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Guerra e pace III
Guerra e pace III
Guerra e pace III
E-book532 pagine7 ore

Guerra e pace III

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Info su questo ebook

Guerra e pace, certamente il capolavoro di Tolstoj, è stato definito più volte la più grande opera della letteratura russa e una delle più grandi opera della letteratura del XIX secolo. In questo romanzo, le storie e i destini individuali dei personaggi principali si intrecciano in modo perfetto con gli avvenimenti storici e militari di quel periodo – così come dimostrano anche i vari adattamenti cinematografici girati nel corso degli anni.In questa gloriosa narrazione si fondono tra loro diversi elementi, tra cui l'epopea del popolo russo, il rapporto tra individuo e collettività e i grandi temi storici e filosofici dell'Ottocento.Questo è il terzo di 4 volumi.-
LinguaItaliano
Data di uscita4 ago 2020
ISBN9788726568981
Guerra e pace III
Autore

Leo Tolstoy

Leo Tolstoy (1828-1910) was a Russian author of novels, short stories, novellas, plays, and philosophical essays. He was born into an aristocratic family and served as an officer in the Russian military during the Crimean War before embarking on a career as a writer and activist. Tolstoy’s experience in war, combined with his interpretation of the teachings of Jesus, led him to devote his life and work to the cause of pacifism. In addition to such fictional works as War and Peace (1869), Anna Karenina (1877), and The Death of Ivan Ilyich (1886), Tolstoy wrote The Kingdom of God is Within You (1893), a philosophical treatise on nonviolent resistance which had a profound impact on Mahatma Gandhi and Martin Luther King Jr. He is regarded today not only as one of the greatest writers of all time, but as a gifted and passionate political figure and public intellectual whose work transcends Russian history and literature alike.

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    Anteprima del libro

    Guerra e pace III - Leo Tolstoy

    Guerra e pace III

    Federigo Verdinois

    Война и мир

    The characters and use of language in the work do not express the views of the publisher. The work is published as a historical document that describes its contemporary human perception.

    Copyright © 1869, 2020 Lev Tolstoj and SAGA Egmont

    All rights reserved

    ISBN: 9788726568981

    1. e-book edition, 2020

    Format: EPUB 3.0

    All rights reserved. No part of this publication may be reproduced, stored in a retrievial system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.

    SAGA Egmont www.saga-books.com – a part of Egmont, www.egmont.com

    Parte prima

    I

    Sulla fine del 1811, l’Europa occidentale cominciò ad intensificare gli armamenti e a concentrar le sue forze; nel corso del 1812, queste forze, cioè milioni di uomini – calcolando anche il personale di trasporto e di vettovagliamento – mossero da occidente verso oriente, fino alle frontiere della Russia, dove fin dal 1811 convergevano e si ammassavano le truppe dell’impero. Il 12 Giugno gli eserciti europei passarono la frontiera e s’iniziò la guerra, si compì cioè un avvenimento in perfetta antitesi della ragione e della natura umana. Milioni di uomini perpetrarono gli uni contro gli altri tale innumerevole quantità di misfatti, inganni, tradimenti, ruberie, falsificazione di moneta, ladrocini, incendi, assassinii, che gli annali giudiziari del mondo intero per secoli e secoli non basterebbero a pareggiare, e che, a quel tempo, coloro stessi che se ne rendevano rei non consideravano come delitto.

    Come si determinò lo straordinario evento? Quali ne furono i motivi? Affermano ingenuamente gli storici che i motivi furono l’offesa recata al duca di Oldenburgo, l’infrazione del blocco continentale, la sete d’impero di Napoleone, la resistenza di Alessandro, gli errori della diplomazia, e simili.

    Per conseguenza, bastava solo che Metternich, Rumianzow o Talleyramd, tra un ricevimento a corte ed un ballo, avessero scombiccherato più abilmente un foglio qualunque, o che Napoleone scrivesse ad Alessandro: «Caro cugino, io consento a rendere al duca il suo ducato di Oldenburgo», perchè la guerra non scoppiasse.

    Si capisce che così dovesse parere ai contemporanei. Si capisce che Napoleone vedesse il motivo della guerra negl’intrighi dell’Inghilterra (com’ebbe poi a dire a Sant’Elena); si capisce che i membri del parlamento inglese la imputassero alle mire ambiziose di Napoleone, il duca di Oldenburgo all’affronto recatogli, gli uomini d’affari al blocco continentale che rovinava l’Europa, i vecchi soldati alla necessità del loro servizio manesco, i legittimisti alla urgenza di restaurare les bons principes, i diplomatici all’alleanza austro-russa del 1809 non abbastanza celata a Napoleone e alla cattiva redazione del memorandum N. 178. Si capisce che questi ed altri motivi innumerevoli, in rapporto degli infiniti punti di vista, paressero sufficienti ai contemporanei. Ma noi, posteri, che abbracciamo in tutto il suo complesso la terribilità dell’evento e ne penetriamo il semplice e spaventoso significato, a cotesti motivi non ci acquietiamo. È incomprensibile per noi che milioni di cristiani si sgozzassero e si torturassero a vicenda, sol perchè Napoleone era ambizioso, astuta la politica inglese, offeso il duca di Oldenburgo. Non ci si spiega qual legame possano avere questi singoli fatti col fatto capitale della violenza e della strage; e perchè, in conseguenza dell’offesa al duca di Oldenburgo, migliaia di uomini dall’estremo lembo di Europa venissero a trucidare e saccheggiare la gente di Smolensco e di Mosca e a farsi sterminare alla loro volta.

