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Storie di una Vita (intorno al mondo)
Storie di una Vita (intorno al mondo)
Storie di una Vita (intorno al mondo)
E-book474 pagine6 ore

Storie di una Vita (intorno al mondo)

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Info su questo ebook

Storia della vita di Franco, un uomo dall’infanzia vissuta fra molte difficoltà: gli strascichi della seconda guerra mondiale, le precarie condizioni economiche, ma poi, sia per la sua buona volontà, sia per un pizzico di fortuna è riuscito a raggiungere obiettivi per lui inimmaginabili. Dall’attraversamento dell’oceano Atlantico durante il servizio militare nella Marina fino ai molti viaggi in giro per il mondo per la sua attività lavorativa. Fra i luoghi visitati il Pakistan, Giordania e Siria, la Colombia, l’Egitto e il Mozambico; una vita sempre in viaggio, sempre alla ricerca del confronto con gli altri, imparando molto sulle complessità dell’animo umano e sull’amore, senza però mai dimenticare le proprie orgini e la propria famiglia.
LinguaItaliano
Data di uscita25 giu 2016
ISBN9788856778182
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    Anteprima del libro

    Storie di una Vita (intorno al mondo) - ZapPin

    Albatros

    Nuove Voci

    Ebook

    © 2016 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l. | Roma

    www.gruppoalbatrosilfilo.it

    ISBN 978-88-567-7818-2

    I edizione elettronica giugno 2016

    Sul finire della 2ª Guerra Mondiale (1944)

    La primavera s’affacciava pressoché puntuale. I fiori sbocciavano tutti insieme. I prati si tingevano dei più svariati colori. L’aria profumata. Il sole illuminava quella meraviglia facendo gioire chi aveva la fortuna di passare da quelle parti.

    Questo accadeva anche se la guerra era in corso, quasi alla fine.

    Grazie a Dio la guerra terminò. Erano gli anni della ricostruzione.

    La gente viveva di quel poco che la guerra lasciò: una guerra non lascia mai il necessario.

    Roma iniziava a scaldarsi. La sera non era piacevole andare a dormire in una stanza di appena dieci metri quadrati. Un solo grande letto, io e il mio fratellino Mauro, dal lato opposto, ci addormentavamo guardando quei grandi piedi dei nostri genitori.

    La nostra casa era a due passi da Piazza San Pietro: Via di Porta Angelica. Di fronte le mura Vaticane con la Porta di Sant’Anna.

    Roma - Via di Porta Angelica

    Dividevamo un appartamento di 3 stanze più mono servizi, proprietà del Vaticano, con altre due famiglie. Pietro e Adalgisa, due anziani signori i quali avendo ottenuto in affitto la suddetta casa, a loro volta avevano affittato una stanza a mia zia Maria (sposata con lo zio Patrizio).

    Agli inizi del 1944 anche mia mamma si sposò e con mio padre andammo ad occupare l’unica stanza rimasta libera. Dico andammo in quanto, anche se non avevo ancora visto la luce del sole, ero pur vivo nel grembo di mia madre. Naturalmente a noi sarebbe toccata la stanza più piccola: l’unica rimasta. Ho sempre saputo che mio padre quando conobbe mia madre, faceva il panettiere in un forno della capitale: zona Prati, Via Leone IV, a circa cento metri dai Musei Vaticani.

    La prospettiva che il pane non mancasse nella casa paterna è stata la molla che spinse mia madre a sposarlo.

    Mia madre amava un ragazzo il quale partito per la guerra, non poté più dare sue notizie.

    Fin dall’età che la mia mente possa ricordare, non ho mai visto mio padre portare quel pane per il quale mia madre lo sposò, egli cambiò lavoro; faceva il manovale edile in una impresa di costruzioni.

    Per amore della verità devo dire che non ci fu nessun interesse materiale (personale) da parte di mia madre che l’avesse indotta a sposarlo. La mamma, sesta femmina nata, dopo di lei un maschietto, nella sua casa paterna viveva con altre due sorelle sposate con prole, quindi anche quattro nipotini.

    Quando tentava di lasciare mio padre, egli non portava più il pane in quella casa, provocando le ire delle mie zie (vedendo mancare il pane ai loro bambini) contro mia madre: «Viola! – questo era il nome di mia madre – Perché lo respingi?! È un brav’uomo, vedrai che col tempo l’amore verrà, non vedi che i bambini piangono? Hanno fame…».

    Cosicché, vedendo questa triste situazione, tirò avanti sino a che accadde ciò che per quei tempi era impossibile rinunciare alla riparazione.

