A un passo
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Info su questo ebook
[...] Mi sentivo leggero, solo con la mia immaginazione e con i miei pensieri che viaggiavano senza sosta. Come ogni volta che me ne stavo sul muretto, la realtà sembrava non esserci più, tutto era sparito, c’eravamo soltanto io e il mare.
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Anteprima del libro
A un passo - Luca Francioso
Narrativa
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A un passo
The show
Un ingannevole dubbio
Uomini di confine
12 birre
Il sasso nell’acqua
Luca Francioso è un artista poliedrico: suona la chitarra acustica, compone e insegna musica, scrive romanzi, racconti e poesie, disegna e si occupa di grafica e web design. Ha una prolifica produzione artistica e un’intensa attività concertistica, in Italia e all’estero.
Luca Francioso
A UN PASSO
Romanzo
fingerpicking.net
Sebbene l’ambientazione e i personaggi di questa storia siano liberamente ispirati a luoghi reali e persone realmente esistite, tutti gli accadimenti narrati nel libro sono frutto di fantasia e non sono riconducibili alla vita di nessuno, né dell’autore né di nessun’altra persona, in nessun modo.
Luca Francioso
www.lucafrancioso.com
© 2018 Fingerpicking.net
www.fingerpicking.net
I edizione marzo 2000
II edizione novembre 2018
ISBN eBook: 978-88-99405-81-6
Codice: FNAR002E
Tutti i diritti riservati
Foto di copertina: Silvia Pasquetto
Artwork: Luca Francioso
Sfuggente è la storia
di acqua e memoria,
che brucia davvero
di sale e mistero.
1
Non credevo fosse possibile ricordare così dettagliatamente le cose che mi sono successe in quegli anni. Ero convinto che ne avrei conservato soltanto un confuso resoconto perdendone i particolari con il trascorrere del tempo, per sempre. Invece ricordo ogni cosa e senza eccessivo sforzo.
È come rivedere un vecchio film convinti di ricordarne solo la trama e accorgersi, invece, di conoscere a memoria ogni scena, ogni dialogo e perfino le espressioni dei suoi interpreti, e sorprendersi, perché si credevano dimenticati.
Tuttavia i miei ricordi cominciano il giorno in cui ho compiuto quattro anni, non un giorno prima. Degli anni precedenti non posso dare nessuna informazione, a parte i dettagli intuibili dai racconti dei miei genitori oppure da vecchie fotografie, perché non ne ho alcun ricordo. Non so perché, ma è come se io fossi nato quel giorno, a quattro anni.
A quel tempo, i miei capelli biondi cadevano lisci e perfetti sulle sopracciglia e sotto le orecchie, come una specie di voluminoso e lucido casco giallo. Sembravo un piccolo motociclista, ma senza una moto, viziato e capriccioso quanto basta, sebbene sembrassi un angioletto. Merito dei capelli, forse.
Come quasi tutti i bambini a quell’età, frignavo sempre perché pretendevo tutto e subito, ottenendolo spesso a dire il vero, ma portando il più delle volte i miei all’esasperazione, costretti a piazzare più di uno sculaccione per calmarmi. Non che questo impedisse un certo trattamento, si intende. Sculaccioni a parte, ero certamente il più assecondato e il più coccolato in casa, essendo il più piccolo di tre fratelli.
La mia stanza era una sorta di magazzino di giocattoli: ne avevo in quantità. Costruzioni, macchinine, robot, fucili, pistole, soldatini, peluche. Devo dire che né i soldatini né i peluche, anche se soltanto gli orsi, mi facevano impazzire, per non dire che li odiavo. Erano le costruzioni il mio gioco preferito. Ci passavo interi pomeriggi, costruendo, smontando e ricostruendo i progetti più complicati che potevo, con l’ambizione di stupire mamma e papà. Ma il più delle volte, presi dalle loro faccende, i miei si limitavano a commenti fiacchi e poco convinti, andandosene via quasi subito.
Abitavamo in una grande città con un porto che riusciva a tenere ormeggiate molte barche e anche piccole navi da crociera. La mia casa era proprio accanto al porto. Mi sembra di sentire ancora il suono delle sirene o il profumo dell’acqua, quando si alzava il vento e la salsedine arrivava fino al nostro piccolo cortile.
Ricordo che una volta mio padre ci ha fatto delle fotografie sulla banchina e mia sorella per poco non cadeva in acqua. È stato divertente (più per me che per lei). Oppure la prima volta che sono salito su un aliscafo. Era bianco con delle grandi scritte blu. Si chiamava Ulisse
. Ricordo che dentro era grandissimo e che mi sono aggrappato al finestrino per vedere fuori la schiuma che si appiccicava ai vetri.
Abitavamo vicino al porto perché mio padre lavorava in marina. Era Sottufficiale. Quando qualcuno mi chiedeva che lavoro facesse, io rispondevo sempre Capitano delle navi
, ma poi lui mi ha insegnato a dire Maresciallo della Marina Militare
ed io lo sillabavo con orgoglio.