    A noi, che non siamo storici, e che non trascina il processo delle indagini; a noi che abbiamo unica guida il lume non offuscato del buon senso, i motivi della guerra si presentano in numero incalcolabile. Più ci si sprofonda a cercarli, più se ne scopre; e ciascun singolo motivo o una intera serie di essi ci sembrano egualmente giusti in sè e bugiardi per la loro pochezza sproporzionata all’avvenimento, ed anche non meno insufficienti (senza tener conto di tutti gli altri motivi concomitanti), a determinarlo. Il rifiuto di Napoleone a ritirar le truppe di là dalla Vistola e a rendere il conteso ducato avrebbe, come motivo, lo stesso valore della buona o mala voglia di un qualunque caporale francese a riprender le armi per la nuova campagna; poichè, dato che cotesto caporale si fosse rifiutato di marciare e che altre migliaia di caporali e soldati lo avessero imitato, gli eserciti napoleonici sarebbero stati scemati di altrettanti uomini e la guerra non sarebbe stata possibile.

    Se Napoleone non si fosse offeso all’ingiunzione di ritirarsi oltre la Vistola e non avesse ordinato alle truppe di marciare, non ci sarebbe stata la guerra; ma nemmeno ci sarebbe stata, se tutti i caporali avessero rifiutato di affrontare una nuova campagna. Del pari, non ci sarebbe stata guerra, senza gl’intrighi dell’Inghilterra, il duca di Oldenburgo, e l’orgoglio ferito di Alessandro; se la Russia non fosse stata autocratica, se non ci fosse stata la rivoluzione francese, il direttorio, l’impero, e tutto ciò che avea generato la detta rivoluzione, e così via. Eliminato uno solo di questi motivi, niente sarebbe accaduto. E per conseguenza, non vi fu un esclusivo motivo dell’avvenimento, il quale si compì perchè doveva compiersi. Migliaia di uomini dovevano, rinnegando ogni umano sentimento e la stessa ragione, andare dall’occidente in oriente e uccidere i loro simili, proprio come alcuni secoli prima dall’oriente in occidente masse di popoli erano piombate, portando davanti a sè lo sterminio e la morte.

    Gli atti di Napoleone e di Alessandro, dalle cui parole parea dipendere che l’avvenimento si compisse o no, erano così poco volontari, come i movimenti di un qualunque soldato andato sotto le armi per decreto della sorte. Non poteva accadere altrimenti, poichè ad avvalorare la volontà di Alessandro o di Napoleone era indispensabile il concorso d’innumerevoli circostanze, senza una sola delle quali l’avvenimento sarebbe venuto meno. Era indispensabile che milioni d’uomini, nelle cui mani la forza reale era raccolta, i soldati che sparavano, la gente che portava le vettovaglie e trascinava i cannoni, tutti in somma, si accordassero a compiere la volontà di quei singoli e deboli individui, e fossero a ciò trascinati da una quantità indeterminabile di vari e complessi motivi.

    Il fatalismo nella storia s’impone, se si vogliono spiegare i fenomeni irrazionali, – quelli cioè la cui razionalità non ci è dato comprendere. Più ci sforziamo di spiegare razionalmente cotesti fenomeni, e più essi ci appaiono strani ed incomprensibili.

    Ogni uomo vive per sè, si giova del libero arbitrio per conseguire i suoi fini personali, e sente con tutto il suo essere di poter compiere o non compiere un dato atto; ma non appena compiutolo, questo è irrevocabile, diventa proprietà della storia, e in questa trova il suo posto predestinato e fatale.

    Ciascuno di noi vive di una doppia vita: la vita personale, tanto più libera quanto più alti ed astratti ne sono gl’interessi; e la vita naturale, collettiva, dove l’uomo inevitabilmente soggiace a leggi prestabilite.

    L’uomo ha coscienza di vivere per sè; ma è strumento inconsciente al conseguimento dei fini storici del genere umano. L’effetto di un’azione compiuta, cioè irrevocabile, combinandosi con altri milioni di effetti vari o simiglianti, acquista un significato storico. Quanto più alto sta un uomo nella scala sociale, quanto è maggiore il numero delle persone con cui trovasi in contatto, tanto più si estende la sua autorità, tanto più ogni suo atto è inevitabile e prefisso.

    Il cuore dei re è nelle mani di Dio.

    Il re è uno schiavo della storia.

    La storia, cioè la vita inconsciente e collettiva dell’umana famiglia, si giova di ogni minuto della vita dei re per conseguire i suoi fini.

    Benchè nel 1812 credesse Napoleone da lui solo dipendere versare o non versare il sangue dei suoi popoli (come nell’ultima lettera gli scriveva Alessandro), fu appunto in quell’anno ch’ei soggiacque più che mai alle leggi ineluttabili che lo spinsero, (agendo, come parevagli, nella pienezza del libero arbitrio), a fare per la sorte comune, per la storia, quello che fatalmente era scritto.

    Gli uomini dell’occidente mossero verso l’oriente per uccidere e farsi uccidere. E in virtù della legge armonica delle cause, si elaborarono di per sè e coincisero con l’avvenimento migliaia di minuscoli motivi che lo secondarono e che determinarono la guerra: le proteste per la violazione del blocco continentale, il duca di Oldenburgo, il movimento dell’esercito prussiano diretto (come a Napoleone sembrava) al mantenimento della pace armata, la passione dell’imperatore francese e del suo popolo per la guerra, la seduzione dell’impresa grandiosa, le ingenti spese di preparazione, la necessità di ricattarsene con vantaggi equivalenti, gli onori inebrianti di Dresda, le trattative diplomatiche, le quali, agli occhi dei contemporanei, erano animate da un sincero desiderio di pace e che servirono solo ad inasprire l’amor proprio dell’una e dell’altra parte, e milioni di milioni di altri motivi concomitanti.

