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I racconti delle fate
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I racconti delle fate
E-book814 pagine12 ore

I racconti delle fate

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Fiabe francesi alla Corte del Re Sole

Introduzione di Emanuele Trevi
Cura e traduzione di Elena Giolitti

Sono raccolte in questo volume le più belle fiabe composte da scrittori francesi del Seicento e del Settecento. Negli ultimi anni del regno di Luigi XIV iniziò a dilagare una vera e propria moda «delle fate» che stimolò molti scrittori alla rielaborazione delle più significative fiabe provenienti dalla tradizione popolare. Artisti operanti nei più diversi campi d'espressione - da Gustave Doré a Walt Disney, da Maurice Ravel a Jean Cocteau - hanno tratto ispirazione da questi racconti, che appartengono a uno dei più interessanti capitoli della narrativa europea.

Da Cenerentola a Cappuccetto Rosso, da Pollicino a La bella addormentata nel bosco, tornano in questa antologia gli indimenticabili protagonisti della nostra infanzia.


Charles Perrault
(1628-1703) deve la fama letteraria ai suoi racconti per l'infanzia, tra i migliori esempi del genere. Con le storie de La bella addormentata nel bosco, Cappuccetto rosso, Barbablù, Il gatto con gli stivali e moltissime altre ha infatti dato inizio in Francia alla tradizione della fiaba.
LinguaItaliano
Data di uscita16 dic 2013
ISBN9788854156364

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    Anteprima del libro

    I racconti delle fate - Charles Perrault

    Lo scrittore e le fate

    La tradizione letteraria europea annovera alcuni capolavori dall’Odissea a Pinocchio, passando per l’Orlando furioso e il Don Chisciotte – ai quali è toccata in sorte una fortuna la cui multiforme originalità è tale da oscurare, a vantaggio del loro contenuto d’immagini (personaggi, situazioni...), l’identità stessa di chi li scrisse e le condizioni materiali e storiche del loro concepimento. Forse nulla più di questi libri ci introduce nella dimensione intemporale di ciò che definiamo «classico»: il miracolo di una creazione tanto più individuale quanto più disposta alle più svariate manipolazioni ed interpretazioni che si accavallano ininterrottamente nel mutare dei tempi. Frutto maggiore della grande esplosione favolistica che conclude, su di un tono di trasognata fantasticheria, il Seicento francese, le fiabe di Perrault (1697) appaiono come un caso limite di questa generosissima vitalità storica. Perché i personaggi di quel libro, da Barbablù a Cenerentola, da Pollicino al Gatto con gli stivali, continuano a vivere nel mondo come elementi di un continuo processo di reinvenzione, creature di tutti e di nessuno. Perrault li aveva prelevati dal fondo opaco e instabile di un’oralità che – come due secoli di ricerche etnologiche e folkloriche ci hanno dimostrato a sazietà – sembra non conoscere i confini di tempi storici e spazi geografici. Ma dalle pagine del suo esile libretto, dove si erano sottratti ai pericoli della caducità, questi personaggi sono tornati nell’universo anarchico e imprevedibile di un’inesausta creatività collettiva. Si sono prestati a soggetti della fantasia grafica di disegnatori come Dorè e Rackham, al languido estro musicale di Ravel, agli incanti cinematografici di Méliès e poi di Walt Disney... In questa avventura storica lunga ormai tre secoli, e che non sembra destinata ad all’estarsi (è del 1990 il riuscito romanzo della spagnola Carmen Martin Gaite, Cappuccetto Rosso a Manhattan, per fare un esempio), non possiamo dimenticare, noi italiani, l’incontro con Perrault (e con altra produzione favolistica che il lettore troverà in questo volume) di quello straordinario traduttore che fu Carlo Collodi (intitolato Racconti delle fate, il volume delle versioni collodiane uscì nel 1875 ed è stato continuamente ristampato). Anche perché il suo Pinocchio non avrebbe tardato a seguire gli eroi di Perrault lungo le vie inesauribili dell’immaginario occidentale.

    Charles Perrault nacque nel 1628 a Parigi, dove morì nel 1703. Lo smilzo libretto delle sue favole, che doveva assicurargli l’immortalità, fu stampato nel gennaio del 1697, con il titolo Histoires ou Contes du temps passé avec des moralités, quando l’autore si approssimava alla soglia dei settantanni. E la stessa evidenza delle date a parlarci di un’esperienza conclusiva, giunta al termine di una vicenda umana, letteraria e politica fra le più complesse e brillanti del suo tempo. Di fronte alla biografia di Perrault si rimane come storditi, alla ricerca di un plausibile filo conduttore al quale annodare le differenti maschere che il suo ingegno si compiacque di indossare. Il primo Perrault di fronte a cui lo studioso si trova è il poeta burlesco, che ancora adolescente dà un travestimento comico (alla maniera del caposcuola nel genere, Scarron) alla grave materia del vi libro dell’Eneide. Possiamo qui riconoscere la remota radice di quello che poi, con ben altre motivazioni intellettuali, diventerà il segno polemico distintivo della fisionomia intellettuale di Perrault: l’irriverente libertà nei confronti dei classici, la battaglia incalzante contro ogni forma di culto del passato.

