Viaggio a Settentrione
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Anteprima del libro
Viaggio a Settentrione - Domenico Liguori
DOMENICO LIGUORI
VIAGGIO A SETTENTRIONE
"Addio - disse la volpe – Ecco il mio segreto.
E’molto semplice, non si vede che col cuore.
L’essenziale è invisibile agli occhi".
Antoine de Saint-Exupery
Da Il Piccolo Principe
18 luglio
Dalla parte del sole si stendono nel cielo dei vapori giallo porporini che indorano la neve. Non fa freddo: due o tre gradi sotto zero, appena.
Un vento leggero ha portato via la nebbia nella quale ho camminato tutto il giorno: quello convenzionale, naturalmente, perché qui il giorno dura sei mesi.
Ora lo sguardo può spingersi lontano, sulla uniforme distesa candida segnata dalle ombre azzurrine proiettate dalle asperità.
La banchisa è molto regolare, verso nord. Quasi come una strada.
La carta dice che sotto di me, oltre lo spessore del ghiaccio, l’oceano è profondo tremila metri. E’ più angoscioso pensare a questo abisso piuttosto che alle distese sconfinate da cui sono circondato. Speriamo che il ghiaccio regga. Comunque non si sentono rumori, e questo è un buon segno.
Ho montato la tenda e l’ho ancorata con blocchi di neve. Anche se non sono affatto stanco devo rispettare rigorosamente i tempi di marcia e di riposo. E poi ci sono i cani, abitudinari, come se avessero un orologio nello stomaco. Mi hanno raccomandato di non staccarli mai dalle tirelle lunghe, per evitare che allontanino. Seguo fedelmente quelle istruzioni; ma non per Leo.
Leo è un samoiedo dal pelame fulvo, col muso aguzzo e gli occhi obliqui da esquimese (o da lupo?); ma è un amico. Non potrei tenerlo legato. Non lo faccio entrare nella tenda solo perché non c’è abituato, e probabilmente avrebbe troppo caldo.
Le mie vacanze sono finite ieri, in un punto imprecisato del pack, tra le Svalbard e il capo Nordost, nella terra del Principe Cristiano. Se non ho sbagliato i calcoli, a 82 gradi di latitudine nord, proprio sul meridiano di Greenwich. Adesso è un’altra cosa; più seria, molto più seria.
Anziché proseguire nella pista ho girato a settentrione.
Almeno lo spero, perché non sono certo di interpretare correttamente le tavole di declinazione magnetica per correggere la bussola.
Se continuo a percorrere trenta chilometri al giorno, e se i cani ce la fanno…
Sono pazzo?
Non mi sembra. Sto dettando queste note a un piccolo registratore. E’ comodo non devo nemmeno sfilarmi il guanto di lana. Che progressi dai tempi di Amundsen e di Nansen! La mia tenda pesa pochi chili e si monta in un baleno; basta una tavoletta di meta grande come un biscotto per riscaldarla.
Del resto il pieghevole dell’agenzia di viaggi assicurava il massimo dell’avventura con il massimo della sicurezza. Un trekking solitario sulla banchisa: l’ultima sfida.
Ma forse non era proprio l’ultima. Io stesso non mi aspettavo di cambiare strada così radicalmente verso l’ignoto.
Non ho deciso da solo, però. Ne ho parlato prima con Leo, il capomuta, l’unico in grado di capire.
E’ stato quando mi sono fermato a fare il punto con il sestante, a mezzogiorno, ora locale.
"Vedi – gli ho detto – siamo proprio sul meridiano zero, sul padre di tutti i meridiani. Il polo è là, a trenta giorni di cammino. I viveri bastano per due mesi. Che facciamo? Siamo arrivati così vicini…."
Leo non mi ha risposto nulla, naturalmente; nel senso che non ha parlato. Ma mi fissava, con i suoi occhi azzurri velati dalle lunga ciglia, seduto, le orecchie ritte. Sembrava che fosse d’accordo.
"Posso farcela, se tu vuoi – pareva dicesse – anch’io non desidero tornare. Nulla di quello che ho lasciato mi interessa al punto da trattenermi".
Ho steso la mano ad accarezzarlo dietro le orecchie e lui ha spinto il naso contro il mio petto scuotendo il capo.
E’ stata una pazzia? Leo è uno che se ne intende. Se ha accettato di venire vuol dire che si può fare. Lui lo sa dove stiamo andando!
Adesso riposa accucciato davanti alla tenda, nella luce dorata. Sentendomi parlare ha alzato un orecchio e aperto un occhio, con una comica espressione interrogativa. Chissà cosa pensa. Chissà cosa pensa di me in particolare.
Sto deliberatamente menando il can per l’aia, come si dice. Anche io vorrei sapere perché l’ho fatto. E fra tutti credo di essere il primo a cui debbo una risposta. Forse amo la solitudine, e qui intorno ce n’è a volontà: basta allontanarsi qualche passo dai cani e sembra di essere nel primo giorno della creazione.
E’ possibile; non ho mai amato la folla, né il rumore. Certo ci si adatta a tutto; ma ci vuole tempo e, per adattarsi, bisogna accettare di cambiare. Finché si comprende che cambiare vuol dire logorarsi, consumare la propria fibra, invecchiare troppo ogni giorno.
Quanto ci metterei per imparare a