    Perchè cade il pomo quando è maturo? Forse per la legge dei gravi? forse perchè le fibre del picciuolo sono arse dal sole? o pel soverchio del succo, o pei colpi del vento, o perchè il ragazzo che sta di sotto si strugge di farne un boccone?

    Per nessuno di questi motivi; bensì pel concorso di quelle condizioni, in virtù delle quali si compie ogni fenomeno della vita organica. E il botanico che imputerà la caduta del pomo alla decomposizione del tessuto cellulare e simili, avrà tanto ragione quanto il ragazzo, il quale crederà che le sue preghiere gli han fatto piombare in bocca il frutto agognato. Così avrà ragione e avrà torto chi affermerà che Napoleone mosse contro Mosca perchè così volle, e vi trovò la sua rovina perchè questa fu voluta da Alessandro; allo stesso modo che avrà torto e ragione chi dirà che una montagna di più milioni di tonnellate, scalzata alla base, cade per l’ultimo colpo di piccone dell’ultimo dei minatori. Negli eventi storici i così detti grandi uomini sono altrettante cartelle, che danno il nome all’evento e che, come le cartelle, non hanno alcun legame con l’evento stesso. Ogni loro atto, effetto apparente di libera elezione, è invece fatale nell’ordine degli eventi umani, si collega a tutto il corso della storia ed è predestinato ab eterno.

    II

    Il 29 di Maggio Napoleone lasciò Dresda, dove avea passato tre settimane, circondato da una corte composta di principi, arciduchi, re e perfino di un imperatore. Prima della partenza, onorò delle sue grazie i principi, i re e l’imperatore che le avean meritate, strapazzò i re e i principi dei quali era scontento, fece dono delle proprie gemme (gemme rubate ad altri sovrani) all’imperatrice d’Austria, e abbracciata teneramente l’imperatrice Maria Luisa, come il suo storico ci narra, la lasciò desolata di una separazione che ella – la quale stimavasi sua moglie nonostante che un’altra moglie fosse rimasta a Parigi – non avea la forza di sopportare. I diplomatici, sempre fiduciosi nella possibilità della pace, vi lavoravano senza posa; Napoleone dal canto suo avea scritto al caro cugino Alessandro, assicurandolo di non voler la guerra e di esser sempre suo amico ed estimatore. Ma con tutto questo, partendo per l’armata, ad ogni fermata egli emanava nuove disposizioni per affrettare il movimento di avanzata da occidente in oriente. In carrozza da viaggio a sei cavalli, circondato da paggi, aiutanti e da numerosa scorta, percorreva la via Posen, Thorn, Danzica, Konisberga. In ciascuna di queste città, migliaia di persone, trepidando e acclamando, gli venivano incontro.

    Il 10 di Giugno, raggiunta l’armata in marcia, pernottò nella foresta di Vilcovisk, occupando l’alloggio preparatogli in casa di un conte polacco.

    Il giorno appresso, rimontò in carrozza, andò fino al Niemen, e per osservare il terreno e il guado prefisso, indossò una divisa polacca e discese alla riva.

    Vide sull’altra sponda i cosacchi; contemplò l’ampia distesa delle steppe, in mezzo alle quali ergevasi la santa città di Mosca, capitale di quel medesimo impero scita già un tempo invaso da Alessandro il Macedone; e subito dopo, inaspettatamente per tutti, in opposizione a tutti i calcoli strategici e a tutte le previsioni diplomatiche, ordinò la marcia in avanti. Il giorno seguente le truppe presero a varcare il Niemen.

    Il 12, di buon mattino, uscì dalla sua tenda rizzata sulla ripida sponda sinistra del Niemen, e col cannocchiale stette ad osservare i torrenti di uomini armati che scaturivano dalla foresta di Vilcovisk e si tripartivano poi sui tre ponti gettati sul Niemen. I soldati sapevano della presenza dell’imperatore, lo cercavano con gli occhi, e quando scorgevano sul monticello davanti alla tenda una figura isolata in cappotto grigio e cappello di sghembo, scagliavano all’aria i berretti e gridavano: «Viva l’imperatore!» Gli uni dopo gli altri, senza interruzione, scorrevano, scorrevano, scorrevano sempre dall’immane foresta che li aveva nascosti, e inondando i tre ponti, passavano sulla riva opposta. «Questa sì che sarà una marcia coi fiocchi!... L’imperatore? Oh, quando piglia lui il mestolo, la pentola bolle!... Per Dio!... Eccolo lassù... Urrà! urrà!... Sicchè son queste le famose steppe... Paese barbino... A rivederci, Beauchet! Ti serbo a te il più bel palazzo di Mosca... A rivederci, buona fortuna!... Hai visto l’imperatore? Viva l’imperatore! Se mi fanno governatore nell’india, Gerardo, ti nomino ministro del Cascmir, parola d’onore... Viva l’imperatore! Urrà! urrà! urrà!... Veh come se la battono questi straccioni di cosacchi... Viva l’imperatore! Urrà! Eccolo, lo vedi? Due volte io l’ho visto, proprio come vedo te... Ed io ho visto il piccolo caporale mentre attaccava la croce sul petto di un veterano... Urrà! urrà! Viva!» suonavano confuse mille voci di vecchi e di giovani, di ogni carattere, di ogni grado sociale. Tutti i visi portavano una medesima impronta di giubilo per l’inizio della tanto attesa campagna, tutti raggiavano di entusiasmo e di devozione per l’uomo in cappotto grigio, ritto e solo davanti alla tenda.