Tornava sempre alle due del pomeriggio dalla Capitaneria di Porto, distante circa cinquecento metri da casa nostra. D’estate indossava una divisa di cotone bianco, con una camicia a mezze maniche dai bottoni dorati e due rettangolini neri sulle spalle, per indicare i gradi. D’inverno invece ne metteva una di panno nero, con giacca, cravatta, panciotto, bottoni dorati e rettangolini. In entrambi i casi indossava sempre lo stesso cappello bianco, in cui ci stavo tre volte. Quando tornava a casa, mi prendeva in braccio ed io glielo fregavo per indossarlo. Tutti ridevano.
Mia madre passava intere giornate a pulire casa da cima a fondo, come se da un momento all’altro dovesse arrivare un ospite importante, soltanto che non veniva mai nessuno. Gli unici amici che avevamo erano i Corigliano e i Nava, che abitavano proprio di fianco a casa nostra.
Con i figli dell’Ufficiale Corigliano, però, non è che andassi molto d’accordo, ci litigavo spesso. Si chiamavano Anna e Franco ed erano antipatici e dispettosi. Il figlio del Sottufficiale Nava invece era un buon amico e passavamo molto tempo insieme. Anche lui amava le costruzioni, ma giocavamo un po’ con tutto. Qualche volta ci arrampicavamo sulla scala di ferro ripiegata sulla banchina, che serviva a imbarcarsi quando le navi erano attraccate, oppure giocavamo al poliziotto e al ladro, con pistole e fucili, rincorrendoci fino a perdere il fiato.
Una sera, durante una cena estiva nel cortile dei Nava, ricordo che io e Alessandro (si chiamava così) siamo andati a casa mia per prendere una pistola e la porta d’ingresso si è chiusa di colpo, prima che io potessi accendere la luce. Siamo rimasti immobili a piangere e a urlare, impietriti dalla paura, finché mio padre ci ha sentiti ed è entrato in casa con il Sottufficiale Nava. Ha sorriso e ci ha detto che i veri uomini non hanno paura del buio, mentre Anna e Franco non smettevano di sfotterci.
Il giorno del mio quinto compleanno, i miei hanno insistito a lungo perché invitassi anche loro alla festa e alla fine ho dovuto cedere. Per l’occasione, mia madre mi ha pettinato con la riga di lato, così per un po’ mi è sembrato di non avere più il voluminoso casco in testa, perché i capelli restavano incollati anche se li scuotevo. Naturalmente è durata giusto il tempo di salutare gli invitati, nonostante l’intero tubetto di gel che mia madre aveva spalmato sopra.
Oltre ai figli dell’Ufficiale Corigliano e del Sottufficiale Nava, c’erano anche alcuni compagni d’asilo. Uno di questi si chiamava Antonio, un bimbo spocchioso e con la testa piena di ricci color ruggine, con cui litigavo sempre perché gli piaceva fare il capetto, ma che tuttavia seguivo a ogni occasione, come se fossi il suo piccolo servo. È stato il primo bambino a cui ho concesso una certa autorità nei miei confronti, senza capirne il motivo. Una volta mi ha graffiato sotto l’occhio ed io non ho reagito, per il timore di non essere più considerato. È stata la prima volta che ho visto il sangue.
Litigavo spesso anche con mia sorella Marta, perché non faceva che stuzzicarmi e perché a volte ero invidioso. Come per la storia del letto a castello. Era lei a dormirci sopra, ma io non riuscivo ad accettarlo. Così ogni sera provavo a precederla per infilarmi sotto le coperte del suo letto, soltanto che i miei finivano sempre col darle ragione ed io ero costretto a scendere, il più delle volte frignando. Una sera, mentre tornavo giù deluso, sono scivolato sul piolo della scaletta e sono precipitato sul pavimento, sbattendoci la fronte. Mi è spuntato un bernoccolo che sembrava una polpetta.
Naturalmente giocavamo anche, sebbene fosse sei anni più grande. Con il pallone, con l’elastico, al gioco della campana oppure a rincorrerci. Spesso fingevamo di essere cantanti famosi e ci esibivamo di fronte allo specchio, con una racchetta da tennis come chitarra e una scopa come microfono.
Poi, la sera, quando si spogliava per mettersi il pigiama, io avvertivo sempre una strana reazione nelle mutande e la volta che ne ho parlato a mia madre, si è messa ridere. Un giorno, davanti alle sue amiche, mi ha chiesto:
«Cosa fa il pisellino quando vedi le donne nude?».
Me ne sono vergognato tanto.
2
Ho molti ricordi della Capitaneria di Porto. Mio padre mi ci portava spesso. Per arrivarci dovevamo percorrere la strada lastricata che da casa nostra costeggiava il porto e quando la facevamo in macchina (ogni tanto accadeva) mi sembrava che ci fosse il terremoto.
