato fatto lunedì 27 gennaio 2014 al Tribunale di Roma, quando il giudice monocratico Eleonora Santolini ha assolto con formula piena l’ex ministro «perché il fatto non costituisce reato». La Procura, però, ha fatto ricorso e qualche mese dopo il procedimento è stato archiviato per avvenuta prescrizione. Subito dopo, inoltre, è scoppiato lo scandalo Matacena, con il plateale arresto di Scajola da parte della Procura di Reggio Calabria che lo aveva accusato di aver aiutato la latitanza dell’ex deputato del PDL , suo caro amico, riparato a Dubai. L’ex ministro stette per 35 giorni nel carcere romano di Regina Coeli, poi finì ai domiciliari nella sua villa di Imperia. Poco dopo gli arresti vennero revocati. La storia si concluse il 24 gennaio 2020 quando Scajola venne condannato a due anni di detenzione per aver aiutato l’amico Matacena. La sentenza, comunque, non impedì a Scajola di continuare la sua attività di sindaco di Imperia, ruolo che aveva quando iniziò la sua avventura da parlamentare. In seguito, divenne anche presidente della Provincia di Imperia. Corsi e ricorsi della storia.

    Tornando a noi, una volta libero dagli impegni ministeriali, ripresi a pensare che quel mio articolo dovesse essere pubblicato. E fu così che una sera chiamai il direttore de «il Giornale», che allora era Vittorio Feltri, chiedendogli un incontro.

    Quello che segue è il testo dell’articolo che martedì 6 luglio 2010 venne pubblicato nelle pagine 8 e 9 dell’edizione nazionale de «il Giornale».

    Un giallo sospeso tra storia , scienza e politica

    Il mistero dell’energia gratuita che ci tengono nascosta

    Marconi ideò un raggio che fermava i mezzi a motore. Mussolini lo voleva, il Vaticano lo bloccò. Da quelle ricerche altri scienziati crearono l’alternativa a petrolio e nucleare. Nel 1999 l’invenzione stava per essere messa sul mercato, ma poi tutto fu insabbiato

    di Rino Di Stefano

    L’energia pulita tanto auspicata dal presidente Obama dopo il disastro ambientale del Golfo del Messico forse esiste già da un pezzo, ma qualcuno la tiene nascosta per inconfessabili interessi economici. Ma non solo. Negli anni Settanta, infatti, un gruppo di scienziati italiani ne avrebbe scoperto il segreto, ma questa nuova e stupefacente tecnologia, che di fatto cambierebbe l’economia mondiale archiviando per sempre i rischi del petrolio e del nucleare, sarebbe stata volutamente occultata nella cassaforte di una misteriosa fondazione religiosa con sede nel Liechtenstein, dove si troverebbe tuttora. Sembra davvero la trama di un giallo internazionale l’incredibile storia che si nasconde dietro quella che, senza alcun dubbio, si potrebbe definire la scoperta epocale per eccellenza, e cioè la produzione di energia pulita senza alcuna emissione di radiazioni dannose. In altre parole, la realizzazione di un macchinario in grado di dissolvere la materia, intendendo con questa definizione qualunque tipo di sostanza fisica, producendo solo ed esclusivamente calore.