    Viene subito dopo, in questa ideale cronologia, il Perrault abilissimo tributario del codice letterario e sentimentale della galanteria «preziosa», ammiratore dei prolissi romanzi, suddivisi sempre in decine di tomi, di Mademoiselle de Scudéry. Perfette nel loro genere, alcune operette come il Dialogo di Amore ed Amicizia (1657) e soprattutto Lo specchio o la metamorfosi di Orante (1661 ) non ci fanno certo intravedere (come qualche critico troppo generoso ha tentato di suggerire) le future movenze del favolista, ma testimoniano di un apprendistato stilistico disponibile ad ogni avventura. Se la produzione «preziosa» (in lui come in decine d’altri) vive al confine tra aspirazioni artistiche e gioco mondano (teneramente illanguidito d’erotismo), quella encomiastica, volta alla puntuale celebrazione d’ogni fasto del Re Sole, era senza dubbio accompagnata da un coinvolgimento emotivo più diretto da parte di Perrault. Non che nei versi encomiastici possa essere riconosciuta una particolare originalità espressiva, capace di riscattarli dalla più grigia prevedibilità. In una lettera del marzo 1662 è Racine a criticare con severità un’ode composta nel novembre precedente in occasione della nascita del Delfino, che gli appare messa assieme «a colpi di martello» e nella quale non riconosce gli abituali pregi intellettuali di Perrault. Considerazioni che possono essere estese a tutto il settore «cortigiano» della sua opera. Ma resta il fatto che l’esperienza della Corte va contata fra le decisive, se non la più importante, dell’intera esistenza dello scrittore, per vent’anni (dal 1663 al 1683, data della morte dell’onnipotente ministro) strettissimo collaboratore di Colbert. Nelle sue tarde Memorie Perrault si compiacerà, com’era giusto, di tracciare un autoritratto di funzionario non privo di elementi di umana simpatia, come quando ricorda che fu lui a convincere Colbert ad accordare al popolo parigino il piacere di passeggiare liberamente nei giardini delle Tuileries. Ma le sue responsabilità come «premier commis des bâtiments» furono comunque grandissime, se si pensa al molo che l’architettura monumentale rivestì all’interno del grande disegno politico-culturale di Luigi XIV Anche se non ci sono rimasti i documenti necessari a dirimere la questione, è ipotizzabile un diretto coinvolgimento di Charles e di suo fratello Claude (il versatile medico-architetto) nella progettazione della facciata del Louvre. Lo spazio della Corte, d’altra parte, è contiguo a quello dell’Accademia, che deriva dalla prima lustro e reale potenza. Non poteva esserci per un letterato come Perrault un luogo più consono al suo temperamento. Dal momento della sua ammissione (nel novembre del 1671) all’Académie française (della quale sarà presto «cancelliere») sarà questa l’ideale platea del suo polimorfo operato di scrittore. Appoggiato da Colbert, introdurrà delle fondamentali modifiche nel regolamento dei lavori accademici, come la votazione a scrutinio segreto e la pubblicità delle sedute, impegnandosi a fondo anche nel dare nuovo impulso ai lavori del grande Dizionario, che vedrà la luce nel 1694. Ma, soprattutto, è tra i banchi dell’Accademia che Perrault conduce la sua più ambiziosa battaglia culturale, passata alla storia come Querelle des Anciens et des Modernes. Si è già accennato ad un nativo atteggiamento di irriverenza nei confronti dell’eredità letteraria greco-latina. Nel 1674, Perrault poteva difendere pubblicamente l’Alceste, opera musicata da Lulli sui versi di Quinault, sostenendo la sua superiorità sul modello di Euripide. E toccherà di nuovo a Racine, nella prefazione alla sua Ifigenia dell’anno successivo, il compito di rimbeccarlo, con molte ottime ragioni. Ma ciò che sfugge a Racine è la sostanza autentica della posizione culturale di Perrault e di quanti lo sosterranno nella sua polemica contro il culto degli Antichi. Non è possibile infatti limitare questa polemica nell’ambito delle istituzioni letterarie. Perché è chiaro, non solo agli occhi di Racine, che Euripide sia scrittore più grande di Quinault. Ma il dissidio, per Perrault, si concreterà non in una posizione estetica, bensì nelle forme di un ’ambiziosa costruzione antropologica la cui codificazione è affidata – tra il 1688 e il 1697 – ai quattro volumi del Parallèle des Anciens et des Modernes. Lo scrittore, il cortigiano, l’abile funzionario: tutte le anime di Perrault si fondono nelle pagine di quest’opera che l’Illuminismo apprezzerà come una profezia (è di D Alembert un partecipe elogio di Perrault). Un’adesione incondizionata al proprio tempo è il sentimento che – implicito in ogni precedente pagina dello scrittore – erompe in tutte le sue conseguenze nelle pagine del Parallèle. E l’adesione di un uomo che, di fronte ai tanti e mirabili scavi in profondità compiuti dagli scrittoti di quell’epoca, da La Rochefoucauld a Pascal, da Madame de La Fayette a Racine, trova il suo limite ed insieme la sua particolare grandezza nell’osservazione, vibrante d’entusiasmo, della superficie. Figlio di una civiltà infaticabile nel produrre le sue splendide apparenze, egli legge il mondo mantenendosi fedele a quella búllante evidenza, che è progresso dell’arte e della politica, della giurisprudenza e dei costumi privati...

    L’ultimo volume del Parallèle reca la data del 1697, la stessa del volume delle favole. Da molti, l’apparente inconciliabilità delle due opere è stata considerata come il vero problema critico posto dalla camera di Perrault. Già il grande Sainte-Beuve, in un bellissimo articolo del 1851, si provò ad interpretare questa «contraddizione» del partigiano veemente di ogni forma della modernità che nello stesso tempo compone le sue favole ricorrendo ad un immemoriale patrimonio narrativo, risalente ad una notte dei tempi più oscura di quella nella quale vissero Greci e Latini. Per Sainte-Beuve, si tratta di un vero e proprio «argomento contro se stesso». Ma, ritornando sullo stesso argomento dopo dieci anni esatti, per festeggiare la stampa delle favole illustrate da Gustave Doré (per lodare le quali rimpiange di non possedere la penna di Théophile Gautier), il critico sembra darsi un’altra risposta, capace di conciliare, questa volta, il favolista al cantore del progresso: con i suoi ingenui racconti, Perrault avrebbe infatti dimostrato l’esistenza di un mondo fantastico che non ha «nulla da invidiare» a quello degli Antichi. A favore della sua ipotesi, Sainte-Beuve avrebbe potuto citare un documento importantissimo nella strada di Perrault verso il capolavoro del 1697. Le favole in prosa lì raccolte non sono infatti le prime prove compiutamente narrative dello scrittore. C’è la favola «preziosa» già citata sulla Metamorfosi di Orante. Ma soprattutto ci sono i tre racconti in versi, composti all’ombra del magistero di La Fontaine, dei quali uno, Pelle d’asino, è una vera e propria favola, della quale circolerà anche, arbitrariamente annessa al corpus del 1697, una versione apocrifa in prosa molto amata da Flaubert, che ne parla in una lettera a Louise Colet del 1852. Nel 1695, Perrault pubblica un’edizione dei tre racconti ai quali per la prima volta aggiunge una Prefazione molto importante. Come spesso accade in questi scritti, lo scopo di Perrault è eminentemente giustificativo. Per prima cosa, egli ricorda al suo pubblico che novelle e favole facevano già parte del patrimonio letterario degli antichi, come dimostrano almeno due insigni documenti: la storia della Matrona d’Efeso nel Satyricon di Petronio e quella di Amore e Psiche (rielaborata da La Fontaine, tra l’altro) nell’Asino d’oro di Apuleio. Dunque la novella e la favola devono essere permesse anche nella prospettiva del più rigido classicismo. Ma la narrazione moderna, prosegue Perrault, ha un vantaggio in più, perché il suo intento educativo è ben riconoscibile nelle pieghe del racconto, mentre, ad esempio, il senso della storia di Amore e Psiche rimane «un enigma impenetrabile». E dunque legittimo il sospetto che questa fiaba sia stata composta (come «la maggior parte di quelle che ci restano degli Antichi») solo per il gusto di piacere, «senza riguardo ai buoni costumi», a quei tempi, evidentemente, negletti.