    I miei ricordi mi portano ad una infanzia vissuta sì, tra mille difficoltà, ma conservo dei ricordi molto belli: quelli che ti portano a comprendere di quali sacrifici sia capace una madre per i propri figli, cosa che ai giorni d’oggi non c’è possibilità di verificare, ossia quanto è grande l’amore di una madre per la mancanza del cosiddetto Pane quotidiano (Evviva Iddio! - Almeno per il mondo occidentale).

    Sono vivi nella mia mente i viaggi che io e Mauro facevamo dallo straccivendolo di Borgo Pio, per venderle qualche cencio vecchio ritrovato a fatica e racimolare le poche lire per comperare qualcosa da mangiare.

    Piazza San Pietro era il nostro campo di calcio, la nostra pista ciclabile (ma chi possedeva un pallone e tanto meno una bicicletta?) la grande meta delle nostre passeggiate serali durante i mesi caldi.

    Avevamo vicino anche i giardinetti di Piazza Risorgimento, ma la mamma non era molto propensa a vederci sporchi di terra. Preferiva portarci ai giardinetti soltanto qualche pomeriggio, perché spesso sostava il teatrino delle marionette: quante bastonate tra Pulcinella e la guardia che lo arrestava.

    Durante l’estate, dopo un frugale pasto, la mamma ci portava a fare delle passeggiate: camminando e giocando si finiva col tornare a casa stanchi e potevamo addormentarci come descritto.

    Può darsi che ci teneva proprio a farci stancare, almeno ci si poteva dimenticare della fame. I miei cugini: Gianni e Maurizio (figli di zia Maria e dello zio Patrizio) erano più fortunati di noi, il loro padre aveva un buon impiego, inoltre era una persona molto giudiziosa.

    Mentre il nostro era una persona molto occupata: il giorno in cantiere, la sera fino a notte inoltrata in osteria. Dato il suo rincasare molto tardi, a volte passavano tre o quattro giorni senza che io e Mauro potessimo vederlo. Una delle pareti della nostra stanza dava sulla rampa della scala e non avendo le chiavi di casa (fare una copia aveva un costo) e non potendo suonare il campanello: sia per non svegliare chi dormiva, sia per non far capire l’ora del rientro ai coinquilini, col pugno della mano batteva sulla parete e mia madre, con molta cautela, andava ad aprire la porta.

    Molte volte c’era la battuta sarcastica di mia zia Maria o della signora Adalgisa sul rincasare tardi di mio padre.

    La mamma doveva sempre fare salti mortali con i soldi. Una sera d’estate, dopo vari tentativi andati a vuoto, riuscì a farsi prestare dei soldi per farci cenare: una scodella di caffè-latte con un po’ di pane, dopodiché ci portò a Piazza San Pietro a giocare. Mauro chiese di comperarle un gelato, la risposta era ovvia: «Tesori miei, la mamma non ha un soldo».

    Era una notte calda, molto buia per la mancanza di luna, ai piedi delle colonne quattro angolini per sederci. Erano tutti occupati, trovammo un solo triangolino dove si sedette la mamma e noi attaccati a lei. In quel buio notammo un pochino a fatica, che si stava liberando un altro triangolino della stessa colonna, credo da una coppia di fidanzatini i quali vedendosi disturbati dalla nostra presenza, preferirono allontanarsi.

    Prendemmo possesso di quei posti come prendere chissà cosa. Intanto Mauro continuava a chiedere quel gelato che la mamma non poteva comperarci; essendo più piccolino, non comprendeva la situazione e piagnucolando sperava chissà a quale miracolo. Il miracolo avvenne!

    Erano trascorsi alcuni minuti da quando occupammo i nuovi posti, intanto gli altri due angoli della colonna si erano liberati e come per gioco, io e Mauro correndo, giravamo intorno alla colonna occupando quando un’angolino di posto, quando l’altro. La mamma ci esortava alla calma: aveva paura che potevamo cadere facendoci male.

    Base della colonna

    Poi, un pochino stanchi, ci fermammo attaccandoci alla gonna della mamma. Alcuni minuti più tardi, la mamma notò alcuni foglietti di carta in terra; ci chiese di raccoglierne almeno uno per vedere cosa fossero. Lì per lì pensò che fossero dei volantini. Mauro ne raccolse uno, due, tre, poi con un’esclamazione che ancora ricordo gridò: «Mamma! So’ quatrini!». Erano nove fogli da cento lire l’uno. Dopo più o meno quindici minuti racchiudevamo tra le mani un bel cono gelato.