    Una scoperta per caso

    Come ogni giallo che si rispetti, l’intricata vicenda che si nasconde dietro la genesi di questa scoperta è stata svelata quasi per caso. Lo ha fatto un imprenditore genovese che una decina d’anni fa si è trovato ad avere rapporti di affari con la Fondazione che nasconde e gestisce il segreto di quello che, per semplicità, chiameremo il raggio della morte. E sì, perché la storia che stiamo per svelare nasce proprio da quello che, durante il fascismo, fu il mito per eccellenza: l’arma segreta che avrebbe rivoluzionato il corso della Seconda guerra mondiale. Sembrava soltanto una fantasia, ma non lo era. In quegli anni si diceva che persino Guglielmo Marconi stesse lavorando alla realizzazione del raggio della morte. La cosa era solo parzialmente vera. Secondo quanto Mussolini disse al giornalista Ivanoe Fossati durante una delle sue ultime interviste, Marconi inventò un apparecchio che emetteva un raggio elettromagnetico in grado di bloccare qualunque motore dotato di impianto elettrico. Tale raggio, inoltre, mandava in corto circuito l’impianto stesso, provocandone l’incendio. Lo scienziato dette una dimostrazione, alla presenza del duce del fascismo, ad Acilia, sulla strada di Ostia, quando bloccò auto e camion che transitavano sulla strada. A Orbetello, invece, riuscì a incendiare due aerei che si trovavano a oltre due chilometri di distanza. Tuttavia, dice sempre Mussolini, Marconi si fece prendere dagli scrupoli religiosi. Non voleva essere ricordato dai posteri come colui che aveva provocato la morte di migliaia di persone, bensì solo come l’inventore della radio. Per cui si confidò con papa Pio XI, il quale gli consigliò di distruggere il progetto della sua invenzione. Cosa che Marconi si affrettò a fare, mandando in bestia Mussolini e gerarchi. Poi, forse per il troppo stress che aveva accumulato in quella disputa, nel 1937 improvvisamente venne colpito da un infarto e morì a soli 63 anni.

    La fine degli anni Trenta fu comunque molto prolifica da un punto di vista scientifico. Per qualche imperscrutabile gioco del destino, pare che la fantasia e la creatività degli italiani non fu soltanto all’origine della prima bomba nucleare realizzata negli Stati Uniti da Enrico Fermi e dai suoi colleghi di via Panisperna; altri scienziati, continuando gli studi sulla scissione dell’atomo, trovarono infatti il modo di produrre ed emettere sino a notevoli distanze anti–atomi di qualsiasi elemento esistente sul nostro pianeta che, diretti contro una massa costituita da atomi della stessa natura ma di segno opposto, la disgregano ionizzandola senza provocare alcuna reazione nucleare, ma producendo egualmente una enorme quantità di energia pulita.

    Tanto per fare un esempio concreto, ionizzando un grammo di ferro si sviluppa un calore pari a 24 milioni di KWh, cioè oltre 20 miliardi di calorie, capaci di evaporare 40 milioni di litri d’acqua. Per ottenere un uguale numero di calorie, occorrerebbe bruciare 15mila barili di petrolio. Sembra quasi di leggere un racconto di fantascienza, ma è soltanto la pura e semplice realtà. Almeno quella che i documenti in possesso dell’imprenditore genovese Enrico M.

    Remondini dimostrano.

    La testimonianza

    Tutto è cominciato – racconta Remondini – dal contatto che nel 1999 ho avuto con il dottor Renato L., direttore della Fondazione Internazionale Pace e Crescita, con sede a Vaduz, capitale del Liechtenstein. Il mio compito era quello di stipulare contratti per lo smaltimento di rifiuti solidi tramite le Centrali Termoeletriche Polivalenti della Fondazione Internazionale Pace e Crescita. Non mi hanno detto dove queste centrali si trovassero, ma so per certo che esistono. Altrimenti non avrebbero fatto un contratto con me. In quel periodo, lavoravo con il mio collega, dottor Claudio Barbarisi. Per ogni contratto stipulato, la nostra percentuale sarebbe stata del 2 per cento. Tuttavia, per una clausola imposta dalla Fondazione stessa, il 10 per cento di questa commissione doveva essere destinata a favore di aiuti umanitari. Considerando che lo smaltimento di questi rifiuti avveniva in un modo pressoché perfetto, cioè con la ionizzazione della materia senza produzione di alcuna scoria, sembrava davvero il modo ottimale per ottenere il risultato voluto. Tuttavia, improvvisamente, e senza comunicarci il perché, la Fondazione ci fece sapere che le loro centrali non sarebbero più state operative. E fu inutile chiedere spiegazioni. Pur avendo un contratto firmato in tasca, non ci fu nulla da fare. Semplicemente chiusero i contatti.