    I temi di una pedagogia condotta sulfilo iridato delle figure narrative e della connessa destinazione infantile delle fiabe non sono solo un tributo al vieto motivo oraziano (Ars poetica) del «dolce» da mescolare all’«utile». Hanno invece una precisa valenza auto- biografica per quel Perrault che, dal momento del suo ritiro ad una agiata vita privata, si dedicò attivamente all’educazione dei figli che gli erano venuti dal matrimonio con Marie Guichon, sposata diciannovenne nel 1672 e morta cinque anni dopo. La fiaba moderna, con il suo trasparente contenuto educativo, lo scrittore, con tutta verosimiglianza, la aveva sperimentata in un circolo tranquillo di domestici affetti (e quella del «padre di famiglia», allora, andrà subito acclusa al catalogo delle «anime» di Perrault).

    Gli storici della letteratura e del costume, d’altra parte, sono concordi nel segnalare una vera e propria fioritura del meraviglioso che invade quasi ogni aspetto della produzione culturale francese a partire, all’incirca, dal 1680. Del sorgere di una moda del racconto fiabesco nei salons eleganti è puntuale testimone quella grande annalista della vita parigina che fu Madame de Sévigné, in una lettera, spesso citata, alla figlia, dell’agosto 1677. E importante tener sempre presente questo legame fra singoli scrittori e costume collettivo, spesso evidente nella storia del gusto letterario francese. Nulla del genere, invece, possiamo ricostruire attorno a due libri italiani indubbiamente capaci di fornire spunti e modelli narrativi anche ai nuovi fiabisli francesi: Le piacevoli notti di Francesco Straparola (1550-56), tempestivamente tradotte in francese, e Lo Cunto de li cunti, più conosciuto come Pentamerone, del Basile, pubblicato postumo fra il 1634 ed il ’36 (il dialetto napoletano del Cunto, fra l’altro, non doveva essere di facile accesso ad un lettore francese, per quanto nutrito di cultura italiana. Anche da noi, Basile è scrittore bisognoso di testo a fronte). Dentro il torrente impetuoso della moda, diventa difficile attribuire all’uno o all’altro scrittore il merito dell’iniziativa. In realtà, si tratta di un falso problema. Che Madame d’Aulnoy o Catherine Bernard abbiano pubblicato, prima del 1697, romanzi arricchiti da cospicui inserti fiabeschi, nulla veramente toglie all’autonomia creativa di Perrault. Semmai, anche per questa via, si rivela la straordinaria ricettività dello scrittore, sempre legato al suo tempo da molteplici fili, anche quando indossa i panni dell’educatore privato (nella sua stessa famiglia, anche una sua nipote, Mademoiselle Lhéritier, lo precederà nella stampa di fiabe in prosa). Più importante è rilevare un altro dato di storia della cultura che si accompagna a quello dell’esplosione della moda del racconto di fate: rinfittirsi di una speculazione pedagogica vasta e complessa, che fa da sottofondo teorico anche alla prefazione, già citata, che Perrault accluse ai suoi racconti in versi nell’edizione del 1695. Un autore a lui molto vicino come Fénelon, precettore dei rampolli della famiglia reale, con le Aventures de Télémaque (1699) fornirà il capolavoro di questa produzione letteraria tutta assorbita nello sforzo di educare narrando.

    E l’ultimo dei figli di Perrault, Pierre Perrault Darmancour, a firmare, nel 1697, la nostra raccolta di favole, stampata assieme a quella famosa vignetta con la scritta Racconti di Mamma Oca (Contes de ma mère l’Oye), destinata a grandissima fortuna, se ancora oggi si dà questo titolo proverbiale a innumerevoli ristampe. Parlando del capolavoro di Perrault, non è possibile sottrarsi ai problemi posti da questa esplicita attribuzione al figlio. I documenti ci fanno intravedere una storia triste, che sicuramente amareggiò gli ultimi anni della vita dello scrittore. Nato nel 1678, Pierre morì giovanissimo nel 1700. Tre anni prima (dunque, con tragica ironia, proprio nell’anno in cui le favole vedevano la luce sotto il suo nome), coinvolto in una rissa, aveva ucciso un suo coetaneo, trascinando il padre in una spiacevole vicenda processuale. Non credo che possano ancora oggi sussistere dubbi per quanto riguarda il problema strettamente attributivo. Le favole raccolte nel volumetto del 1697 sono l’opera di uno scrittore consumatissimo, che ha intuito di non poter più seguire – come aveva fatto fino a Pelle d’asino – La Fontaine sul suo teneno d’espressione, il verso, e si affida alle virtù comunicative della prosa. Una prosa calcolatissima pur nel suo aspetto esteriore di confidente abbandono al ritmo delle vicende. Un ritmo variato con enorme sapienza, generalmente velocissimo ma in grado di rallentare la sua corsa nei momenti di massima tensione, come quando la giovane sposa di Barbablù, condannata a morire, attende l’arrivo dei fratelli che la salveranno, e che giungono quando già la lama della punizione è levata sul suo collo. Ma è il tono ridente di certe allusioni al mondo «reale» a farci sicuri di essere di fronte all’opera di un autore che ha accumulato nella sua esperienza una vasta (e disincantata) pratica delle cose umane. Si veda, nel finale della fiaba di Pollicino, come il mondo magico venga d’improvviso abbandonato a se stesso a favore di un estro satirico sulla fedeltà delle mogli quando i mariti sono impegnati nell’esercito. A volte, bastano pochissime parole, di un’arguta malizia, a farci comprendere che queste fiabe non sono state narrate ad esclusivo beneficio dell’infanzia innocente: come quando lo scrittore trova modo di informarci che, durante la loro prima notte di nozze, il Principe e la Bella addormentata nel bosco «dormirono poco» (dopo cent’anni di sonno, d’altra parte, la principessa «non ne aveva un gran bisogno»!). Nel suo straordinario saggio Della fiaba Cristina Campo notava come «toccando la fiaba uno scrittore dia infallibilmente il meglio della sua lingua, divenga scrittore se anche non lo sia mai stato; quasi che a contatto con simboli insieme così totali e particolari, così eccelsi e toccabili, la parola non possa distillare che il suo sapore più puro». Il primo incantesimo di queste fiabe è proprio quello che ci mette di fronte i frutti di un travaglio linguistico finalmente giunto ad un perfetto grado di adeguamento fra l’espressione e i suoi contenuti fantastici. Da questo punto di vista, il destino creativo di Basile e quello di Perrault davvero ci possono apparire nella loro similarità profonda, accantonate le preoccupazioni erudite sulla diretta filiazione di questa o quella fiaba. Perché il napoletano di Basile e il francese di Perrault hanno trovato solo nel regno delle fate la loro dimora, quel luogo, al quale ogni scrittore aspira, dove il più scaltro artificio e la più disarmata naturalezza non sono che i due volti della stessa meraviglia. Qualcosa di simile accadrà nella prosa del Goethe maturo, con lo straordinario impasto di melodia e pensiero delle Affinità elettive, ad esempio. Al termine del suo viaggio nella pluralità degli stili, Perrault riceve in dono dai consunti schemi narrativi di Mamma Oca una prosa prensilissima e sempre vibrante, sia che indugi trasognata nella descrizione di un incantesimo, sia che dia forma ad uno spavento che pare togliere il fiato ai suoi stessi personaggi. Le severe leggi della fiaba, una volta sottoscritte, non consentono allo scrittore predilezioni di registri ed argomenti, perché tutto è importante, tutto ha la sua funzione nell’economia segreta della meraviglia, il ballo del principe che sposerà Cenerentola come i sassolini bianchi e le molliche di pane che Pollicino lascia cadere per fare a ritroso, verso casa, il cammino nel bosco. Autentici colpi di genio aprono nel tessuto di queste favole prospettive di poesia che invano si cercherebbero lungo tutta l’opera in versi di Perrault. Ogni lettore potrà farne esperienza diretta. Vorrei qui proporre all’attenzione due soli brani, tratti dalle storie della Bella addormentata e di Barbablù. Con la sua bacchetta, la fata addormenta tutto ciò che vive attorno alla Bella, che dopo essersi punta con il fuso fatale è piombata nel suo sonno secolare. In questa maniera, non si troverà sola al suo risveglio. Straordinaria è la maniera in cui questo Trionfo del Sonno si conclude: «anche gli spiedi che erano sul fuoco tutti pieni di fagiani e di pernici si addormentarono, ed anche il fuoco». Dove una semplice clausola (et le feu aussij, con il suo tono di scherzoso paradosso, riesce a rendere perfettamente, attraverso la suggestione fantastica di un fuoco addormentato, l’atmosfera d’incantesimo che per cent’anni, fino all’arrivo del Principe, avrebbe avvolto come un bozzolo il castello. Ed ecco come Perrault descrive la terrificante visione toccata in sorte all’incauta moglie di Barbablù, penetrata per sua disgrazia nella camera proibita: «dopo qualche attimo si accorse che il pavimento era tutto coperto di sangue coagulato, e che in questo sangue erano riflessi i corpi di molte donne morte appese lungo i muri». Ammirevole qui è la sapienza con la quale, in poche righe, si condensa fino al suo culmine il progredire della visione e dello spavento che le si accompagna.

