Un pugnale in un bicchier d'acqua
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Info su questo ebook
L’io che teme di perdersi nel tu nella relazione d’amore, il desiderio di sfuggire a una vita banale seguendo l’elefantessa di un circo, la disperazione dinanzi alla prospettiva di perdere l’oggetto del nostro amore (il bambino su cui dovremmo vegliare, il figlio inseguito dal suo assassino).
Con la tecnica di un tessitore di arazzi o di un pittore di vetrate, il brasiliano Osman Lins (1924-1978) compone quattro densissimi quadri chiamando il lettore a decifrarvi la sua avventura personale.
La raccolta, curata da Vincenzo Barca e Daniele Petruccioli, aggiunge un nuovo tassello agli ebook dei Dragomanni.
www.dragomanni.it
Circa 175.000 caratteri complessivi.
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Anteprima del libro
Un pugnale in un bicchier d'acqua - Osman Lins
Schember
Vetrate
«Quando ho scritto i racconti qui riuniti, che alludono tutti al tema dell’impotenza (di fronte agli elementi, di fronte al linguaggio, di fronte agli occhi di un morto), la mia maggiore aspirazione riguardava due aspetti: a) riuscire a ottenere la frase più limpida possibile; b) prestando ascolto alla voce di Aristotele, fondere in un istante unico, privilegiato, i fili di ogni breve composizione, come se tutto il passato vi si addensasse.»
Così Osman Lins in un’intervista rilasciata a qualche anno di distanza dalla pubblicazione di Nove, novena, da cui sono tratti i racconti che qui presentiamo. E, nella stessa occasione, confessa di essere «preparato alla perplessità di coloro che non hanno vissuto la genesi della sua opera con una intensità pari alla sua», pur dicendosi infine fiducioso nell’efficacia del linguaggio: «ogni volta che ho chiesto un bicchier d’acqua mi hanno portato un bicchier d’acqua, mai un pugnale».
Discende inevitabilmente da queste dichiarazioni un’avvertenza per il potenziale lettore: Osman Lins non ha una scrittura facile, richiede l’attenzione del suo lettore, lo chiama in causa, lo sfida programmaticamente, ma lo premia anche, sollecitandolo a guardare il mondo da un altro punto di vista, regalandogli un «terzo occhio». È questo il motivo per cui abbiamo deciso di riscattarlo dall’oblio e di proporlo in questa traduzione italiana. Con l’ulteriore avvertenza (Lins non è più qui per smentirci) che, aspettandoci un bicchier d’acqua, potremmo ritrovarci ad affrontare un pugnale.
Com’è stato notato da numerosi critici, prevale in Nove, novena uno spazio a due dimensioni che abolisce la prospettiva. In questo, O.L. si richiama all’arte delle vetrate medievali. Le vetrate hanno spesso un loro preciso contenuto narrativo che però non si svela a uno sguardo superficiale. Esse si animano di personaggi accompagnati da iscrizioni e da schiere di motivi decorativi rappresentanti animali, piante e simboli delle attività umane. Inoltre, la luce che filtra attraverso i vetri colorati, con le sue rapide mutazioni, rimanda al succedersi di momenti «unici», che appaiono in fotogrammi distinti, in cui il fluire della narrazione è affidato piuttosto alla sensibilità di chi li guarda in quest’ordine frammentato. E, così come nelle vetrate, i nessi tra le piccole storie degli umani e il cosmo sono consegnati all’attenzione di chi legge (si pensi al violento succedersi delle ere geologiche che invadono il pensiero di un padre che cerca disperatamente il figlio scomparso su una spiaggia improvvisamente trasformata in deserto tombale nel racconto «Oggetti smarriti»). È la tecnica che raggiunge la sua massima espressione nei quadri del «Retablo di Santa Joana Carolina» (il più lungo – quasi un microromanzo – dei racconti di Nove, novena). Come nelle vetrate, il retablo infatti stabilisce una relazione tra i personaggi raffigurati e l’universo oltremondano, mitico, eterno. I personaggi e lo spazio tra loro non hanno confini precisi, sono «indistinguibili» (come suggerisce il titolo di uno dei racconti qui antologizzati), creando così un «personaggio-tutto» (la vetrata, il retablo nel suo insieme). Sta al lettore – se ne ha voglia, dice O.L., e se non ha fretta – scoprire e dare un ordine (temporale e spaziale, visto che a queste coordinate siamo abituati a riferirci) a ciò che non si può illustrare sulla facciata di vetro del testo. Alla nostra percezione il compito di fornire alla narrazione quella terza dimensione – la profondità – che farà di ogni testo un’esperienza personale e a sua volta «unica».
La tappezzeria, più volte evocata nei racconti e soprattutto nel romanzo-chiave di O.L., Avalovara, rimanda invece all’importanza della tecnica, all’abilità con cui il tessitore ordisce i fili, alla destrezza con cui manovra il telaio per dar vita a un prodotto in cui la sua mano scompare e non lascia firma. Anche qui ciò che appare, se gli si concede uno sguardo attento come a un arazzo antico, è un’apparente fissità di personaggi immersi in un mondo fitto di riferimenti. E tuttavia questo mondo (un esempio si trova nell’incipit di «Racconto barocco», dove lo sguardo indugia, oltre che sulla tappezzeria, sulle scene campestri che ornano il vestito della protagonista) non è semplice sfondo, intrattenendo con la storia narrata una relazione profonda: le scene sui tessuti (come quelle sulle vetrate e nei retablo) sono, a tutti gli effetti, scene della narrazione, contemporanee ad essa, «indistinguibili».