    Remondini ancora oggi non conosce la ragione dell’improvviso voltafaccia. Ha provato a telefonare al direttore L., che tra l’altro vive a Lugano, ma non ha mai avuto una spiegazione per quello strano comportamento. Inutili anche le ricerche per vie traverse: l’unica cosa che è riuscito a sapere è che la Fondazione è stata messa in liquidazione. Per cui è ipotizzabile che i suoi segreti adesso siano stati trasferiti a un’altra società di cui, ovviamente, si ignora persino il nome. Ciò significa che da qualche parte sulla Terra oggi c’è qualcuno che nasconde il segreto più ambito del mondo: la produzione di energia pulita a un costo prossimo allo zero. Nonostante questo imprevisto risvolto, in mano a Remondini sono rimasti diversi documenti strettamente riservati della Fondazione Internazionale Pace e Crescita, per cui alla fine l’imprenditore si è deciso a rendere pubblico ciò che sa su questa misteriosa istituzione. Per capire i retroscena di questa tanto mirabolante quanto scientificamente sconosciuta scoperta, occorre fare un salto indietro nel tempo e cercare di ricostruire, passo dopo passo, la cronologia dell’invenzione. Ad aiutarci è la relazione tecnico–scientifica che il 25 ottobre 1997 la Fondazione Internazionale Pace e Crescita ha fatto avere soltanto agli addetti ai lavori. Ogni foglio, infatti, è chiaramente marcato con la scritta Riproduzione Vietata. Ma l’enormità di quanto viene rivelato in quello scritto giustifica ampiamente il non rispetto della riservatezza richiesta. Il raggio della morte, infatti, pur essendo stato concepito teoricamente negli anni Trenta, avrebbe trovato la sua base scientifica soltanto tra il 1958 e il 1960. Il condizionale è d’obbligo in quanto riportiamo delle notizie scritte, ma non confermate dalla scienza ufficiale. Non sappiamo da chi era composto il gruppo di scienziati che diede vita all’esperimento: i nomi non sono elencati. Sappiamo invece che vi furono diversi tentativi di realizzare una macchina che corrispondesse al modello teorico progettato, ma soltanto nel 1973 si arrivò ad avere una strumentazione in grado di produrre campi magnetici, gravitazionali ed elettrici interagenti, in modo da colpire qualsiasi materia, ionizzandola a distanza e in quantità predeterminate.

    Il via dal governo Andreotti

    Fu a quel punto che il governo italiano cominciò a interessarsi ufficialmente a quegli esperimenti. E infatti l’allora governo Andreotti incaricò il professor Ezio Clementel, allora presidente del Comitato per l’energia nucleare (CNEN), di analizzare gli effetti e la natura di quei campi magnetici a fascio. Clementel, trentino originario di Fai e titolare della cattedra di Fisica nucleare alla facoltà di Scienze dell’Università di Bologna, a quel tempo aveva 55 anni ed era uno dei più noti scienziati del panorama nazionale e internazionale. La sua responsabilità, in quella circostanza, era grande. Doveva infatti verificare se quel diabolico raggio avesse realmente la capacità di distruggere la materia ionizzandola in un’esplosione di calore. Anche perché non ci voleva molto a capire che, qualora l’esperimento fosse riuscito, si poteva fare a meno dell’energia nucleare e inaugurare una nuova stagione energetica non soltanto per l’Italia, ma per il mondo intero. Tanto per fare un esempio, questa tecnologia avrebbe permesso la realizzazione di nuovi e potentissimi motori a razzo che avrebbero letteralmente rivoluzionato la corsa allo spazio, permettendo la costruzione di gigantesche astronavi interplanetarie. Il professor Clementel ordinò quindi quattro prove di particolare complessità. La prima consisteva nel porre una lastra di plexiglas a 20 metri dall’uscita del fascio di raggi, collocare una lastra di acciaio inox a mezzo metro dietro la lastra di plexiglass e chiedere di perforare la lastra d’acciaio senza danneggiare quella di plexiglass. La seconda prova consisteva nel ripetere il primo esperimento, chiedendo però di perforare la lastra di plexiglass senza alterare la lastra d’acciaio. Il terzo esame era ancora più difficile: bisognava porre una serie di lastre d’acciaio a 10, 20 e 40 metri dall’uscita del fascio di raggi, chiedendo di bucare le lastre a partire dall’ultima, cioè quella posta a 40 metri. Nella quarta e ultima prova si doveva sistemare una pesante lastra di alluminio a 50 metri dall’uscita del fascio di raggi, chiedendo che venisse tagliata parallelamente al lato maggiore.

    Ebbene, tutte e

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