2 parti di alcool 1 parte di dolore
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2 parti di alcool 1 parte di dolore - GIORGIO D'AMBROSIO
rincontreremo>>.
1
Un rumore gracchiante, insistente, mi sveglia di soprassalto. Apro gli occhi cerco di mettere a fuoco, la testa scoppia, mille aghi trafiggono stanchi neuroni, ho la bocca arsa, secca incapace di emettere alcun suono, con occhi pesanti esploro la stanza dalla poltrona, immobile in capacitato nei movimenti alla ricerca della fonte rumorosa. Sul tavolino davanti a me, con molto fatica la trovo. Il cellulare, vibra in modo ossessivo, come se fosse indemoniato, allungo la mano, provo ad afferrarlo, a domarlo. Lo giro tra le mie mani addormentate, come se fosse un oggetto sconosciuto, lo guardo con aria inebetita, non so cosa fare, lui, il demone continua ad agitarsi tra le dita cercando di scappare via, di fuggire, di mettersi in salvo, il cervello non risponde, non riesco a prendere una decisione, finché inavvertitamente non schiaccio il tasto verde per rispondere. Il telefono si calma, non si dimena più, ora sembra un comune oggetto innocuo senza alcuna utilità, come un ferma carte. Silenzio, lunghi istanti di quiete finalmente avvolgono la stanza, la pace cade su di me, la mente si placa, i miei neuroni non corrono più impazziti da un capo all’altro della calotta cranica. Cerco di godermi quel momento, di riaddormentarmi, di cadere di nuovo nell’oblio al quale sono stato ingiustamente sottratto, quando da lontano, percepisco una voce metallica pronunciare in maniera cauta un <
Provo ad ignorare quella sottile flebile invocazione di aiuto, ma non ci riesco, la coscienza, la curiosità prendono il sopravvento, pigramente porto il distruttore di pace all'orecchio. Ascolto la voce ripetere in maniera disperata.
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Trattengo il fiato, ascolto in silenzio, intenzionato a non far capire alla voce dall’altra parte del telefono che ci sono.
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Bisogno, mi metto ha pensare a quella parola appena pronunciata dall'ignaro interlocutore. Bisogno uguale a necessità, a dipendenza, mi metto a ridere, silenziosamente, chi mai avrebbe bisogno di me? Del mio aiuto?. Continuo a non fiatare, a ridere tra me e me, mentre prego che l’estraneo chiuda il telefono con un sonoro vaffanculo.
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Mi servono le sue qualità come investigatore, arrovello le meningi pensando a quelle disperate parole che mi ha rivolto, penso ad uno scherzo da parte di alcuni ex colleghi. Istintivamente, senza pensarci troppo mandando in malora qualsiasi presupposto di ignorare quella richiesta di aiuto e rispondo con voce carica di rabbia.
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La voce dall’altra parte del telefono si ammutolisce, non sento più nessun suono provenire dall’auricolare, credo di aver fatto centro, di aver sabotato il loro scherzo, ma mi sbaglio.
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Di nuovo passano alcuni istanti in cui non sento provenire alcun suono, ma poi come è accaduto prima riparte alla carica, in maniera sempre più eccitata.
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Rimango incuriosito, dentro di me, tra i miei miseri neuroni iniziano a danzare le parole che aveva appena pronunciato l'uomo. La persona che mi ha parlato di lei, è il più bravo. Un piccolo campanello di allarme risuona seccamente nella testa, qualcosa di oscuro incomprensibile mi spinge a dire, <
L’uomo prontamente risponde, una piccola scintilla di speranza arricchisce ora la sua voce, <
Marco Caretti, soprannominato Agenda, il mio unico amico, l’unico che mi era rimasto vicino, l’unico che non mi ha mandato a quel paese come tutti gli altri. Emetto un lungo e pesante sospiro, prendo tempo e dico, <
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Lo saluto con fare distaccato, senza aspettare che contraccambi chiudo la telefonata. Marco, in che cazzo di guaio mi voleva cacciare?. Perché ora dopo tre anni si era affannato a trovarmi un lavoro?. Non potevo di certo chiamarlo ora è arrabbiarmi con lui, in fondo in questi tre lunghi anni era stato l’unico ad essermi stato vicino, a sopportare i miei deliri. No, non potevo chiamarlo e mandarlo a fanculo, la sola cosa che potevo fare è andare dal signor De Franceschi, ascoltarlo e dopo una mezz’oretta dirgli la verità, che non sono il più bravo, che sono anni che non esercito più il mestiere, che sono ad un passo dalla radiazione, e poi con molta delicatezza consigliargli qualcuno più in gamba, qualcuno che sappia che vuol dire essere un investigatore, e salutarlo augurandogli buona fortuna. Ci penso, mi convinco che sia la cosa giusta a fare, l’unica cosa buona che io possa fare per lui.
