Atropos: GIUSEPPE COSMO
Di GIUSEPPE COSMO e gorancos
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Info su questo ebook
ROMANZO DI GIUSEPPE COSMO
INTRODUZIONE
Atropos racconta un incrocio di destini. Sullo sfondo di una evoluzione socio - culturale
Che condiziona e modifica la vita dei personaggi come se fosse opera del misterioso ed incomprensibile fato. Per questo c'è chi si sottomette senza opporre resistenza alcuna e chi combatte per essere l'unico consapevole artefice della propria esistenza. Nel dipanarsi della storia i protagonisti, come tutti gli uomini, si trovano a riflettere sul significato e sulla forza del destino:
. Ognuno è l’artefice del proprio destino (dott. Hristo
Asholov).
. Il procedere degli avvenimenti è già tutto prefissato da
una forza che travalica la nostra volontà.
. Il destino di ognuno di noi è già scritto con delle linee
già tracciate e i sogni non solo altro che delle
premonizioni, delle opportunità che il buon Dio o chi per
Lui ci dà per tracciarle completamente (avv. De Nigro).
. Il destino è il frutto della debolezza umana, ideato per
sopire i nostri sensi di colpa, ma in realtà il tutto si deve
ricondurre a un mero calcolo di probabilità (dott. Pietro
Ramo).
. Il nostro fato non è prestabilito, siamo noi a scriverlo ex novo influenzati dall’ambiente in cui operiamo (prof. Agazio Nitti).
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Anteprima del libro
Atropos - GIUSEPPE COSMO
pena.
I
Tutto ebbe inizio – in un tempo relativamente remoto – ad Atropos cittadina cristallizzata, allora come ora, in un contesto storico-sociale in cui predomina la giustizia degli uomini ovvero la legge che chiamano crudamente vendetta, mentre i mass-media preferiscono definirla guerra tra clan per il controllo del territorio. Atropos è un piccolo centro che si dirama a forma di ventaglio su per la schiena di una panoramica collina racchiusa fra due fiumi, Antares ad ovest e Alderbaran ad est, che scendono a valle dai monti sovrastanti e prima di confondersi con l’azzurro mare abbracciano una grande pianura, coltivata a grano, agrumeti, oliveti e vigneti. A colui che sale dalla marina ricorda, nella forma e nei colori brillanti delle case, la coda di un pavone. Solo la chiesa e l’imponente Palazzo del Fascio si discostano da questa vivacità cromatica, richiamando già a prima vista la solennità del loro ruolo.
Giunto all’interno di Atropos il forestiero è accolto in una grande piazza rettangolare delimitata dalla chiesa di San Giacomo e dal Palazzo del Fascio, oggi divenuto in parte Caserma dei Carabinieri e in parte sede municipale. Di fronte ad essi si trova l’antica e unica farmacia del paese, la barberia di don Fabio e la bottega-osteria di donna Assunta, mentre al centro della piazza si erge una grande fontana. Seguendo la strada principale del paese e, oltrepassato il centro, si arriva alla parte più panoramica e antica di Atropos, quella costruita per resistere agli assedi degli invasori e per questo situata sulla sommità della collina a circa 700 metri s.l.m. Qui, resistendo al tempo, è stato portato alla luce un insediamento di origine neolitica – trasformato in necropoli dai Romani, quindi rimaneggiato dai Cristiani a luogo di culto e successivamente sconsacrato – che l’incuria dell’uomo ha oggi ridotto in una discarica a cielo aperto, facendo la fortuna di qualche ficarazza [⁴] che cresce rigogliosa. A questo punto ci si aspetterebbe di non trovar più nulla se non campagna, invece s’incontra il grande cimitero costruito durante il periodo fascista, di cui trasmette la tipica idea di grandezza e di maestosità. E poi il lungo viale dei cipressi, alberi maestosi sempreverdi che terminano in un ampio spiazzo dove domina la porta monumentale del cimitero sovrastata da una grande lapide marmorea sulla quale vi è inciso il Rèquiem aetèrnam. Sopra la lapide, la scritta PAX a caratteri cubitali. Dalla sommità del paese chiamata Loggia di Atlante – dove resiste ancora alle intemperie del tempo il rudere di una vecchia fortezza, ultimo baluardo difensivo dalle continue invasioni dei musulmani che nei secoli scorsi terrorizzarono le popolazioni cristiane mettendo a ferro e fuoco i loro paesi – i campi di grano della pianura appaiono in tutto il loro splendore, creando paesaggi che sembrano usciti dal pennello di Van Gogh.
Immensi prati di spighe dorate, puntellati da qualche spruzzo del rosso dei papaveri e del verde dei cipressi, vestono morbidamente il paesaggio. Le leggere folate di brezza che arrivano dal mare fanno muovere le spighe come se fossero un grande mantello giallo cullato dal vento. Su di esse si librano i corvi, uccelli del malaugurio per antonomasia, rompendo l’amena atmosfera di pace e presagendo chissà quali cupi scenari.