    Con quei soldi il giorno seguente la mamma poté ripagare il debito che aveva aperto per farci cenare. Intanto era giunto l’anno Santo – 1950 – io avevo sei anni e Mauro cinque.

    In quella casa di Via di Porta Angelica nel giro di due mesi nacquero due bambine: a settembre Sonia per la zia Maria, a ottobre Manuela la nostra sorellina.

    (Veramente Manuela nacque gemella con un maschietto che non venne mai a casa: morì dopo dodici ore, o giù di lì).

    Il nostro letto diventava sempre più piccolo.

    La scuola

    Col fatto che la mamma partorì a Ottobre, nessuno pensò di farmi iniziare la scuola elementare. Per dei motivi, che ancora non so spiegarmi.

    A soli cento metri dal domicilio, vi è la scuola elementare Luigi Pianciani della quale avremmo dovuto usufruirne, ma a causa della guerra, fungeva da abitazione per molte famiglie che avevano perso la loro casa. Pertanto venni iscritto alla Scuola Elementare Umberto I, distante circa un chilometro e poco più. Mia madre mi portò a scuola dopo le feste Natalizie: dopo l’Epifania.

    La direttrice della scuola disse che avrebbe potuto accettarmi prima della fine dell’anno solare –1950 – ma non in quel momento. Ormai i ragazzi erano troppo avanti, avrei rallentato il percorso di istruzione.

    Mia mamma le disse che sapevo leggere e scrivere da oltre un anno e mezzo.

    La direttrice, un pochino incredula, ci mandò nella classe prevista, lasciando alla maestra di valutare se poteva accettarmi. La stessa, signora Annalisa, disse subito che era impossibile. Rimase perplessa quando fu informata del mio stato avanzato di apprendimento.

    «Le mamme esagerano sempre…» disse la maestra. La mamma chiese di mettermi alla prova. Ella accettò. Mi diede il gesso e mi mandò alla lavagna.

    Cominciai a scrivere qualcosa come: Bar, Farmacia; Osteria; Merceria. Tutte insegne che leggevo quando mia mamma mi portava a passeggio.

    Poi la maestra prese un libro ad uno dei bambini e me lo mise davanti invitandomi a leggere diverse parole. (Probabilmente pensò che quanto scrissi, lo feci a memoria). Lessi veramente bene. «Sissignora, è proprio bravo – rispose la maestra – Si vede che legge e scrive da molto tempo. Come ha imparato?».

    La mamma le spiegò che quando leggeva il giornale Rugantino le chiedevo sempre di voler imparare a leggere e a scrivere: così imparai.

    La maestra mi prese con gioia, complimentandosi con la mamma.

    Iniziai così la prima elementare. La maestra poche volte mi chiamava per nome. Il più delle volte mi chiamava il bravo della classe. Oggi penso che non sarebbe stato giusto, più di qualche bambino l’aveva un pochino con me.

    Ricordo che in un dettato in classe, la maestra mi diede uno zero spaccato. Sì, c’era anche questo voto: dopo lo zero, veniva lo zero spaccato e stava a significare il più basso voto in assoluto. Sfociai in un pianto dirotto. Quasi tutta la classe esultò e iniziò un coro: «Somaro, somaro, somaro…».

    «Eh no! – intervenne la maestra – Somaro proprio no! Lo zero lo ha meritato sì, ma non perché è somaro, grammaticalmente non ha sbagliato nulla, proprio nulla, neanche un piccolissimo errore, ma ha presentato il dettato pieno di macchie d’inchiostro e questo non va bene affatto. Ora sono certa che in futuro non farà più macchie».

    Quell’intervento placò il sorriso dei miei compagni e di conseguenza le mie lacrime.

    Di certo non si aveva la penna biro. La penna era costituita da un bastoncino di legno (cominciavano a trovarsi anche di plastica: costavano di più…) dove veniva posto un pennino alla base. In ogni banco di scuola vi era posto per un paio di calamai colmi d’inchiostro. Si attingeva il pennino e si scriveva. Non era proprio difficile fare delle macchie. Specialmente quando il pennino non era più nuovo. Non erano molti i bambini che lo potevano cambiare al primo segno negativo. Si tirava avanti fino a quando non si poteva più scrivere.

    Comunque, a prescindere dal pennino, quelle grosse macchie, furono per distrazione o per poca voglia di scrivere al momento.

    Dal momento che per la scuola mi aggiunsi ai miei cugini Gianni e Maurizio, tra la mamma e la zia Maria vi era una alternanza giornaliera nell’accompagnarci a scuola. L’anno successivo si aggiunse il mio fratellino Mauro. Percorrevamo tutta via Crescenzio, un viale tutto alberato che va da Piazza Risorgimento a Piazza Cavour. La scuola elementare Umberto I si trova, ancor oggi, più vicina a Piazza Cavour che non a Piazza Risorgimento.