    Il 13 Giugno fu dato a Napoleone un piccolo cavallo di puro sangue arabo, ed egli, montato in sella, si spinse al galoppo verso uno dei tre ponti, continuamente assordato da grida entusiastiche. Queste clamorose dimostrazioni di affetto egli tollerava sol perchè non era possibile impedirle, ma evidentemente lo fastidivano, distraendolo dalle cure della guerra nelle quali era assorto dal momento che avea raggiunto l’armata. Traversò il ponte che oscillò sui pontoni di sostegno, voltò bruscamente a sinistra, e si diresse sempre al galoppo alla volta di Kovno, preceduto da uno squadrone di cacciatori della guardia, felici di aprirgli il passo fra le file dei soldati. Arrivato sulla sponda dell’ampia Vistola, si arrestò non lontano da un reggimento di ulani polacchi.

    — Viva l’imperatore! – gridarono gli ulani, rompendo le file e accalcandosi per vederlo. Napoleone guardò al fiume, smontò di sella e sedette sopra una trave che giaceva sulla riva. Ad un cenno della mano gli fu porto il cannocchiale, ch’egli appoggiò sulla schiena di un paggio, accorso volenteroso, e superbo di servir l’imperatore. Prima andò osservando la riva opposta, poi si sprofondò nello studio di una carta distesagli davanti fra le travi. Di botto, senza alzar la testa, pronunciò qualche parola. Due aiutanti galopparono alla volta degli ulani.

    — Che? che ha detto? – si udì fra le file, all’arrivo del primo aiutante.

    Ordine fu dato di cercare un guado e di passare il fiume. Il colonnello degli ulani, bel vecchio rubizzo, arrossendo e impappinandosi, domandò se gli sarebbe stato permesso di passare, senza cercare il guado. Supplicava, trepidando per un possibile rifiuto, come un ragazzo che domandi di montare a cavallo, che gli si concedesse di passare con tutto il reggimento sotto gli occhi dell’imperatore. L’aiutante rispose che probabilmente l’imperatore avrebbe gradito questo eccesso di zelo.

    A tali parole, il vecchio ufficiale baffuto, con gli occhi scintillanti dalla gioia, alzò la sciabola e gridò:

    «Evviva!» Poi, comandato ai suoi uomini di seguirlo, spronò il cavallo e si slanciò verso il fiume. Con una scudisciata rabbiosa domò l’animale recalcitrante, e piombò di colpo nell’acqua, afferrato subito dall’impeto della corrente. Centinaia di ulani gli si spinsero dietro a galoppo, si tuffarono, caddero di sella, si confusero, si aggrovigliarono. Parecchi cavalli affogarono ed anche parecchi soldati. Gli altri facevano sforzi disperati per reggersi a galla, chi aggrappato alla sella, chi alla criniera. Tagliavano la corrente, benchè a mezza versta ci fosse un guado, ed erano orgogliosi di galleggiare e di affogare sotto gli occhi di quell’uomo seduto sulla trave, che non si volgeva nemmeno a guardarli. Quando l’aiutante, tornato dalla sua missione, si fece lecito richiamare l’attenzione dell’imperatore sulla devozione dei Polacchi, il piccolo uomo dal cappotto grigio si alzò, e chiamato a sè Berthier, si diè a passeggiar con lui su e giù sulla riva, impartendo varie istruzioni e tratto tratto sogguardando di mala voglia agli ulani, che affogavano e lo distraevano.

    Nulla d’insolito aveva il fatto. Era persuaso che la sua presenza, in tutte le parti del mondo, dall’Africa alle steppe della Moscovia, sbalordiva e spingeva gli uomini fino alla follia del sacrificio. Ordinò gli si desse il cavallo e tornò alla sua tenda.

    Circa quaranta ulani annegarono, a malgrado dei battelli mandati in soccorso. La maggior parte furono respinti al punto di partenza. Il colonnello e alcuni uomini a gran fatica compirono la traversata; e arrampicatisi appena sulla riva opposta, fradici, stillanti, gridarono con tutta la forza dei polmoni: «Viva l’imperatore!» fissando gli occhi infiammati sul posto dove Napoleone sedeva, ma di dove era già partito. Erano felici.

    A sera, fra due ordini, – l’uno perchè si sollecitasse la spedizione dei falsi assegnati da introdurre e diffondere in Russia, l’altro per la fucilazione di un Sassone, sul quale era stata sequestrata una lettera con informazioni sugli spostamenti dell’esercito francese, – Napoleone ne emanò un terzo, conferendo al colonnello che s’era gettato in acqua senza che ve ne fosse bisogno la croce della Legion d’onore, di cui lo stesso imperatore era capo.

    Quos vult perdere, dementat.

    III

    L’imperatore di Russia intanto da oltre due mesi era a Vilna, passando il tempo in riviste e manovre. Nulla era pronto per la guerra, che tutti aspettavano, e per preparar la quale l’imperatore era venuto da Pietroburgo. Non esisteva un piano generale di campagna. Le incertezze sulla scelta dei vari piani messi innanzi crebbero a dismisura dopo un mese di soggiorno dell’imperatore al quartier generale. I tre corpi d’armata aveano ciascuno un comandante, ma un generale in capo mancava e l’imperatore non voleva assumerne le funzioni.

    Più si prolungava il soggiorno di Alessandro a Vilna, meno si pensava alla guerra, stanchi oramai di aspettarla. Tutti gli sforzi di coloro che lo circondavano parevano intesi a procacciargli degli svaghi e a fargli dimenticare il pericolo imminente.