2
Venti minuti dopo sono sotto casa sua, via don torello numero 32, la casa di De Franceschi. Penso a quello che mi aveva appena detto, è un grazioso condominio di color arancio pallido, mi viene da ridere, immagino il mio impossibile datore di lavoro come ad un persona molto ottimista. Allungo la mano verso il sedile alla mia destra, grazioso arancio pallido. Quello che mi trovo davanti è un edificio fatiscente, dei primi anni 50, il colore la struttura fanno intuire che ha avuto momenti migliori, ma ormai sono andati, lontani, impossibilitati a tornare. Afferrò avidamente la bottiglia e la porto verso la bocca , arancio pallido. Se quello era il modo di descrivere le cose da parte di De Franceschi, allora tutto era possibile, era possibile che il suo problema non era cosi grave, era possibile che si trattava di una grossa cazzata. Bevo freneticamente senza ingoiare, riverso nelle budella tutto il prezioso liquido presente nella bottiglia, spengo il motore, sospiro e scendo giù dalla macchina. Guardo un ultima volta quel mostro di cemento che mi sovrasta, prima di gettarmi nelle sue fauci. Rimuginando, grazioso arancio pallido.
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Sorpreso dichiara <
Decido per le scale, odio gli ascensori, odio quel senso di chiuso che trasmettono, penso di essere fortunato che abiti al secondo piano, e subito dopo il primo scalino penso di essere un fesso ad aver voluto fare le scale con mezzo litro di whisky nello stomaco. Passa un eternità prima che riesco a raggiungere il secondo piano, De Franceschi è sull’uscio di casa che mi guarda con aria perplessa, gli faccio un cenno con la mano e lui dice,
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Mi stringe la mano guardandomi con occhi lucidi pieni di speranza, io gli porgo la mia senza togliere gli occhiali da sole, senza dire niente, senza far scoprire che sono mezzo ubriaco. Mi invita ad entrare, fa cenno di seguirlo all’interno. Ci accomodiamo in un piccolo stanzino adibito a salotto, mobili spartani, dozzinali arredano quel misero ambiente, un enorme scrivania piena di fogli lasciati sopra di essa alla rinfusa adornano quel tavolo di scarsa qualità, una musica gracchiante, metallica viene prodotta da un vecchio grammofono alle mie spalle. Si accorge del mio nuovo interesse e prontamente confida,
<
Faccio una piccola smorfia e penso al mio unico sollievo, all'unico modo di sentirmi sereno, penso alla bottiglia. Mi fa sedere sulla sola poltrona presente nella camera, il vecchio vinile continua a suonare l’armoniosa sinfonia di Miller e penso è veramente un peccato
. Lo vedo uscire goffamente e tornare qualche istante dopo con una vecchia e malsicura sedia di legno, scricchiola appena ci poggia su le sue piccole e scheletriche natiche. Siamo uno davanti all’altro non diciamo niente, sfrutto l’occasione per esaminarlo, per capire chi mi trovo davanti. Un piccolo vecchio uomo, che da un pezzo ha passato la sessantina, un lavoratore da quello che riesco a notare dalle sue callose mani, sicuramente un artigiano o un operaio, un uomo stanco debole che sperava di passare il resto della sua vita in maniera serena.
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I suoi occhi sono carichi di lacrime, la sua voce è rotta spezzata dal dolore.
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Scoppia a piangere, piange in maniera disperata, inconsolabile.
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Piange, in maniera frenetica senza ritegno, le lacrime sgorgano come un torrente dai suoi occhi, mi guarda e continua a piangere, singhiozza come un bambino, trema, microscopici irrefrenabili sussulti vengono scaturiti dalle sue piccole ossa fin fuori verso i suoi muscoli. Passano i minuti, lenti, interminabili, dolorosi, cerca di riprendere il controllo, di calmarsi, di rallentare quello sgorgare di lacrime e pianti isterici in cui è caduto, ed io mentre aspetto che ciò accada sprofondando nella sua scomodissima poltrona mi ritrovo a pensare Povero vecchio
.
Gli passo un fazzoletto che trovo sulla scrivania, glielo porgo, il suo pianto sta scemando, i suoi occhi che fino a qualche momento prima erano come due fiumi in piena ora sono due pozze ristagnanti, lucide. Mi guarda con gli occhi di un bambino, osserva come se fossi il salvatore venuto a redimerlo, sta li zitto aspettando che io gli dica qualcosa, che lo rassicuri. Dentro di me un grande vuoto fatto di dolore e stanchezza si fa avanti, penso al vecchio, a quello che ha detto, al modo più facile per dirgli che non posso occuparmi del caso. Cerco di aprire la bocca, lasciar uscire le parole, dirgli che mi dispiace, che non posso accettare, cerco di trovare un modo pacifico, diplomatico accondiscendente per dire mi dispiace
, ma non lo trovo. L’unica cosa che riesco a pronunciare è un freddo e distaccato <
Fantastico nel pensare a qualche buona ragione, di inventare una scusa plausibile, ma la verità è che sono una merda come persona e ancora peggio come attore.