    Noi ragazzini ci soffermavamo a guardare gli alberi uno ad uno; alcuni avevano come una sorta di apertura verticale, altri piccole protuberanze e così ci divertivamo a definire il sesso dell’albero: questo è maschio, questo è femmina. La cosa si ripeteva al ritorno.

    (Non avevamo tante cose per divertirci; ci bastava poco).

    Le nostre mamme ci sgridavano, credo ritenevano scandaloso quel gioco. (Se pensiamo ai tempi d’oggi… viene proprio da ridere).

    Il passatempo nei mesi caldi

    Appena sotto casa vi era, e c’è tutt’ora, un’edicola. Allora era gestita da due baldi giovanotti sulla trentina. A causa dell’orario continuato e della lontananza dalle loro case, sovente chiedevano alla mamma e/o alla zia Maria di cucinarle delle uova o cose del genere. Naturalmente dopo averle elargito il necessario.

    Pertanto, al sottoscritto, al mio fratellino Mauro e ai miei cugini, seduti sul marciapiede vicino all’edicola, ci permettevano, gratuitamente, di vedere vari giornalini: Topolino, Paperino, Il Corriere dei Piccoli, ecc...

    Un altro passatempo era sederci sullo stesso marciapiedi e contare le automobili che percorrevano la via, nonché la gara a chi conosceva il nome dell’automobile stessa. A volte passava molto tempo tra un’auto e l’altra.

    Un pomeriggio d’estate, sempre seduti sul marciapiede, notammo lo zio Piero a distanza che da via Ottaviano si dirigeva a prendere servizio di tassista (o tassinaro) all’altro lato della Piazza San Pietro. Attraversammo la strada correndo (il pericolo del traffico di allora era quasi inesistente) per salutarlo. Lo zio ci elargì cento lire per il gelato. Figurarsi la nostra gioia. Di corsa verso la gelateria in fondo a Borgo Pio, per un cono gelato da venticinque lire cadauno (erano più grandi rispetto alle gelaterie più vicine).

    Nel periodo di chiusura della scuola, vi era la possibilità di trascorrere un mese in una scuola (trasformata a struttura turistica) in altre città o paesi lontane dalle città/paesi d’origine: mare o montagna. Importante essere nell’età dai sei anni compiuti e prima del compimento dei tredici anni. Grazie alla parrocchia, la mia prima colonia fu Meina, cittadina sul lago Maggiore in provincia di Novara. Un viaggio molto lungo. Non sono molti i ricordi, ma alcuni per me, incancellabili. Ogni giorno le assistenti ci portavano in pineta a giocare. C’era un prato con una discesa che ci permetteva di sdraiarci e scendere rotolando per una decina di metri o poco più. Ci divertiva molto.

    Una delle assistenti, da un mattone forato fece due striscette e mettendole tra le dita, le faceva suonare come delle nacchere. Naturalmente eravamo, almeno io, troppo piccolini per poterla emulare.

    In questa pineta vi era come un gazebo con un tavolo al centro. Un giorno vi ero seduto giocando proprio con dei pezzi di foratini trovati in terra. Li maneggiavo per emulare la nostra assistente, ma non riuscendo li buttai in aria senza pensare dove sarebbero potuti cadere. Purtroppo dopo alcuni secondi un bambino piangeva: il mio sasso era finito sulla sua testolina ed erogava un po’ di sangue.

    Nessuno mi aveva visto compiere quell’insensato gesto ed io me ne guardai bene dal dire essere il colpevole. Anche se non fu intenzionale.

    Questa vacanza mi fece pensare che a casa qualcosa non andava sull’alimentazione.

    Colazione con latte e biscotti; a pranzo primo, secondo, contorno e frutta; per merenda fetta di pane con cioccolata o marmellata o formaggino ed infine a cena ancora primo, secondo, contorno e frutta. Chi aveva visto mai tanto cibo, regolarmente ogni giorno?

    Un’altra foto nella mia mente è il viaggio di ritorno a Roma.

    Eravamo in stazione in attesa del treno, rimasi impressionato vedere avvicinarsi la motrice a vapore, molto grande, molto rumorosa e molto vapore (per me era fumo).

    1950 - Motrice a vapore

    Ogni anno andai in colonia, mai più con distanze come questa.