Si entrava salendo degli ampi gradini che portavano a una porta d’ingresso a vetri, dopo la quale una grande ancora di ferro nero pareva ancorare l’intera Capitaneria a terra. Mi ci arrampicavo sempre e quando arrivavo in cima allargavo le braccia, facendo finta di volare. A volte mi sedevo fuori, sugli ampi gradini, a guardare il mare dentro il porto, sporco e denso per l’olio dei motori.
L’ufficio di mio padre era in fondo al corridoio sinistro, che si apriva appena dopo l’ancora nera. Facevo sempre delle lunghe corse, urlando e correndo contro l’eco che mi rimbalzava in faccia. A volte, quando in Capitaneria c’era anche Alessandro, giocavamo a chi faceva gridare più forte l’eco e smettevamo soltanto quando mio padre o suo padre (o entrambi) uscivano dall’ufficio per rimproverarci. I marinai ridevano.
Alessandro correva davvero veloce, schizzando da una parte all’altra del corridoio, anche se era piuttosto cicciottello. I suoi capelli erano corti e neri e aveva una risata contagiosa. Spesso andavo a casa sua a giocare e suo padre ci raccomandava continuamente di non fare rumore. Diceva: «Fate piano», incollandosi l’indice tra il naso e le labbra, ed io non capivo perché ce lo ripetesse sempre.
Poi ho scoperto che il figlio maggiore aveva una di quelle malattie dal nome complicato e me ne sono accorto perché, un giorno, l’ho visto per la prima volta su una sedia a rotelle. Si chiamava Lorenzo e prima di allora non mi ero chiesto perché non si alzasse mai dalla poltrona, pensavo semplicemente che fosse pigro. Nonostante la malattia, non faceva che sorridere, anche se era molto silenzioso. Forse per questo il padre ci chiedeva di non fare casino.
Tuttavia, quando giocavamo insieme, io e Alessandro facevamo sempre una gran cagnara. Lui non aveva molti giocattoli ed io lo prendevo in giro per questo. Un giorno non ci ha visto più per questa storia e abbiamo litigato, ci siamo spinti ed è caduto. Quando mi sono accorto del taglio profondo sotto il suo sopracciglio e del sangue scuro che ne usciva, sono scappato subito a casa, impaurito.
Capitava anche di cenare insieme, da me o da lui. Ricordo che non riusciva a dire Coca-Cola
, diceva Tota-Tola
e mi faceva tanto ridere questo, ma lui non se la prendeva.
Con Lorenzo parlavo raramente. Quando accadeva, lui mi rispondeva sempre con un tono gentile e con un sorriso sereno. Era dieci anni più grande di me e due anni più piccolo di mio fratello, che gli era amico. Mi ricordo che tutte le volte che a casa sua costruivo qualcosa con i mattoncini, Lorenzo allungava lo sguardo dalla sua poltrona per spiarne il risultato, facendo un’espressione compiaciuta che mi rendeva orgoglioso.
Chi era davvero bravo con le costruzioni era Antonio, il capetto spocchioso a cui mi appiccicavo all’asilo. In classe, tutti restavamo a guardare le sue creazioni e provavamo a copiarne le soluzioni, senza mai riuscirci. Aerei, astronavi, macchinette: tutto era praticamente perfetto.
Io, mattoncini a parte, osservavo con attenzione il modo con cui trattava gli altri, cercando di capire come facesse ad avere sempre intorno un nugolo di bambini condiscendenti, me compreso, pur rimanendo autoritario, perfino prepotente. Quando tornavo a casa, oltre a spacciare per mie le sue idee con le costruzioni, esercitavo quella autorità su Alessandro, che mostrava la mia stessa arrendevolezza verso bambini più carismatici. Così, a casa, il capetto ero io.
Nell’istante in cui ho realizzato che anch’io potevo essere un leader, ho smesso di coprire il ruolo del piccolo servo e mi sono progressivamente allontanato da Antonio, fino a diventare un riferimento per altri bambini. Un giorno, per la sciocca contesa di un mattoncino, abbiamo litigato ed io mi sono ritrovato con la bocca per terra e due punti sul labbro inferiore. Naturalmente non gli ho più parlato dopo quella lite, sebbene mi stuzzicasse ogni tanto, ma io non gli davo più retta.
Oltre che su Alessandro, quel giochetto di autorità e ruoli l’avevo sperimentato anche sui figli dell’Ufficiale Corigliano, senza alcun risultato, continuando a litigarci per ogni cosa e a ogni occasione.
Una volta io e Alessandro stavamo giocando con il pallone, mentre loro ci sfottevano, aggrappati alla rete metallica che separava i nostri cortili. Abbiamo continuato a giocare senza farci caso, ma a un certo punto il pallone ha scavalcato la rete ed è finito in braccio a Franco, che sghignazzando ha detto che non ce l’avrebbe ridato più e che l’avrebbe bucato. Ne è nato un battibecco così lungo e rumoroso, che sono dovuti intervenire il l’Ufficiale Corigliano e mio padre per calmarci e quando io e Alessandro abbiamo spiegato cos’era successo,