    Dopo molti balli e banchetti dati dai magnati polacchi, dai cortigiani e dallo stesso sovrano, venne in mente nel mese di Giugno ad uno degli aiutanti generali polacchi di dare un ballo ed un pranzo a nome di tutti i suoi colleghi. L’idea fu accolta con entusiasmo. L’imperatore accettò l’invito. I generali aiutanti si quotarono. La dama più gradita a Sua Maestà fu delegata a far gli onori di casa. Il conte Beningsen, proprietario in quel di Vilna, pose a disposizione la sua villa di Zakret, e la data del 13 Giugno fu fissata per la festa, che sarebbe anche stata allietata da gite in barca e fuochi d’artifizio.

    Il giorno stesso che Napoleone dava ordine di passare il Niemen e che la sua avanguardia, respingendo i cosacchi, varcava la frontiera russa, Alessandro interveniva al ballo dato in suo onore dagli aiutanti di campo.

    La festa fu splendida: dicevano i conoscitori che raramente tante bellezze s’erano raccolte in un posto. La contessa Besuhow era del numero, venuta da Pietroburgo con le altre dame che avean seguito la corte a Vilna, ed eclissava con la sua solida bellezza (la così detta bellezza russa), le fini ed evanescenti signore polacche. Naturalmente, fu oggetto di ammirazione, e lo stesso imperatore si degnò d’invitarla ad un ballo.

    C’era anche Boris Drubezkoi, da scapolo, com’egli diceva, avendo lasciata la moglie a Mosca. Benchè non fosse aiutante generale, avea largamente contribuito alla sottoscrizione pel ballo. Ricco oramai, salito in notorietà ed onori, non brigava più protezioni e trattava da pari a pari i suoi coetanei più alti in grado. A Vilna, s’era imbattuto in Elena, che da un pezzo non vedeva, nè del passato avea dato segno di ricordarsi; e poichè ella godeva le grazie di un alto personaggio e Boris s’era testè ammogliato, tutti e due s’incontrarono e si trattarono da buoni e vecchi amici.

    A mezzanotte si ballava ancora. Elena, non trovando un cavaliere degno di sè, si offrì a Boris per una mazurka, e formò con lui la terza coppia. Con la più perfetta calma, guardava Boris alle stupende spalle della sua dama emergenti da un viluppo di veli scuri screziati di oro, e andava discorrendo delle conoscenze di un tempo, senza però smettere un sol momento d’osservare l’imperatore. Questi non ballava. Fermo sull’entrata del salone, volgeva ora all’uno ora all’altro degli astanti quelle graziose parole ch’egli solo sapea pronunciare.

    Alle prime battute della mazurka, Boris notò che l’aiutante generale Balasciow, uno dei personaggi più intimi a corte, si avvicinò al sovrano, che discorreva con una dama polacca, e si arrestò, senza badare all’etichetta, a breve distanza. L’imperatore si volse in atto interrogativo, capì che per contenersi a quel modo Balasciow doveva aver dei gravi motivi, e fatto alla dama un cenno di saluto, fece un passo verso di lui. Alle prime parole di Balasciow il viso di Alessandro espresse un profondo stupore. Preso il generale a braccetto, egli attraversò la sala, senza pure accorgersi che la folla degli invitati ossequiosamente gli cedeva il passo, facendo siepe dalle due parti. Boris osservò la faccia agitata di Arakceew, nel momento che Alessandro si allontanava con Balasciow. Guardando di sbieco alla coppia che passava e soffiando forte col naso rossigno, Arakceew si staccò dalla folla e diè un passo avanti, quasi aspettando che l’imperatore gli volgesse la parola (Boris capì che Arakceew si rodeva dall’invidia ed era irritato che una notizia evidentemente assai grave fosse da altri comunicata ad Alessandro).

    Ma questi, senza punto badargli, passò oltre con Balasciow, e discese nel giardino illuminato. Arakceew, tenendo con una mano la spada e volgendo intorno occhiate furiose, li seguì a venti passi di distanza.

    Pur seguitando a ballar la mazurka, Boris si struggeva dalla curiosità e cercava in che modo appurare prima degli altri la notizia portata da Balasciow.

    In una delle figure, in cui gli toccava scegliere una dama, susurrò ad Elena di voler invitare la contessa Potozki, uscita quel momento stesso sulla terrazza. Rapido e svelto, scivolando sul pavimento, corse verso la porta del giardino, e all’avvicinarsi dell’imperatore in compagnia di Balasciow, si tirò da parte addossandosi allo stipite e chinò la testa.

    L’imperatore, col risentimento di chi sia stato colpito da un affronto, diceva:

    — Entrare in Russia, senza una preventiva dichiarazione di guerra! Io non farò la pace, finchè un sol nemico in armi rimarrà sul suolo di Russia.

    Parve a Boris, che l’imperatore fosse contento delle parole pronunciate e della forma data al proprio pensiero, ma scontento nel tempo stesso che qualcuno le avesse udite.

    — Che nessuno lo sappia! – soggiunse Alessandro, corrugando la fronte. Boris capì che il monito si riferiva a lui, e subito abbassò le palpebre e il capo. L’imperatore tornò nella sala, e vi si trattenne ancora mezz’ora.

    Boris fu il primo a sapere che i Francesi avean passato il Niemen, e grazie a ciò, ebbe modo di mostrare ad alcuni personaggi di conto che di molte cose, ignote agli altri, egli era informato. Era un’occasione propizia per darsi importanza e salire nella loro stima.