    Il secondo anno andai a Frascati, una ventina di chilometri da Roma. Ricordo che c’era un bambino che diceva di avere un piccolo aeroplanino (dimensioni di una macchinina a pedali) che poteva volare fino ad una altezza di tre o quattro metri. Le dissi che l’avevo anch’io.

    Passavamo il tempo a raccontarci le peripezie reciproche con questi aeroplanini. Lui credeva che io l’avessi davvero, come io credevo che l’avesse lui: quanto lo invidiavo…

    Il Collegio

    Con Mauro riuscimmo a trascorrere un periodo di due anni in un collegio dei Padri Missionari del Sacro Cuore in un ameno paese in provincia di Latina: Marina di Minturno.

    La parte frontale dell’istituto era caratterizzata da una Pineta: ci si andava a giocare a pallone. Avevo otto anni, amavo il calcio sin da piccolino, molte volte mi facevano giocare con i più grandicelli. Ricordo la prima divisa calcistica, era del Genoa; mi sentivo importante anche se dovevo arrotolare maniche e pantaloncini, tanto ci nuotavo dentro. Ricevevo spesso i complimenti dai ragazzini più grandi. Il più grande si chiamava – o lo chiamavano – Napolitano. Sì, come il nostro ex Presidente della Repubblica. Non so descrivere come lo sentivamo: come una specie di capo-classe. Era l’unico ragazzino grande. Aveva appena compiuto quattordici anni. Eravamo tutti tra i sei e gli undici anni. Era lui che decideva chi giocava al calcio, che assegnava le magliette della squadra di calcio. Era lui che la domenica pomeriggio organizzava l’ascolto via radio del secondo tempo di una partita di calcio del campionato italiano di serie A. Il retro della struttura dava direttamente sul Tirreno, una grande spiaggia: cinquanta metri dal mare, sui lati, ampissimi spazi. Guardando il mare sulla destra si scorgeva il promontorio di Scauri, sulla sinistra Monte d’Argento.

    Un posto bellissimo. Ci sono tornato un paio di anni fa appositamente per vedere quante cose sono cambiate (ahimè, in peggio). La struttura è stata limitata: la chiesa e la parte abitativa per il personale clericale. Naturalmente non viene più usata come collegio per orfani e/o per i meno abbienti. Grazie a Iddio la guerra é un ricordo lontano.

    In quei tempi, nella scuola, quando non si sapeva la lezione si usava spesso essere puniti dagli insegnanti con una bacchettata sulle mani.

    Un giorno il maestro ci interrogò su una lezione di scienze; nessuno degli scolari ne studiò un solo rigo, passammo tutto il pomeriggio del giorno precedente in pineta a giocare al calcio.

    Potevamo sapere soltanto ciò che rimase nelle nostre menti di quanto spiegò il maestro. Evidentemente, avendo saputo della nostra mancanza, volle ascoltarci tutti. Iniziò per ordine alfabetico. Iniziò ad interrogare ed ognuno dei miei compagni accennava qualcosa, ma poi si inceppava; tutti presero la bacchettata sulla mano. Venne il mio turno: fui l’ultimo poiché il mio cognome inizia con la z.

    Povero me, pensai consapevole di non aver studiato nulla. Comunque, avendo ascoltato tutti i miei compagni; chi spiegò una cosa giusta tra le errate, chi altra, fatto sta che riuscii a dire molte cose e prendere un bellissimo nove con il maestro che esaltava il mio senso del dovere, essendo stato io l’unico (a suo dire) ad aver studiato nonostante il tempo trascorso in pineta a giocare. Lungi da me dirle che non era così.

    La vacanza forzata

    La mamma avrebbe voluto che ci fossimo restati per un periodo più lungo possibile, almeno si poteva mangiare e dormire in un letto decente, nonché studiare (studiare... mi sarebbe piaciuto molto).

    Purtroppo sembrava che i padri Missionari non potevano essere tali in Italia. Il primo anno, il costo della retta era attinente (mica tanto) alle risorse famigliari e tutto andò bene. Il secondo anno raddoppiarono la retta e i miei non poterono pagare tale rincaro. In quel collegio frequentai la 3ª e la 4ª elementare, Mauro la 2ª e 3ª.

    Ricordo che stavamo studiando catechismo per prepararci alla prima comunione, era in palio una piccola automobile giocattolo (rossa) per colui fosse risultato 1° all’esame di catechismo. Ce la misi tutta, desideravo quella automobilina da morire; arrivai ex equo con un altro compagno: persi il sorteggio.