    Accanto a queste evidenze testuali, un ’attenta disamina di tutte le testimonianze coeve e dei documenti relativi (si veda, per esempio, quella fornita da Gilbert Rouger nella sua bella edizione del 1967) non può che indurre alla certezza che ci troviamo di fronte ad un’opera di Charles Perrault. Certezza che può essere sfumata solo concedendo, come non costa nulla fare, che Charles abbia lavorato su di un canovaccio in prosa composto, per esercitazione, da suo figlio Pierre, che a sua volta seguiva la falsariga di un racconto uscito dalla bocca del padre o di un altro membro adulto della famiglia, come Mademoiselle Lhéritier. Bellissimo esempio, se le cose fossero veramente andate in tale modo, di un lavoro letterario nato dal perfetto accordo di oralità, scrittura, affetti domestici e geniali progetti educativi. Eppure, nulla può esimerci dall’interpretare il fatto incontrovertibile che sta sotto i nostri occhi: il volumetto di fiabe è apparso con la firma di Pierre Perrault Darmancour. Questo è un fatto che viene prima di ogni ipotesi storica, ed è più importante, dal rispetto culturale, di ogni rovello attributivo. Charles è un borghese che può firmare con orgoglio ogni suo scritto, serio o faceto che sia. Nella sua mentalità, è del tutto assente quello scrupolo che indusse, per esempio, Madame de La Fayette a pubblicare anonimi, o con la firma di amici, i suoi capolavori narrativi, nel timore di recar danno al suo rango di nobile mischiandosi alla turba degli scrittori per danaro. Se il libro di Mamma Oca è affidalo al giudizio del pubblico con la firma del figlio, si tratterà allora di ricercare il significato di questo fatto all’interno di una ben precisa strategia letteraria. Questa firma, in altre parole, fa parte del testo alla stessa stregua delle illustrazioni: lo delucida rendendone evidenti alcune qualità latenti. La massima ambizione del Perrault scrittore di favole in prosa è quella di creare un tipo di letteratura capace del massimo livello di oggettività ed universalità. Sfogliando le pagine del libro, il lettore dovrà riconoscere gli eventi come se affiorassero da un reparto segreto della sua memoria, fossero sempre stati lì, come la Bella addormentata, in attesa del miracolo che li riportasse al mondo. Come il Dio di sant’Agostino, le fiabe non si inventano, si ricordano. Sono sempre precedenti ogni loro cristallizzazione letteraria. Rappresentano, secondo la bella definizione di Italo Calvino, che se ne intendeva, «il catalogo dei destini che possono darsi a un uomo e a una donna»: catalogo già pensato da una saggezza che trascende ogni singolo apporto (si veda, a proposito di Cenerentola, la rapinosa cavalcata storica ed antropologica che Carlo Ginzburgha potuto compiere nel suo Storia notturna). Compito dello scrittore di fiabe, allora, sarà quello di sparire il più possibile dietro la trama incantata dei simboli e degli eventi, diventando il luogo di transito nel quale, semplicemente, ciò che sempre è stato raccontato venga custodito nel nitore dell’espressione. Perrault, lo abbiamo visto, dispiega in questa operazione tutte le sue risorse stilistiche, anche quelle che, probabilmente, non sapeva nemmeno di possedere. Ma è come se ciò che fa con una mano, nascondesse con l’altra. La scelta della prosa è il passo decisivo in questa via di ammirevole ascetismo. Non si tratta solo di un giustificatissimo complesso d’inferiorità nutrito nei confronti di La Fontaine. Ad un livello più profondo di riflessione, Perrault capisce bene che ogni tipo di versificazione, perlomeno in età moderna, reca con sé troppe informazioni sulla personalità, lo stile, le aspirazioni dello scrittore. Il come tende a prevalere sul cosa viene scritto. Insomma, Perrault deve procedere in senso contrario, conducendo proprio una battaglia contro quell’io che Pascal aveva, in un luogo celebre, definito «odioso» nella sua convinzione di essere il «centro del mondo» e del quale La Rochefoucauld aveva rivelato le egoistiche sozzure presenti anche dietro i suoi tratti di nobiltà. Allora, al momento di stampare il manoscritto e ancora prima, quando alcune delle favole circolavano in un prezioso manoscritto, Perrault capisce che firmare delle favole di Mamma Oca non ha nessun senso. Le favole sono di chi le ha ascoltate. Non conta in loro tanto il momento dell’ispirazione (così ipervalutato lungo tutta l’età barocca) quanto la creazione di un legame fra soggetti di pari dignità: colui che ascolta e colui che, avendo già una volta ascoltato, adesso racconta. In questa perfetta circolarità è la nozione stessa di Autore a farsi provvidenzialmente evanescente. Padre e figlio sono dimorati nel cerchio magico della favola, fatto di una voce e del silenzio dell’ascolto. Quel silenzio ha reso possibile la voce proprio nel momento in cui questa donava significato al primo. Non c’è più una gerarchia, ma un’autentica collaborazione, nel senso più proprio del termine. Tutto questo, a mio parere, è alluso nell’idea di firmare le favole con il nome di Pierre. Perché Pierre ha ascoltato, e solo questo ascolto potrà permettere che egli, a sua volta, racconti. In questo rompicapo filologico, c’era tutta una teoria della favola, che vale interi scaffali di trattati. Ma c’era anche la traccia luminosa di un legame tra padre e figlio fatto di conoscenza e affetti, un’idea del tempo umano come trasmissione di idee e fantasie da una generazione all’altra, indizi di una vicenda umana che non fu certo solo lieta (Pierre morirà, come s’è visto, tre anni dopo la stampa del libro), ma che ci rendono queste fiabe anche più care.