E il corvo ha ormai fatto cadere, su questi magnifici campi di grano, la sua penna nera con la quale saranno scritte le pagine più drammatiche di Atropos. Un paese dove tutti si conoscono, nessun fatto delittuoso da più di trenta’anni, solo piccoli furti eseguiti da una banda di ragazzotti, cani sciolti in trasferta, che prontamente redarguiti dal mastino del luogo, Ettore Valciri, si dileguano con la coda tra le gambe non facendo più ritorno al paese.
II
Nelle vicinanze della Loggia di Atlante, dominata dalla statua del Cristo Redentore, vi era una piccola radura da cui, oltre alla strada principale che conduceva per i monti, si dipartivano due sentieri che portavano al torrente. Districandosi tra fitti cespugli i giovani di Atropos d’estate li percorrevano in fila indiana a torso nudo, incuranti dei possibili graffi che i rovi potevano lasciare sulla pelle, anzi a volte andavano fieri di quelle piccole cicatrici che esibivano come cimeli. Man mano che scendevano lungo il sentiero, lo scroscio dell’acqua si sentiva sempre più forte e una piacevole sensazione di refrigerio avvolgeva i ragazzi, facendo di colpo asciugare il sudore che scendeva loro a gocce dalla fronte e dalle ascelle, arricciando quella poca peluria, che data l’età, era iniziata a spuntare. Il laghetto, dopo circa venti minuti di cammino appariva in tutto il suo splendore.
Delimitato a nord da una roccia alta più di sei metri, da dove scendeva una copiosa cascata, e lateralmente da lastre di rocce che cadevano delicatamente nell’acqua, creando contorni frastagliati, era incorniciato da fitti cespugli di erica e oleandri che specchiandosi nel lago gli conferivano una tonalità blu verdastra. Le lastre di roccia rappresentavano per i giovinastri le sdraio su cui stendersi a prendere il sole completamente nudi e, allo stesso tempo, dei piedistalli, dove assumendo plastiche posizioni, si facevano assomigliare alle statue marmoree degli atleti greci. In lontananza s’intravedevano tanti puntini neri che sembravano delle formiche in fila, erano le contadine che risalivano i sentieri verso i loro poderi, mentre da valle, dove il greto del torrente si allarga in tutta la sua ampiezza, arrivavano le voci delle donne impegnate a fare il bucato, utilizzando come detersivo la cenere messa da parte durante l’inverno.
L’estate passava spensierata e gioiosa su quelle rocce baciate dal sole e cullate dalle leggere folate di vento, ridendo di gusto e fantasticando sull’ars amatoria delle donne. Tra un racconto e l’altro le mani scivolavano inesorabilmente sul proprio sesso trastullandolo sempre più velocemente in una e vera propria sfida a chi riusciva a bagnare per prima le foglie di fico. Il vincente era sempre l’Ostrogoto che andava fiero dei suoi record, facendo sentire tutti gli altri delle vere e proprie lumache, ma come diceva il nonno di Riccardo, bisogna sempre contestualizzare il tutto
. Le prestazioni dell’Ostrogoto, infatti, che in quel contesto fanciullesco privo di qualsiasi esperienza sessuale sembravano delle super prestazioni, si rilevarono più tardi delle pessime performance. La rivincita i ragazzi se la presero alcuni anni dopo, quando per la visita militare si recarono nella Città sul Mare e approfittarono per far visita alle tappinare [⁵] . Al momento di saldare il conto, l’Ostrogoto sbottò furioso: «Non è giusto che io paghi la stessa cifra dei miei amici quando sono stato con la tappinara la metà del tempo che sono rimasti loro!».
Un pomeriggio di una domenica d’agosto, l’Ostrogoto ebbe la cattiva idea di sdraiarsi sulle lastre di roccia con un ramoscello di oleandro tra i denti, dopo circa mezzora iniziò a vomitare con il cuore che gli batteva come un forsennato, poi svenne ma per fortuna si riprese subito, anche se rimase in uno stato di assopimento per molte ore. I ragazzi non sapevano che l’oleandro potesse essere una pianta mortale. La sera Riccardo raccontò l’episodio alla nonna, la quale commentò: «L’oleandro è un fiore tanto bello quanto velenoso, ma la natura è strana, si diverte a creare queste contraddizioni». E alla fine concluse: «Il destino di ognuno di noi è segnato . Si vidi ca non era distinatu i mori [⁶] » .