    ***

    L’improvvisa notizia tanto più fece colpo, in quanto che arrivava dopo un mese di vana aspettazione e in un ballo per giunta! L’imperatore, sotto la prima impressione di turbamento e di sdegno, avea trovato una frase, divenuta poi celebre, che fedelmente esprimeva il suo sentimento. Tornato dal ballo, alle due del mattino mandò a chiamare il segretario Scisckow e gli ordinò di redigere un ordine del giorno alle truppe e un rescritto al feldmaresciallo principe Saltikow, con precisa istruzione d’inserirvi la frase che l’imperatore «non farà la pace, finchè un sol nemico in armi rimarrà sul suolo di Russia.»

    Il giorno appresso, la lettera seguente fu spedita a Napoleone:

    «Sire e cugino! Ieri venne a mia notizia che, in onta alla lealtà con la quale tenni fede ai miei impegni verso Vostra Maestà Imperiale, le vostre truppe hanno varcato la frontiera russa, e soltanto oggi ricevo da Pietroburgo una nota con la quale il conte Lauriston m’informa, a proposito di questa aggressione, che Vostra Maestà si considera in istato di guerra con me fin dal giorno che il principe Kurakin domandò i suoi passaporti. I motivi che indussero il duca di Bassano a negarglieli non eran tali da farmi supporre che il passo del mio ambasciadore potesse esser pretesto all’invasione. E infatti, egli non aveva, come ha dichiarato, ordini miei di agire a quel modo; e non sì tosto io ne fui edotto; mi affrettai ad esprimere il mio rincrescimento al principe Kurakin, ordinandogli di riassumere il mandato affidatogli. Se Vostra Maestà è disposta a non versare il sangue dei nostri sudditi per un simile malinteso, e se consente a ritirar le truppe dai miei dominii, io terrò come non avvenuto il fatto dell’invasione, e un accordo fra noi sarà possibile. Nel caso contrario, io mi vedrò costretto a respingere un attacco, che in nessun modo fu da me provocato. Alla Maestà Vostra è ancora dato di risparmiare all’umanità gli orrori di una nuova guerra. Io, ecc., ecc.

    «Di proprio pugno, firmato:

    «ALESSANDRO.»

    IV

    Il 13 Giugno, alle due del mattino, fatto venire Balasciow, l’imperatore gli lesse la lettera, e gli ordinò di portarla e consegnarla nelle proprie mani di Napoleone, non dimenticando di ripetergli la frase che nessuna pace sarebbe stata possibile finchè un sol nemico in armi calcasse il suolo di Russia. Nella lettera non erano state inserite queste parole, perchè Alessandro intuì col suo tatto la loro inopportunità nel momento di un ultimo tentativo per mantener la pace; volle però che verbalmente e testualmente fossero riferite a Napoleone.

    Partito nella notte dal 13 al 14, Balasciow, accompagnato da un trombetta e da due cosacchi, arrivò sul far del giorno al villaggio di Riconti, presso gli avamposti francesi di qua dal Niemen. Le vedette di cavalleria gl’impedirono d’inoltrarsi.

    Un sottufficiale degli ussari, in giubba amaranto e berretto peloso, gli gridò di fermarsi. Balasciow, senza dargli retta, seguitò ad avanzare a lento passo. Quegli, irritato e masticando una bestemmia, gli si spinse addosso col cavallo, sguainò la sciabola e gli domandò burbero se fosse sordo. Il generale russo si nominò; e il Francese, mandato un soldato ad avvertir l’ufficiale, senza più badargli, si diè a discorrer coi camerati delle faccende e degli interessi del reggimento.

    Una strana impressione provò Balasciow, egli che tanta dimestichezza aveva col potere supremo, egli che tre ore fa avea conversato con l’imperatore, e che in genere era uso al rispetto e agli onori, nell’urtare così inopinatamente, nel proprio paese, contro la violenza nemica, e soprattutto irreverente, della forza brutale.

    Il sole cominciava appena ad emergere dalle nuvole; l’aria era frizzante e rugiadosa. Dal villaggio usciva il gregge verso i campi. L’una dopo l’altra dai solchi, come le bolle nell’acqua, balzavan fuori con uno strido le allodole.

    Balasciow si guardò intorno, aspettando l’arrivo dell’ufficiale. I cosacchi, il trombetta e gli ussari francesi tratto tratto in silenzio si scambiavano occhiate.

    Un colonnello apparve finalmente sopra un cavallo stornello ben pasciuto. Lo accompagnavano due ussari. Così l’ufficiale come i soldati e i cavalli avevano un aspetto soddisfatto, e perfino elegante.

    Era quello il primo periodo della campagna, quando le truppe trovavansi ancora in ordine, quasi ad una rivista in tempo di pace; solo con quella sfumatura guerriera nel vestito e quella tal quale allegria baldanzosa, che sempre accompagnano l’inizio d una campagna.

    Il colonnello francese, che forse da poco s’era alzato, trattenne a stento uno sbadiglio, ma si mostrò affabile e comprese, si vede, tutta l’importanza del messo. Lo accompagnò lungo le file dei soldati oltre gli avamposti, dicendogli che il suo desiderio di esser presentato all’imperatore sarebbe stato probabilmente presto soddisfatto, visto che la tenda imperiale, a quanto gli parea sapere, non era lontana.

    Traversarono tutta la borgata di Riconti, mentre sentinelle e soldati, facendo il saluto militare al loro colonnello, guardavano curiosi all’uniforme russa, e si lasciaron dietro le ultime case. Secondo affermava il colonnello, due chilometri più in là avrebbero trovato il generale di divisione, e questi si sarebbe incaricato della presentazione.

    Il sole era già alto e brillava ridente sul verde dei prati.