    Perrault domina la stagione francese delle fate in una posizione di assoluta preminenza artistica. Eppure, come il lettore di questo volume potrà facilmente constatare, si tratta di una produzione immensa, e ancora vivissima nel Settecento. La data fatale del 1789 vedrà concludersi la grande impresa editoriale, avviata quattro anni prima, del Cabinet des Fées ou collection choisie des contes des Fées et autres contes merveilleux: quarantuno volumi di favole che formano come un immenso arazzo di meraviglie ed incantesimi. Sarà da distinguere, questa produzione, in due grandi settori: quello dell’«Età d’oro», nell’ultimo decennio del Seicento, e quello degli epigoni che continuarono a raccontare fiabe nell’Età dei Lumi. Il Settecento darà alla tradizione favolistica francese degli autentici capolavori, come La Bella e la Bestia di Madame Leprince de Beaumont (1711-1780), dove le pur urgenti preoccupazioni pedagogiche sono tutte assorbite dentro l’incanto di una vicenda non priva di risvolti risolutamente «sentimentali» (un recente film animato dell’équipe che ancora porta il nome di Walt Disney ha ben reso questo impasto di fantasia e tenerezza). Madame Leprince de Beaumont, tipica figura d’educatrice settecentesca, rappresenta meglio di chiunque altro il mutato paesaggio culturale. All’immaginosa pedagogia di un Fénelon si sono sostituiti gli ambiziosi programmi che hanno la loro «summa» nell’Emilio di Rousseau. All’alba del secolo, nel 1704, inoltre, l’immaginazione degli scrittori era stata turbata ed arricchita dalla grande scoperta delle Mille e una notte, che la traduzione del Galland destinava ad una celebrità universale e ad innumerevoli tentativi di imitazione. Ma anche quella che ho chiamato «età d’oro» della favola non si presenta agli occhi dello storico della letteratura con caratteri artistici costanti. Sul polo della massima sobrietà ed intensità degli effetti si può collocare Perrault. Ma esiste anche una più libera e svagata possibilità di declinazione dei motivi fiabeschi di Mamma Oca. I volumi dei Racconti delle fate e delle Fate alla moda (1697-98) di Madame d’Aulnoy sono il frutto di una fantasia sfrenata dietro la quale riconosciamo agevolmente l’esempio narrativo dell’Ariosto o del Tasso più «fiabesco» (quello del giardino di Armida nel canto XVI della Gerusalemme liberata, già imitato dal Quinault nell’Armide). Nata nel 1650 e morta nel 1705, Marie-Catherine Le Jumel de Barneville, baronessa d’Aulnoy, ebbe una vita fosca ed avventurosa, e dovette scegliere la via dell’esilio per evitare le gravi conseguenze dei suoi intrighi. Difficile resistere alla tentazione di non accostare questi dati della sua biografia alle incessanti peripezie alle quali si sottopongono i suoi personaggi, in racconti che si dipanano sempre per molte pagine, con lo scioglimento che sembra giungere solo quando il limite della sopportazione del lettore sembra valicato.

    Si diceva di Ariosto e Tasso. Ma anche la tradizione narrativa medievale, con i suoi continui incanti e le sue interminabili digressioni, sembra fornire più d’un modello fantastico e compositivo, non solo per quanto riguarda gli espedienti del meraviglioso. Madame d’Aulnoy, molto più dello stringato Perrault, tiene a dorare ogni situazione fantastica di una lieve patina di cortesia che fa pensare ai Lais di Maria di Francia. Quando la fida damigella ritrova nel bosco la sua principessa, tramutata in cerva, le prende le zampe e gliele bacia «con lo stesso rispetto e la stessa tenerezza con cui le avrebbe baciato le mani». Tutte le storie d’amore, d’altra parte, sono imbevute in un clima di galanterìa da romanzo «prezioso». E Madame d’Aulnoy fu pure autrice di romanzi, come l’Histoire d’Hipolyte, prince de Douglas (1690), nei quali sono già inserite delle fiabe, in omaggio al gusto corrente. Non è raro il caso in cui si potrebbe rivolgere a Madame d’Aulnoy lo stesso appunto che Perrault rivolgeva alle favole degli Antichi: essere cioè composte in forza del puro diletto di narrare, senza alcuna preoccupazione per i costumi. A lei stessa capita di confidare, alla fine di una delle sue complesse vicende, che proprio non saprebbe qual è la morale di tutto ciò che ha raccontato. Il fatto è che questa affascinante scrittrice sembra affidarsi anima e corpo alle leggi labirintiche della fantasia così come i suoi eroi si affidano al caso, alla buona ventura, ai consigli delle fate benigne. Tutto le è possibile: anche far finire male una favola, tentando il registro di un accorato patetismo. L’importante è aver dato fondo, come in una festa di Versailles, al repertorio delle meraviglie, ottenendo di incatenare il lettore all’imprevedibile successione degli episodi della storia. Non so se Madame d’Aulnoy, negli ultimi mesi della sua vita turbolenta, abbia avuto l’occasione di scoprire le Mille e una notte. Di certo vi avrebbe trovato un mondo a lei, vera «Shahrazad francese», estremamente congeniale. Accanto a Perrault, in ogni caso, Madame d’Aulnoy ha indicato alla fantasia occidentale un ’altra via percorribile nel Regno delle fate. Ogni grande stagione letteraria contiene in sé più d’un modello da imitare, rimanendo in tal modo, oper un motivo o per il suo opposto, sempre viva nell’ammirazione dei posteri.