    Comunque ero in fervida attesa della grande giornata che si doveva svolgere la domenica successiva, quando il direttore del Collegio, Padre Benedetti, ordinò a Raffaele, un assistente factotum, di portarci a casa senza fare la prima Comunione, interrompendo persino l’anno scolastico a meno di un paio di mesi dalla sua fine naturale.

    Credo di aver provato una delle più grandi delusioni della mia vita. La gioia di mia madre nel vederci fu immensa, ma la consapevolezza di non poterci dare nemmeno la ventesima parte di ciò che potevamo avere in collegio, fece sì che s’armò di coraggio ed appena qualche giorno dopo ci riportò indietro.

    Dalla Stazione di Minturno al collegio, sito sul mare, c’è una distanza di due o tre chilometri, raggiungemmo il collegio camminando. La strada era in terra battuta ed il caldo era notevole: tutta campagna. Mia madre, notando la strada semi deserta, si appartò dietro un cespuglio per un lieve bisogno fisico, ci raccomandò di vedere ed eventualmente avvisare se vi fosse in arrivo qualcuno, ma come si sa i bambini sono quel che sono, ricordo mia madre fare un balzo cercando di coprirsi le gambe ed aggiustarsi le mutandine in modo goffo, noi non ci rendemmo conto che in quel momento stava passando in bicicletta Padre Benedetti, il Direttore del Collegio, il quale, facendo finta di niente della necessità fisica della mamma, capì che ci stava riportando in Collegio.

    Non posso ricordare come apostrofò il direttore per quel comportamento irresponsabile riguardo la carità cristiana. Il risultato fu che restammo in collegio, almeno a terminare la scuola. Oggi penso che fu costretto a riprenderci in quanto non avrebbe dovuto e potuto farci interrompere l’anno scolastico in corso.

    A quell’età il mio grande rammarico fu per aver perduto l’opportunità di fare la prima Comunione come l’avevo sognata.

    Intanto la mamma mi istruì dicendomi che qualora i Padri Missionari mi domandassero cosa vorrò fare da grande, la mia risposta doveva essere: il prete. Infatti così fu.

    C’era un prete che si chiamava Padre Ceticali, mi prese sotto la sua protezione, però io me ne vergognavo un pochino perché egli dichiarò a tutti le mie intenzioni di farmi prete, e si sa, a quell’età molti bambini mi prendevano in giro. Poi un giorno Padre Ceticali venne trasferito. Ricordo l’emozione, abbracciò tutti i bambini e celebrò l’ultima messa piangendo dall’inizio alla fine. Forse, se fosse rimasto avrei potuto prolungare la mia permanenza fino alla licenza elementare se non fino al diploma.

    (Oggi la piazza antistante al collegio è stata intitolata a Padre Benedetti).

    Rientro a casa

    Terminata la 4ª elementare, fu la fine del collegio. Ritornai a casa nel giugno del 1954.

    Di solito nel periodo estivo (a scuole chiuse) tre mesi erano destinati alle colonie: Giugno, Luglio e Agosto. Naturalmente la mamma, coadiuvata dalla chiesa, aveva programmato la colonia per quei mesi estivi.

    Sono sempre stato tre mesi in colonia: un mese in un posto, i mesi successivi in altri. L’estate del 1954 fu per me una comica.

    Partii agli inizi di Giugno per Cave, un piccolo Comune del Lazio in provincia di Roma. La fine di Giugno ritornai a casa per ripartire i primi di Luglio, sempre per Cave. Alla fine di Luglio ritornai a casa e i primi di Agosto Cave, ancora Cave.

    Ricordo le parole della direttrice nel rivedermi per la terza volta consecutiva: «Franco, ancora qui? Cosa ti hanno mandato a fare a casa? Potevi restare qui…».

    Lì per lì lo presi come un rimbrotto, ma poi vedendo la direttrice ridere di gusto mentre mi abbracciava, capii che non lo era e anche se lo fosse stato… quale colpa avrei potuto avere io? Fu l’ultima villeggiatura estiva di quell’anno.

    Le vacanze estive, come sempre, passarono velocemente.

    Giunse il primo di Ottobre e iniziai la 5a elementare alla scuola Luigi Pianciani la quale riprese la sua funzione naturale: ormai si era nel decennio dopo la seconda Guerra Mondiale.

    Non ho ancora capito se, dovuto alla miseria, alla ignoranza, alla incoscienza, o a tutte queste componenti messe insieme, nel Febbraio 1955 arrivò un’altro fratellino.