    Passata un’osteria e avviatisi verso l’erta, si videro venire incontro un gruppo di cavalieri, preceduto da un militare di alta statura, che inforcava un morello dalla bardatura scintillante. Portava un gran cappello piumato, di sotto al quale lunghi fino alle spalle gli scendevano i capelli inanellati, indossava un mantello scarlatto, e cavalcava, come sogliono i Francesi, con distese le gambe in avanti. Si avanzò questi a galoppo alla volta del generale russo, in un barbaglio di piume iridate, di gemme, di galloni d’oro, di braccialetti, di collane.

    Ulner, il colonnello francese che accompagnava Balasciow, susurrò reverente:

    — Il re di Napoli.

    Era infatti Murat, designato oramai con questo nome, benchè non se ne capisse il motivo. Egli stesso era tutto compreso della sua illusoria dignità regale, epperò assumeva un contegno più importante e solenne di prima. Era così intimamente persuaso di essere ancora re di Napoli, che alla vigilia della partenza da quella città, passeggiando con la moglie e sentendosi acclamare: «Viva il re!» si volse con un melanconico sorriso alla sua compagna ed esclamò: «Infelici! essi non sanno che domani io li lascio!»

    Ma, a dispetto di cotesta sua persuasione e del cordoglio di staccarsi dai sudditi, dopo che gli fu ordinato di riprender servizio e specialmente dopo che l’augusto cognato gli ebbe detto a Danzica: «Io vi feci re, non perchè governaste a modo vostro, bensì a modo mio», egli era tornato allegramente al mestiere delle armi. Simile ad un cavallo bizzarro che si senta attaccato alla vettura, si dimenava fra le stanghe, e carico di ornamenti vistosi e preziosi, brioso e soddisfatto, se n’andava caracollando, senza saper dove e perchè, per le strade di Polonia.

    Scorto appena il generale russo, alzò con atto solennemente regale e teatrale la testa dalla prolissa chioma ricciuta e volse uno sguardo interrogativo al colonnello francese. Questi, ossequioso, comunicò a Sua Maestà la qualità ufficiale di Balasciow, del quale a gran fatica potè articolare il nome.

    — De Balmasceff! – disse il re, superando risoluto e a modo suo le difficoltà di pronuncia. – Felicissimo di conoscervi, generale, – soggiunse con un gesto di degnazione. Non sì tosto cominciò a parlar forte e rapidamente, tutta la dignità regale si dileguò come per incanto, ed egli, senza pure avvedersene, passò al solito suo tono di bonaria dimestichezza. Posando una mano sulla criniera del cavallo di Balasciow: – Ebbene, generale, – disse, – pare che abbiamo la guerra.

    — Maestà, il mio sovrano, l’imperatore di Russia, non la desidera, come Vostra Maestà può vedere, – rispose Balasciow, largheggiando con affettazione del titolo regale verso un uomo, cui quel titolo suonava ancora come una novità lusinghiera.

    La faccia di Murat lampeggiò di una gioia balorda; ed egli, visto che la dignità sovrana ha i suoi obblighi, sentì il bisogno d’intrattenere l’inviato di Alessandro, da re ed alleato, parlandogli di affari di Stato. Smontò di sella e preso Balasciow a braccetto, si allontanò alquanto dal seguito che rispettosamente si tenne indietro, e si diè con lui a camminar su e giù, ingegnandosi di parlare con gravità piena di significato. Accennò che l’imperatore Napoleone avea preso in mala parte la pretesa di ritirar le truppe dalla Prussia, tanto più che a cotesta pretesa si era data una pubblicità che feriva l’onore della Francia. Balasciow obbiettò che la pretesa non avea nulla di offensivo, poichè...

    Murat lo interruppe.

    — Sicchè voi pensate che istigatore della guerra non sia stato l’imperatore Alessandro? – esclamò con uno stupido sorriso.

    Balasciow disse di credere che veramente la provocazione fosse venuta da Napoleone.

    — Ah, caro generale, – di nuovo gli tolse Murat la parola, – io desidero cordialmente che i due imperatori se la sbrighino fra loro, e che la guerra, alla quale io non ho messo mano, finisca al più presto possibile, – disse col tono confidenziale di quei servi, che vogliono rimaner buoni amici, a malgrado dei battibecchi fra i padroni. E subito passò ad informarsi del granduca, della sua salute, ed evocò le memorie dei bei giorni allegri passati con lui a Napoli. Poi, quasi ricordandosi di botto di esser re, si raddrizzò, si atteggiò come nel giorno dell’incoronazione, e con un gesto largo della mano destra, conchiuse:

    — Non vi trattengo più, generale. Auguro buon successo alla vostra ambasceria.

    E facendo ondeggiare le piume e il mantello scarlatto rabescato di oro, in uno scintillio di pietre preziose, se ne tornò verso il seguito che rispettosamente attendeva.

    Balasciow andò oltre, aspettandosi, secondo le parole di Murat, di esser presto presentato a Napoleone. Se non che, giunto al prossimo villaggio, fu di nuovo fermato dalle sentinelle di un corpo di fanteria, e un aiutante mandato a chiamare lo accompagnò dal maresciallo Davout.

    V

    Davout era l’Arakceew di Napoleone; un Arakceew non già vigliacco, ma egualmente preciso, minuzioso, crudele, incapace di provar la sua devozione altrimenti che con atti di crudeltà.