    EMANUELE TREVI

    Nota della traduttrice

    L’avvento di Luigi XIV vede sbocciare in Francia e poi espandersi in una meravigliosa fioritura un genere letterario del tutto nuovo, la Fiaba o Racconto di Fate. Come meravigliarsene, se si pensa a un giovane sovrano capace di abbattere, come per incanto, una foresta che non gli piace facendo sorgere al suo posto un lago dai mille zampilli o di far costruire, in un batter d’occhio, il piccolo Trianon di porcellana che sfortunatamente non c’è più?

    In quegli anni, il «fatismo» divenne una vera manìa: dame e cavalieri – ma soprattutto dame – gareggiavano a chi più sapientemente avrebbe sbrigliato la fantasia e anche più tardi, quando con la presenza di Madame de Maintenon e dei suoi costumi severi, il gran galoppo delle fiabe si fu calmato, anche allora e per molti anni si continuò in Francia a favoleggiare.

    Fu così che, fra il 1785 e il 1789, cento anni dopo la loro entrata nel mondo delle lettere, tutte quelle fiabe vennero pubblicate per la prima volta ad Amsterdam e a Ginevra e raccolte sotto il titolo di Cabinet des Fées ou Collection choisie des contes des Fées et autres contes merveilleux (Lo Scrigno delle Fate o Collezione scelta di racconti di Fate e altri racconti meravigliosi).

    E a questa «summa» della letteratura settecentesca che Italo Calvino mi propose di attingere per presentare ai lettori italiani una copiosa scelta di fiabe francesi con la premessa di escludere quelle di imitazione orientale. Accettai con piacere, anche perché non potevo immaginare in che pozzo senza fondo sarei andata a calarmi: bisognava leggere, valutare, scegliere e, purtroppo, scartare.

    Uno dei pochissimi esemplari della collezione settecentesca reperibili in Italia era una bella prima edizione già appartenuta ad Arturo Graf e da lui lasciata alla Biblioteca della Facoltà di Lettere di Torino. Fu da quell’università, alla quale va tutta la mia gratitudine, che all’inizio di un’estate romana, mi giunsero gli scatoloni polverosi dove per molto tempo avrei pescato ritrovando alcune vecchie conoscenze, ma anche moltissime nuove e maturando i criteri della mia selezione. Volevo che i testi prescelti rappresentassero non solo la storia di un «genere» con le sue varie sfumature e curiosità, ma anche una lettura poeticamente sostanziosa e al tempo stesso, adatta ad essere apprezzata dai giovani lettori. Dovetti perciò mettere da parte alcuni autori che presentavano un interesse molto particolare e, direi, tutto di attualità, per lasciare il posto ad altri, posteriori all’«epoca d’oro», cioè quella che va dal 1695 al 1703, ma che continuavano degnamente la tradizione, ravvivandola di annotazioni originali.

    A mano a mano che procedevo nella lettura, un mondo su cui avevo fantasticato da bambina si risvegliava come per incanto mostrandomi il suo aspetto più frivolo e non per questo meno allettante: Versailles spalancava le sue finestre, le sale si illuminavano, le statue, in fondo alle grotte, si animavano e scendevano dal loro piedistallo (come nell’ Mémoires di Saint-Simon mi appariva in controluce. Come non rìconoscere allora il grande interesse di gusto e di costume di queste fiabe tanto diverse dalle nostre, così aristocratiche e costruite con tutta l’evidenza e la licchezza dei loro simboli?

    Naturalmente, il compito di aprire la grande sfilata spettava di diritto a tutte quelle di Charles Perrault, iniziatore del genere e di gran lunga superiore ai suoi continuatori. Sebbene ne esistesse in italiano una bellissima traduzione di Collodi che, senza togliere al testo francese alcuno dei suoi pregi, aveva saputo presentarci un Petrault un po’ toscano, arricchito di un gustoso umorismo, pensai d’iniziare il mio lavoro cimentandomi in una nuova edizione di questi racconti il più possibile fedele ed affidando alla penna del poeta Diego Valeri le argute «morali» in versi che chiudono ognuno di essi. Era troppo importante mostrare come a Perrault piacesse, al termine di ogni sua fiaba, strizzarci l’occhio con malizia, come per raccomandarci di non prenderlo troppo sul serio.

    Un’ampia scelta meritava poi l’opera della più dotata tra le dame letterate di quel perìodo: Madame d’Aulnoy, la narratrice dall’inesaurìbile fantasia ove talvolta affiora, e nei momenti più drammatici (come nel «Prìncipe Cinghiale» o ne «La Principessa Rosetta») un’ironia sorrìdente e gentile. Né si potevano davvero trascurare l’affettuosa Madame de Murat e l’impulsiva Mademoiselle de la Force, piena di immagini tenere e galanti che sembrano rubate a qualche stampa dell’epoca, accompagnata dal Chevalier de Mailly con un suo racconto dal profumo mediterraneo: «La Regina dell’Isola dei Fiori». Fra gli esclusi, la fiaba Sans Parangon di Préchac che, gonfio di spirito adulatorio, ci intrattiene «in chiave» sulle minime vicende dell’infanzia e adolescenza di un principe «incomparabile»: per l’appunto Luigi XIV. Stessa sorte per quella Madame d’Auneuil, che con la sua «La Tirannia delle Fate sgominata», ubbidendo ai dettami della Maintenon, finge ipocritamente di fare atto di contrizione. Con questa dama lo spettacolo finisce davvero?

    Non fu così: l’impetuoso torrente ritornò nel suo letto e prese a scorrere più limpido e tranquillo, ma gli scrittori del ’700, anche dopo il Re Sole continuarono a inventare fiabe, frugando persino nelle leggende di paesi vicini e lontani. Le fiabe divennero più ragionate, più misurate, insensibilmente si allontanarono da Versailles, cessarono di essere fiabe di corte, tramutandosi in racconti borghesi, storie di virtù e di vizi privati ove spesso re e regine recitano una parte di secondo piano. Alcuni di questi autori sembra vogliano rifarsi ai classici della fiaba e nei loro racconti talvolta Perrault è più presente che non in molti dell’«epoca d’oro». Nel decantarsi, essi perdono non poco del loro profumo evocatore di un mondo prepotentemente assetato di vita, ma conservano ancora molti elementi del passato; la costruzione delle nuove fiabe diviene più leggera e proporzionata, la morale ne emerge più limpida, il condimento delle osservazioni ironiche e scherzose si fa più spregiudicato e spesso sono proprio i re e i loro cortigiani a fame le spese.