    Con quest’ultima nascita si evinceva che pur avendo dormito in cinque persone in quel solo letto per cinque anni, ora non era più possibile, la situazione economica era un disastro. Vuoi per lo spazio sempre più ridotto, vuoi per il chiasso che tutti i bambini di questo mondo provocano, le liti tra mia madre, la zia Maria e la signora Adalgisa erano sempre più frequenti. Il convivere era diventato molto problematico, insopportabile direi.

    Lo zio Patrizio (anche loro in cinque persone) vide bene di versare la cosiddetta buon uscita. Trovarono per noi un appartamento a Monte Mario (allora una zona periferica di Roma) ci andammo ad abitare con i nonni materni e la zia Franca detta Franchina (sorella di mia madre mai sposata). Era il Marzo del 1955. La scuola non era più vicina, gli ultimi tre mesi io e Mauro facemmo i pendolari col tram 27, la allora linea Monte Mario-Lungotevere Ripetta.

    Non eravamo abituati a prendere i mezzi pubblici, soprattutto da soli. Non si aveva di certo un’alternativa.

    Avevo circa undici anni, vedere una casa tutta nostra (in affitto a ventiquattro mila lire mensili da dividere con i nonni) ci sembrava un sogno. Un appartamento con tre stanze da letto, una sala da pranzo più servizi. Inoltre vi era un terrazzo che prendeva tutta la parte frontale della palazzina, fino a ripiegare per altro mezzo settore un lato della palazzina stessa, dove vi era una porticina (in ferro) che dava sulle scale. Doveva essere sempre chiusa: nessuno aveva la chiave. Dividendolo con i nonni materni era come essere tutta una famiglia.

    Per noi Monte Mario era la campagna, uno dei posti ambiti per fare delle gite fuori porta il primo Maggio, i giorni della Pasquetta e del Ferragosto.

    Dopo il Collegio non avevo più giocato a calcio. Monte Mario fu l’ideale per tale gioco. Ogni ragazzino, o quasi, giocava a pallone. Intanto la scuola era terminata. Come passare le nostre giornate? Raramente la mamma ci permetteva di scendere in strada a giocare con altri ragazzini che avevamo appena conosciuto, l’importante era che potevamo essere controllati a vista dalla genitrice.

    Una mattina, dopo aver piagnucolato per il mancato permesso della mamma a scendere in strada, ero sul terrazzo guardando per la strada. Mi consolai nel non vedere ragazzini.

    Dopo un pochino vidi Alvaro, figlio della proprietaria della casa, due o tre anni più grande di me, uscire dal portoncino con un pallone in mano. Istantaneamente suscitò in me una voglia matta di calciare quel pallone. Si mise davanti ad un muro e cominciò a calciarlo con abilità: destro e sinistro, sinistro e destro.

    Lo guardavo con ammirazione e con un po’ di invidia in quanto io sapevo usare il piede sinistro soltanto per camminare. Mi misi in testa che dovevo imparare anch’io a calciare di sinistro. Sì! Ma quando? Non avevo certo un pallone. Alvaro continuava a calciare fino a che si radunarono altri ragazzini e tutti via al campetto della chiesa.

    Quanto avrei desiderato unirmi a loro, ma la mamma non voleva che giocassi a calcio perché rompevo le scarpe. Qualche volta mi dava il permesso, ma molte volte dovevo stare in casa. D’altra parte, ora comprendo, avevo solo undici anni.

    La maggior parte del tempo lo passavamo nel lungo terrazzo: col gesso disegnavamo dei circuiti sul pavimento e vi giocavamo facendo correre i tappi a corona delle bibite dentro il circuito stesso. Colui che spingeva fuori il tappo si fermava fino all’errore dell’altro. (Chi mai, fa più tale gioco?)

    Di fronte alla nostra casa stavano costruendo una palazzina.

    Passatempo Curioso

    Avendo vissuto fino a ad un paio di mesi prima a San Pietro, non potevamo certo aver visto mai la costruzione di una casa, pertanto era quasi un divertimento vedere camion andare e venire; tanti lavoratori caricare terra sui camion stessi, con le pale. Tre, quattro, o più uomini, in circolo, impastare calce con lunghi manici e un piccolo disco sull’estremità. Mentre una betoniera impastava il cemento.

    Una carrucola tirava sui piani il materiale occorrente. Carpentieri e ferraioli atti a preparare quanto occorreva per la gettata di cemento armato. Insomma, tutte cose che per quei tempi attiravano la curiosità di coloro che non erano impegnati in altri lavori: noi ragazzini e alcuni pensionati.

    Quando scendevamo in strada a giocare, mi resi conto che dopo le prime volte, la mamma non si affacciava spesso per controllarci, magari lo faceva dopo un paio di ore.