Quest’affermazione di donna Rosa riprendeva l’adagio che il destino di ognuno di noi è già scritto, per questo quel giorno per Tano l’Ostrogoto non era giunta l’ora di morire. Molti anni dopo Riccardo ricordando l’accaduto ad El Pas ne ottenne una spiegazione scientifica. L’amico gli raccontò che già nell’antichità usavano l’oleandro per preparare infusi mortali perché tossico. «Questa caratteristica – proseguì – è dovuta a particolari molecole in grado di alterare il ritmo cardiaco». L’Ostrogoto tra tutti i ragazzi della sua età era il più bello e il più ambito delle donne, ma quando lo sentivano parlare la maggior parte di loro scappavano a gambe elevate. Le poche ragazze che rimanevano si dileguavano dopo cinque minuti, perché tanta era la durata del suo vocabolario linguistico e una volta esaurito, non sapendo più cosa dire, decideva di andare subito al sodo saltando completamente tutte le fasi preliminari che un buon corteggiamento richiederebbe. Il nomignolo Ostrogoto glielo aveva affibbiato la professoressa in quinta elementare. Spazientita dal fatto che dopo cinque anni non era riuscito a imparare le più semplici regole di grammatica, un giorno sbottò: «Sei irrecuperabile, secondo me i tuoi avi avevano discendenze ostrogote. Purtroppo ognuno nasce con un destino già scritto e il tuo è di essere bello esteticamente, ma nello stesso tempo insignificante intellettualmente». E concluse il suo sfogo citando il Leopardi: «La natura con te è stata madre di parto e dal voler matrigna». Gaetano Arruso, alias Tano l’ostrogoto, aveva un fratello di due anni più piccolo, Augusto detto Tino, meno bello di lui, quasi bruttino, che nonostante la giovanissima età aveva una scioltezza e una capacità linguistica fuori dal comune, purtroppo un triste destino lo volle recidere quando ancora non era completamente sbocciato.
III
Il parroco del piccolo paese dalla forma a ventaglio era don Mario Ciuffo. Originario di un villaggio vicino, aveva sempre esercitato la sua missione ad Atropos, dove era rispettato e riverito da tutti anche se non lesinava a lanciare dal pulpito dei veri e propri j’accuse nei confronti della popolazione quando questa, a suo dire, usciva dal seminato. Come quella volta in cui gli abitanti del luogo accecati dall’odio decisero il destino di una sventurata. Quel giorno, un mercoledì di fine ottobre, fu un maledetto pomeriggio da cani.
La gente incitata dall’evento, sfogò violentemente tutta la collera accumulata negli anni, comportandosi come tanti cani randagi pieni di rabbia pregressa. Non era trascorsa nemmeno una settimana da quando a Paccia nella sua lucida follia aveva salvato la vita a un ragazzino, tirandolo dal fosso, che adesso le persone del luogo nel loro lucido raziocinio – di cui andavano orgogliosamente fiere – strattonavano la povera Teresa. Finalmente libere da tutta quell’ipocrisia che per tanti anni avevano tenuto perbenisticamente a cuccia, nascosta in un finto moralismo, con la bava alla bocca la insultavano e se la contendevano tirandola per la sottana, come le iene fameliche si contendono le loro prede. Sembrava avessero perso il lume della ragione e ogni sentimento di umana compassione. Tutte le persone, che quel giorno non si trovavano a lavorare nei campi, erano in piazza intorno a un furgoncino bombato di colore bianco con una grande croce rossa e i finestrini protetti da grate metalliche. Il personale medico, tutto vestito di bianco, era riuscito a farsi largo in quella baraonda e aveva messo a Teresa la camicia di forza. Tranne le gambe tutto il suo corpo era bloccato da quell’orrenda costrizione. Mentre le donne intorno continuavano a urlarle i loro improperi, Teresa impuntò i piedi, non voleva entrare nel furgoncino. In tutta quella confusione, nonostante si dimenasse con le gambe, non proferì mai parola, non un grido si levò dalla sua bocca.
Ormai senza più forze, prima di rassegnarsi all’inevitabile destino e salire sul furgoncino, si girò di scatto e fissò – con uno sguardo misto a rassegnazione e a compassione – per l’ultima volta le sue compaesane. Poi come una belva la spinsero violentemente dentro e chiusero la portiera serrandola anche dall’esterno. Molti ancora oggi ricordano quel suo ultimo sguardo che ebbe l’effetto di una spada sulle loro coscienze. Don Ciuffo in tarda serata, di rientro da una visita a un amico sacerdote, messo al corrente dal Cireneo s’indignò non poco e con tono spregevole disse: «Ho a che fare con persone che si nascondono dietro all’emotività dello sdegno e alla prima occasione dimostrano tutta la loro intolleranza verso i diversi, non soffermandosi nemmeno per un istante a scrutare nei propri cuori in cerca di un barlume di pietà. Oggi i nostri concittadini con le loro menti offuscate dall’odio non hanno saputo discernere il bene dal male e hanno deciso le sorti di questa povera donna. Perché tanto odio, amico mio?». La classica goccia che aveva fatto traboccare il vaso era stato un episodio successo qualche giorno