Chi nicchi e nacchi
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Anteprima del libro
Chi nicchi e nacchi - Raimondo Moncada
Ringraziamenti
Dedica
A mamma Sara
che,
in siciliano e con un siciliano,
mio padre Gildo,
mi ha desiderato, concepito, generato e cresciuto
tra gli infiniti suoni e profumi della mia terra
Lu diamanti
Un jornu ca lu Diu Patri era cuntentu
e passiava ‘ncelu cu li Santi,
a lu munnu pinsau fari un presenti
e di la cruna si scippau un diamanti;
cci addutau tutti li setti elementi,
lu pusau a mari ‘nfacci a lu livanti:
lu chiamaru Sicilia li genti,
ma di l’eternu Patri è lu diamanti.
(anonimo siciliano)
INTRODUZIONE
La mia lingua, la mia vita
La vergogna del dialetto dopo l'innocenza della lingua. Parlo del mio intimo idioma. Sono nato in una famiglia dove si è sempre parlato il siciliano. È stata la lingua ufficiale. Sono stato concepito in una casa, in un quartiere, dove pure l’aria profumava di siciliano. Le prime vibrazioni nella pancia di mia mamma Sara sono state provocate da suoni siculi. Quando sono venuto al mondo, la gioia dei miei genitori è stata espressa nella lingua dei loro genitori. Mi hanno chiamato come mio nonno paterno, Raimondo. Un nome, cosa curiosa, che non ha mai subito storpiature o sicilianizzazioni. Mai sono stato chiamato Ramunnu, Ramù, Munnu, Munniddu, Munnì.
Sono, dunque, cresciuto parlando il siciliano con mia sorella Rosina, i miei fratelli Giuseppe, Federico, Alessandro. Ho giocato parlando in siciliano, nel cuore del centro storico di Agrigento e poi nella periferia del Villaggio Mosè. Con i nonni che ho conosciuto, Rosina, Carmela, Giuseppe, ho parlato la loro lingua. Con nonno Raimondo non ho mai parlato di presenza. È morto al rientro nella sua Sicilia, subito dopo la tragedia della seconda guerra mondiale. Allora ero solo tra i desideri di mio padre.
Ricordo che a ogni evento si dava una definizione, si rievocava un proverbio, una saggezza, un modo di dire, un guizzo poetico, una spiritosaggine. Mi è rimasto impresso il giorno in cui nonna Carmela si avvicinò a me dopo aver udito un inequivocabile rumore e sentito un improvviso mutamento d’aria. Prima di lasciarsi andare all’evento meteorico, mi suggerì di anticiparlo dicendo al pubblico presente: Scusati la genti ca lu piritu è fitenti, si nun mi vuliti ascuntari lu piritu a jttari!
. Ero molto legato a nonna Carmela, mamma di mia mamma. Da piccolino mi piaceva trascorrere nella sua casa di Palma di Montechiaro le vacanze estive. Io e lei, da soli.
Il siciliano è stato per me la lingua familiare con cui ho dato il nome alle persone, ai sentimenti, alle cose. Ogni parola ha avuto sostanza di vita, impregnata delle mie continue scoperte, della mia quotidianità: i primi vagiti, le prime parole, le prime richieste, le prime arrabbiature, le prime soddisfazioni. Tutto in siciliano: il mio corpo, la mia anima, la mia espressione, la mia oralità, il mio contatto con l’esterno, le mie introspezioni. Ho costruito il mio mondo con questa lingua.
Pur nei limiti del mio carattere tendenzialmente introverso, così come mio padre, che mi ha trasfuso arte e ironia, mi sono espresso in siciliano dall’età di due anni e mezzo (ho cominciato ad articolare parole con il mio comodo). L'altra lingua la ascoltavo, nel televisore in bianco e nero, all'asilo e alle elementari, dai professori o da alcuni compagni, tra gli amici di mio padre. L’italiano lo capivo e lo parlavo anche in isolate occasioni, ma preferivo esprimermi con continuità e naturalezza sempre nella mia lingua, senza alcun problema.
Questo nel felice mondo dell'innocenza.
Poi sono arrivate le scuole medie, l’uscita dalla placenta familiare, ed ecco il trauma: la lingua con cui esprimersi a scuola e nella nuova quotidianità urbana doveva essere l’italiano. Il siciliano l’avrei dovuto dimenticare. Sembravo sempre più un pesce fuor d’acqua, in una classe dove la maggior parte dei miei nuovi compagni, figli di avvocati, medici, professionisti, si esprimeva nella lingua ufficiale, quella imposta dall’alto, con rigidi programmi ministeriali.
Un ostacolo in più per un ragazzo già chiamato a combattere contro la propria timidezza.
L’italiano – così mi veniva presentato – era sinonimo di cultura, di educazione, di bravura, di eleganza, di raffinatezza, di capacità, di competenza, di conquista. Le belle ragazze della mia scuola, la Luigi Pirandello
, parlavano tutte l'italiano. Per comunicare avrei dovuto sforzarmi, ancor di più delle interrogazioni in classe dove mi aiutavano le lezioni studiate su testi in lingua italiana, ripetute a casa ad alta voce e impresse nei nuovi cassetti della memoria.
Il mio siciliano è diventato di colpo un handicap. La mia lingua madre l’avrei dovuta cancellare dai miei programmi mentali. Il nuovo mondo me la faceva vivere come un volgare dialetto parlato per lo più da ceti bassi, incolti, non degni di considerazione. Un marchio di infamia il cui dolore ho provato, forte, sulla mia pelle, al primo compito in classe di italiano. Non rammento l’argomento, ma ricordo ancora bene quello che successe dopo la correzione. Svolgo il mio compito in classe pensando di averlo scritto bene, con ricchezza di contenuti,