    Cosicché una volta, dopo il primo controllo della mamma, mi allontanavo sino al campetto della chiesa.

    Tornavo a casa dopo un paio di ore, a volte la mamma non si accorgeva della mia scappatella.

    Ormai conoscevo diversi ragazzini, mi fecero giocare una volta e vedendo che me la cavavo abbastanza bene, non esitavano a venirmi a chiamare.

    A volte eravamo in terrazzo anche più di due ore senza che la mamma venisse fuori.

    Una volta imparai ad aprire quella porticina di ferro che dava direttamente sulle scale. Capitava che scappassi al campetto senza chiedere il permesso. Rientravo dalla porticina stessa che per ovvi motivi non la chiudevo bene. Andò bene diverse volte. L’ultima volta, al rientro trovai la porticina ben chiusa, dovetti suonare il campanello della porta principale e… nonostante l’intercessione benevola della nonna, la mamma non esitò a darmi la mia razione di… scapaccioni. Non mi rimase altro da fare che scendere a giocare previo il permesso della genitrice.

    In quegli anni c’era il gelato della famosa Algida chiamato cremino; costava cinquanta lire (il Magnum, molto simile al cremino, è in commercio tutt’ora) mentre uno più piccolo si chiamava Jollyno costava venticinque lire (non l’ho più visto).

    C’era una promozione: se consumato il gelato si trovava la scritta Jolly sullo stecco, si vinceva un pallone.

    Fui fortunato ed ebbi un pallone anch’io. Era il mio giocattolo inseparabile.

    Con esso imparai a calciare di sinistro. Anzi, negli anni a venire, arrivai a giocare più a sinistra che a destra.

    Giunse il primo di Ottobre, la data in cui tutte le scuole elementari e medie (almeno quelle inferiori) iniziavano in tutta Italia. Mauro iniziò la 5a elementare.

    Per me ci fu un anno di riposo, si diceva che costava troppo continuare a studiare. Mio padre diceva che era importante imparare un mestiere (mai una volta si è preoccupato di pensare cosa avessi voluto fare: bastava lavorare). Avevo undici/dodici anni, troppo piccolo per lavorare. Pochi giorni dopo l’inizio della scuola, Mauro fece amicizia con Renato, suo compagno di banco, il quale diceva che suo padre lavorava nella stessa azienda edile di nostro padre e che la casa dove abitava da pochissimi mesi, era stata costruita dalla stessa ditta per concederla in affitto agli stessi dipendenti. Disse anche che vi erano appartamenti non ancora assegnati. Mauro ne parlò in casa. Mio padre disse di non saperne nulla e che non poteva farci nulla.

    No! La mamma questo non poteva accettarlo. Inoltre era un’altra volta in attesa di un figlio. Le problematiche di abitare in una casa dalla quale un proprietario poteva sempre trovare un pretesto per liberarsi di un inquilino, non erano da trascurare.

    Come detto la mamma era in dolce attesa al quinto mese, nonostante ciò non si perdette d’animo. Il giorno seguente, con la mamma, andammo a trovare la mamma di Renato: vide la palazzina e si fece un idea. Senza dire nulla a mio padre, nel pomeriggio ci recammo agli uffici dell’Impresa Edile. Si sentì dire che se non si fanno le richieste giuste, nessuno può conoscere i desideri (necessità) delle persone.

    In poche parole le venne detto che c’era soltanto un appartamento da assegnare: una camera, una grande cucina e bagno.

    «Va bene lo stesso – rispose la mamma – anche se presto saremo in 7».

    Se ricordo bene il canone d’affitto era un po’ meno di dieci mila lire. Inoltre ci dissero di recarci dalla portinaia la quale ci avrebbe fatto vedere l’alloggio.

    La sera i genitori battibeccarono. La mamma accusava il papà di non interessarsi alle esigenze della famiglia; il papà diceva che non aveva mai saputo nulla sulle case da affittare ai dipendenti. Sentirli discutere animatamente non era una novità per noi.

    Il sabato successivo andai, con entrambi i genitori, a vedere il nuovo alloggio. La portinaia doveva recarsi in un qualche posto, incaricò sua mamma (un pochino anziana) di farci visitare l’appartamento all’ultimo piano: un corridoio a L, una camera da letto, una grande cucina ed un bagno: senza vasca da bagno ma con doccia.

    La signora accompagnatrice farfugliò qualcosa che fece capire di essere perplessa sull’assegnazione di un appartamento così piccolo per una famiglia di sette persone. La mamma domandò se fosse l’unico appartamento, la signora diceva di sì, ma s’intuiva che non era il solo appartamento

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