    La produzione di queste fiabe – in un certo senso «tardive» – incluse nel Cabinet des Fées è immensa. Un po’ sperduta in questo grande mare e volendo a ogni costo ritrovare una mia vecchia simpatia, la famosa favola de «La Bella e la Bestia», scoprii la pista che mi condusse a Madame Le-Prince-de-Beaumont, l’educatrice, e ai suoi numerosi racconti che ne riflettono la personalità: la morale delle sue fiabe è semplice e evidente; prima di raggiungerla, la brava signora non si sofferma troppo per via, ma il modo schietto che ha di presentarla è simpatico e coraggioso. Raramente fallisce il bersaglio (che non è mai più di uno, ad evitare distrazioni), perché si serve di brevi scenette, di piccole trovate (stiamo pensando a «Belloccia e Bruttina»), che il suo intuito femminile rende assai vive. Morta a Londra attorno al 1780, aveva evidentemente fiutato il temporale che si addensava sulla corte di Francia, e piena di buona volontà, si adoperava, per quel poco che poteva, a evitare i molti piccoli disastri che la cattiva educazione aveva prodotto nelle giovani coscienze. E raro, infatti, che le sue fiabe non prendano di mira le storture che un potere assoluto genera nell’animo dei grandi: ora sarà l’adulazione a rovinare i giovani sovrani («.Desiderio e Vezzosetta») gonfiandoli di presunzione («Il principe Amato»), ora sarà la frivolezza e la dissipazione delle corti a fare l’infelicità dei cuori («La Vedova e le sue due figlie»), quando, addirittura, il miraggio della gloria non indurrà i re a intraprendere guerre di conquista e a dissanguare il regno con spese insensate, dimenticando (come dice al principe Amato il buon precettore Sincero) che la vera gloria di un monarca sta nella giustizia e nella virtù. Questo è anche il senso degli ammonimenti della fata Candida e delle altre fate di Madame Le Prince, non più «padrone imperiose, implacabili nemiche», ma benefiche consigliere nelle quali ella ama specchiarsi.

    Spunti e intenti non troppo dissimili dai suoi sono quelli che ritroviamo in molte fiabe del conte di Caylus, ma qui essi emergono più dalle osservazioni marginali che non dallo svolgimento del racconto che, per ritmo e fantasia non ha nulla da invidiare ai migliori dell’«epoca d’oro». Tra una trovata e l’altra, il loro autore si affaccia divertito e si rivela uomo d’ingegno e di gran gusto; sia che metta in ridicolo la meticolosità delle donne influenti («Minuzia e Fioredoro»), o l’incostanza nel cuore degli uomini troppo seducenti («Rosellina»), egli non manca mai di lasciar trasparire una bonaria comprensione. Se si pensa al suo «Incantesimo sbagliato» e alle immagini che fanno di questo racconto un quadro piacevolissimo, non ci stupirà la notizia che il conte di Caylus era un grande amico di Watteau.

    Chiude la scelta un autore che ha il merito di lasciarci un gentile ritrattino, curato e sentito in ogni particolare psicologico e reso con la precisione di chi ama l’infanzia e ne sa comprendere le angosce. «Egle o Sgorbietto» è l’unica fiaba, purtroppo, che nel Cabinet des Fées porti il nome di Charles Antoine Coypel, anche lui, come il conte di Caylus, amatore d’arte, uomo di gusto e soprattutto pittore famoso. E la storia d’uno scrupolo, l’analisi delle passioni di un piccolo cuore troppo sensibile; gelosia, amore, senso della propria inferiorità. Anche qui, come la Formicuzza della fiaba del conte di Caylus, come nei racconti di Madame Le Prince, la Fata è soltanto un’educatrice, una gran dama severa, ma buona in fondo, che capisce tutto e che, dopo aver abbandonato il suo cocchio volante, prende per mano la piccola Sgorbietto e la conduce verso la ragione. Le Confessioni di J.J. Rousseau non hanno ancora visto la luce, ma Coypel, figlio del suo tempo, ha già scritto questa breve, eppur completa, confessione d’una bambina.

    ELENA GIOLITTI

    Nota biografica

    CHARLER PERRAULT, fratello del celebre architetto Claude Perrault, nacque a Parigi il 19 gennàio 1628 e morì il 15 maggio 1703. Letterato e uomo di governo, fu eletto a quarantadue anni all’Académie Française, in seno alla quale condusse la polemica contro il classicismo di Boileau, capeggiando i fautori dei «moderni» nella famosa «querelle des anciens et des modernes». Tra il 1691 e il 1694 pubblicò tre racconti in versi: Grìselidis, Les Souhaits ridicules e Peau d’Ane. Di quest’ultima apparve nel 1696 una versione in prosa sotto il nome di Mademoiselle Bernard, scrittrice amica di Perrault, e molti critici non esitano ad attribuirla a Perrault stesso, sebbene altri propendano per sua nipote, Mademoiselle Lhéritier. La prima edizione degli altri famosi otto racconti in prosa (Les Contes de ma mère l’Oye, Histoires ou Contes du temps passé, avec des Moralités) uscì nel 1697, sotto il nome di Perrault d’Armancourt, figlio di Charles, luogotenente nel Reggimento del Delfino, morto a ventidue anni nel 1700; ma l’attribuzione a Perrault padre è sicura.

    MARIE-CATHÈRINE D’AULNOY, nata Le Jumel de Barneville, imparentata con la migliore nobiltà di Normandia, nacque nel 1650 e morì nel 1707. A quindici anni fu sposata a François de la Mothe, conte d’Aulnoy, tre volte più vecchio di lei. Non amò mai il marito, pur dandogli sei figli, ed ebbe vita infelice, travagliata anche da tragici fatti giudiziari in cui furono implicati il marito e suoi conoscenti. Ciononostante lasciò memoria di sé per la sua bellezza e il suo spirito nella conversazione; il suo salotto fu centro della vita letteraria parigina, prima ch’ella si ritirasse nella solitudine d’un convento. Nella moda del conte de fées ha avuto una parte preponderante: ne scrisse venticinque, ma il Cabinet des Fées pubblicò sotto il suo nome anche fiabe d’altri autori. Le fiabe qui scelte sono tratte dalle raccolte Les contes des Fées e Les Fées à la mode.