E tuttavia sarebbe sbagliato considerare la virata artistica di Nove, novena (rispetto alle precedenti opere dell’Autore) solo come un piegarsi alle nuove istanze dello sperimentalismo (il libro è contemporaneo al movimento francese del nouveau roman) o all’influenza esercitata dalla vena fantastica della narrativa ispano-americana che esplodeva in quegli anni. Il fatto che spesso i protagonisti dei racconti siano identificati solo attraverso segni grafici fa sì che, al di là di chi le pronuncia, nelle loro parole sia possibile cogliere, mitizzate, eternizzate, paure e angosce che appartengono a ognuno di noi. L’io che teme di perdersi nel tu nella relazione d’amore, il desiderio di sfuggire a una vita banale seguendo l’elefantessa di un circo, la disperazione dinanzi alla prospettiva di perdere l’oggetto del nostro amore (il bambino su cui dovremmo vegliare in «Oggetti smarriti», il figlio inseguito dal suo assassino in «Racconto barocco»).
Se non c’è, nei quattro racconti che proponiamo, il Nordeste brasiliano violento e primitivo raffigurato nella pala d’altare del «Retablo», il Brasile compare con riferimenti forti che concorrono al colore dell’intera composizione. Dalla città rumorosa di traffico notturno che intravedono dalla finestra i due amanti «indistinguibili», alla provincia (Vitória, la città natale dell’Autore) dei piccoli scandali in cui arriva come un immoto ciclone l’elefantessa Hahn, alle spiagge e alla complessa architettura d’acqua del Grande Recife, di cui sono citati ponti e canali in «Oggetti smarriti», fino ai tre gioielli barocchi – Ouro Preto, Tiradentes e Congonhas, dove il più grande artista luso-americano, l’Aleijadinho, ha scolpito, a grandezza naturale e nella pedra-sabão del posto, le immagini dei dodici profeti – che fanno da scenario al «Racconto barocco». Senza contare gli inventari, cari a Lins, di animali e alberi tipici del paesaggio brasiliano che, con una sorta di giubilo infantile, l’Autore nomina, assaporandone il suono e chiamando l’intera Natura a testimone del mal di vivere che emana dalla perfetta composizione degli elementi.
Figlio di un sarto di nome Teófanes e di una giovane che morirà pochi giorni dopo averlo dato alla luce, Osman Lins nasce a Vitória de Santo Antão (nello stato di Pernambuco) nel 1924. Nel 1943 si impiega presso il Banco do Brasil e si laurea alla Facoltà di Scienze Economiche dell’Università di Recife. Inizia la sua carriera di scrittore con il romanzo O visitante (1955) e la raccolta di racconti Os gestos (1957), lavorando nel frattempo come giornalista culturale per la radio e per la carta stampata. Nel 1961 trascorre sei mesi a Parigi come borsista dell’Alliance Française. Nello stesso anno viene rappresentata, a Rio, la sua pièce teatrale Lisbela e o prisioneiro ed esce il suo terzo romanzo, O fiel e a pedra, accolto entusiasticamente dalla critica e vincitore di numerosi premi. Per seguire il suo progetto letterario, ormai diventato preminente, Lins decide di trasferirsi a São Paulo. Qui lancia Marinheiro de primeira viagem (sulla sua esperienza europea) e diventa figura di spicco nel dibattito culturale dell’epoca. È del 1966 la pubblicazione di Nove, novena, raccolta innovativa con la quale vira decisamente verso un registro antirealista ancorato a una rigorosa costruzione narrativa. Nel 1969 pubblica Guerra sem testemunhas, una raccolta di saggi in cui, combattivamente, condensa il suo pensiero sul ruolo dello scrittore nella società. Nel 1970 lascia definitivamente il Banco do Brasil per insegnare Letteratura Brasiliana nella Facoltà di Filosofia di Marília, a São Paulo; un’esperienza deludente che abbandonerà dopo pochi anni. Esce intanto (1975) il romanzo a cui aveva dedicato molti anni di lavoro, Avalovara, e, nel 1976, l’ultima sua opera narrativa, A rainha dos cárceres da Grécia. Entrambi questi romanzi lo consacrano come uno dei grandi autori della letteratura brasiliana contemporanea. Nel contempo si dedica al teatro (Santa, automóvel e soldado va in scena in questi anni) intervenendo nella polemica sulla valorizzazione del testo teatrale nei confronti della messa in scena. Compie molti viaggi in Europa, dove la sua opera comincia a essere nota, e, dopo un breve soggiorno in Perù e Bolivia, scrive, insieme alla seconda moglie, la scrittrice Julieta Godoy Ladeira, il saggio La Paz existe? Muore nel luglio del 1978, dopo pochi mesi di malattia, mentre è intento alla preparazione di un romanzo che non vedrà mai la luce: Uma cabeça levada em triunfo.
Traduzioni italiane:
Avalovara (trad. di G. Segre Giorgi), Il Quadrante, Torino 1987.
Misteri di Santa Joana Carolina (trad. di V. Barca), Marietti, Genova 1999.
L’isola nello spazio (trad. di A. Morino), Sellerio, Palermo 2000
Vincenzo Barca
Il pentagono di Hahn
↕In differenti città,