    Uomini cosiffatti sono indispensabili nell’organismo dello Stato, allo stesso modo che son necessari i lupi nell’economia della natura; e voi li vedete venir fuori all’ora debita, ed attaccarsi e mantenersi al potere, per quanto sembri poco naturale anzi eterogenea la presenza e la prossimità loro al capo del governo. Solo con cotesta indispensabilità si può spiegare che un uomo come Arakceew, incolto, villano, bestialmente crudele, che tirava i baffi ai granatieri e tremava, fiacco di nervi, al menomo pericolo, potesse esercitare tanta autorità dispotica e incensurata presso il mite e cavalleresco Alessandro.

    Balasciow trovò il maresciallo Davout in un granaio, a cavalcioni di un botticello, assorto in far conti. Gli stava accanto il suo aiutante di campo. Sarebbe stato possibilissimo trovare un ufficio migliore; ma il maresciallo Davout era uno di quegli uomini, i quali si mettono a posta nelle più fosche e cupe condizioni per avere il diritto di esser cupi e foschi. Per questo anche son sempre affaccendati e concentrati in un qualsiasi lavoro. «Come si può pensare al lato bello della vita, quando, voi lo vedete, io sto qui a sgobbare in un sudicio granaio, seduto sopra una botte?» diceva l’espressione del suo viso. La voluttà maggiore, anzi l’imperiosa esigenza di coteste nature, consiste in ciò, che quando s’imbattono in una qualunque manifestazione di animata vitalità, le scagliano in faccia la loro operosità tetra e caparbia. Appunto questa voluttà si procurò Davout, quando Balasciow gli fu condotto davanti. Si sprofondò maggiormente nelle sue cifre, e sbirciando attraverso gli occhiali il viso del generale russo, eccitato dal recente colloquio con Murat e dalla bella frescura mattutina, non si alzò, non si mosse, aggrottò le sopracciglia e atteggiò le labbra ad un ghigno sinistro.

    Accortosi poi dal viso di Balasciow dell’impressione prodotta da una tale accoglienza, alzò la testa e freddamente gli domandò che volesse.

    Pensò Balasciow che quell’accoglienza fosse da attribuire al fatto che il maresciallo ignorava di trovarsi in presenza di un generale, aiutante di campo dell’imperatore Alessandro e suo rappresentante presso Napoleone, epperò si affrettò a declinare i propri titoli e a spiegare il mandato affidatogli. Se non che, contro ogni aspettativa, Davout divenne più fosco e più burbero.

    — Dov’è il vostro piego? Date qua. Lo manderò io all’imperatore.

    — Io ho l’ordine però di consegnarlo nelle proprie mani di Sua Maestà.

    — Gli ordini del vostro imperatore valgono per la vostra armata. Qui dovete fare quel che vi si dice.

    E come per far meglio sentire al generale russo la brutalità della forza cui dovea soggiacere, mandò a chiamare l’ufficiale di guardia.

    Balasciow cavò di tasca il piego e lo posò sulla tavola, consistente in una porta scardinata messa di lungo su due barili. Davout lo prese e lesse l’indirizzo.

    — Voi siete in diritto, – disse Balasciow, – di trattarmi con o senza riguardi. Permettetemi però di farvi osservare che io ho l’onore di essere aiutante generale di Sua Maestà.

    Davout lo guardò in silenzio, assaporando, si vede, una certa soddisfazione a notarne il mal represso turbamento.

    — Vi saranno resi i dovuti riguardi, – disse, e intascata la lettera, uscì.

    Entrò di lì a poco un signor De Castre, aiutante del maresciallo, e condusse Balasciow all’alloggio assegnatogli.

    Balasciow desinò quel giorno nel granaio, in compagnia di Davout, su quella medesima tavola sostenuta dai barili.

    Il giorno appresso, di buon mattino, Davout partì, dopo aver fatto bene intendere al generale russo che non si movesse di là, che verrebbe dopo, se mai, insieme coi bagagli, che non parlasse con anima viva, eccetto il signor De Castre.

    Dopo quattro giorni d’isolamento, di noia, di soggezione e d’impotenza, tanto più cocenti per chi s’era trovato testè nelle più alte sfere del potere, dopo vari andirivieni insieme coi bagagli del maresciallo e in mezzo a truppe francesi che occupavano tutto il paese, Balasciow fu menato a Vilna, e vi entrò per la stessa barriera dalla quale era partito pel campo francese.

    La mattina seguente, gli si presentò il conte Turenne, ciambellano, e gli comunicò che l’imperatore Napoleone si degnava riceverlo in udienza.

    Quattro giorni innanzi, quella stessa casa verso la quale condussero il generale russo, era guardata da sentinelle del reggimento Preobrajenski; ora invece montavano la guardia due granatieri francesi in cappotto turchino aperto sul petto e berrettoni pelosi. Uno squadrone di ussari e di ulani, un brillante seguito di aiutanti, di paggi, di generali, aspettavano l’uscita di Napoleone, raccolti presso lo scalone intorno al cavallo imperiale, che il mammalucco Roustan teneva pel morso. Napoleone riceveva Balasciow in quella stessa casa di Vilna, dove l’imperatore Alessandro gli aveva affidato il suo messaggio.

    VI

    Benchè assuefatto alla pompa delle corti, stupì Balasciov davanti alla grandiosità ed al lusso della corte napoleonica.

    Il conte Turenne lo menò in una vasta anticamera, folta di generali, ciambellani, magnati polacchi, molti dei quali avea già visto Balasciow alla corte di Alessandro. Duroc gli disse, che l’imperatore lo avrebbe ricevuto prima della passeggiata.

    Dopo pochi minuti di attesa, venne avanti il ciambellano di servizio, e fattogli un inchino cortese, lo invitò a seguirlo.

    Balasciow entrò in un salottino, una porta del quale metteva in quello stesso gabinetto, dove aveva avuto luogo il suo ultimo colloquio con

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