    CHARLOTTE-ROSE DE LA FORCE, figlia di François de Caumont, marchese di Castel-Moron, nacque in Guyenne nel 1650 e morì a Parigi all’età di settantaquattro anni. Nel 1687 sposò Charles de Brion, ma dopo dieci giorni il suo matrimonio fu dichiarato nullo. La sua vita fu alquanto frivola. Mancandole i mezzi sufficienti per vivere a corte fu costretta a ritirarsi in convento. Dal suo esilio nacquero le sue fiabe raccolte sotto il titolo: Les Fées, Contes des Contes.

    HENRIETTE-JULIE DE MURAT, nata de Castelnau, nacque a Brest nel 1670 e morì a Parigi nel 1716. Sposò a sedici anni il conte de Murat, ma restò presto vedova. Nel 1694 cadde in disgrazia della Maintenon, e fu esiliata a Loches. Il duca d’Orléans la richiamò a corte nel 1715. Le due fiabe da noi tradotte sono state tratte dai Nouveaux Contes des Fées.

    LE CHEVALIER DE MAILLY era figlioccio di Luigi XIV e fu intimo di Luigi XV, cui dedicò il suo Elogio della Caccia. Ex militare, fu uomo galante, mondano, di vita spregiudicata. Morì nel 1724. Le sue fiabe, sotto il titolo di Les Illustres Fées, erano uscite a Parigi, anonime, nel 1698. Si stabilì poi ch’esse erano state scritte dalla stessa penna delle Avventure e lettere galanti e della Vita d’Adamo, in cui il racconto biblico viene trasformato in una storia d’amore.

    JEANNE-MARIE LE PRINCE DE BEAUMONT, nata a Rouen nel 1711 e morta a Londra verso il 1780, sorella del pittore e incisore Jean-Baptiste Le Prince, si consacrò interamente all’educazione dei fanciulli e non scrisse che per loro. I racconti che abbiamo scelti – tranne La Bella e la Bestia che deriva dalla tradizione popolare – sono tutti di sua invenzione, anche se vi si trova qualche reminiscenza di fiabe più antiche.

    ANNE-CLAUDE-PHILIPPE DE TUBIÈRES, COMTE DE CAYLUS, nacque a Parigi nel 1692 e morì nel 1765. Oltre che scrittore fu incisore, critico d’arte, antiquario, collezionista. Fu amico di Watteau.

    CHARLES-ANTOINE COYPEL nacque nel 1694, da un’illustre famiglia di pittori e fu celebre pittore egli stesso. A vent’anni fu ricevuto all’Accademia e, nel 1747, raggiunse la carica di primo pittore del re. Morì nel 1752. Coltivava le lettere in segreto e il suo racconto che presentiamo fu pubblicato solo vent’anni dopo la sua morte.

    Cappuccetto rosso.

    I RACCONTI DELLE FATE

    FIABE FRANCESI DELLA CORTE DEL RE SOLE

    La Bella addormentata nel bosco.

    Cappuccetto rosso.

    CHARLES PERRAULT

    I racconti di Mamma l’Oca

    Cappuccetto rosso

    C’era una volta in un villaggio una bambina, la più carina che mai si sia veduta; la sua mamma non vedeva che per gli occhi di lei, e la sua nonna non era da meno. La brava donna le aveva fatto fare un cappuccetto rosso: e le stava così bene che tutti ormai la chiamavano Cappuccetto Rosso.

    La sua mamma un giorno, avendo fatto delle focacce, quando furono cotte, le disse: «Perché non vai a vedere come sta la nonna? M’hanno detto che non si sentiva bene; portale una focaccia e questo vasetto di burro».

    Cappuccetto Rosso partì subito per andare dalla nonna, che abitava in un altro paesello. Attraversando un bosco, incontrò quel tipaccio del Lupo, al quale venne una gran voglia di mangiarsela; ma non osava farlo, perché lì nella foresta c’erano alcuni taglialegna. Le chiese dove andava; la povera bambina, non sapendo quant’è pericoloso fermarsi per dare retta a un lupo, gli rispose: «Vado a trovare la nonna, e a portarle una focaccia con un vasetto di burro che le manda la mia mamma».

    «Abita molto lontano?», chiese il Lupo.

    «Oh sì», rispose Cappuccetto Rosso, «sta laggiù, passato quel mulino che si vede da qui, laggiù in fondo, nella prima casetta del paese.»

    «Bene!», disse il Lupo, «vengo a trovarla anch’io; prenderò questa strada e tu quella; vedremo chi ci arriva prima!»

    Il Lupo si mise a correre a più non posso per quella strada, ch’era la più breve, e la bambina se ne andò pian pianino per la strada più lunga, divertendosi a cogliere nocciole, a correr dietro alle farfalle, e a fare mazzolini con tutti i fiori che trovava pervia.

    Il Lupo non tardò molto ad arrivare alla casa della nonna; eccolo che bussa: toc, toc!

    «Chi è?»

    «Sono la vostra nipotina, Cappuccetto Rosso», disse il Lupo imitandone la voce, «che viene a portarvi una focaccia e un vasetto di burro che vi manda la mia mamma.»

    La buona nonnina, ch’era a letto perché un poco indisposta, le gridò: «Tira il saliscendi e la porta si aprirà!».

    Il Lupo tirò il saliscendi e la porta si aprì. Lui si buttò sulla buona donna e la divorò in un boccone, giacché erano più di tre giorni che non aveva mangiato. Poi richiuse la porta e andò a ficcarsi nel letto della nonna, aspettando la venuta di Cappuccetto Rosso. Di lì a poco, eccola che bussa alla porta: toc, toc!

    «Chi è?»

    Cappuccetto Rosso, che sentì il vocione del Lupo, al principio ebbe paura; ma poi, pensando che la nonna fosse raffreddata, rispose: «Sono la vostra nipotina, Cappuccetto Rosso, che viene a portarvi una focaccia e un vasetto di burro che vi manda la mia mamma».

    Il Lupo le gridò, addolcendo un poco la voce: «Tira il saliscendi e la porta si aprirà!».

    Cappuccetto Rosso tirò il saliscendi e la porta si aprì. Il Lupo, nel vederla entrare, le disse, nascondendosi sotto le coperte: «Posa la focaccia e il vasetto di burro sulla madia, e vieni a letto con me».

    Cappuccetto Rosso si sveste e va a mettersi a letto, e lì fu tutta stupita nel vedere com’era fatta la sua nonna, quando era spogliata; allora le disse: «Nonnina mia, che lunghe braccia avete!».

    «È per abbracciarti meglio, bambina mia!»

    «Nonnina mia, che lunghe gambe avete!»

    «È per correre meglio, bambina mia!»

    «Nonnina mia, che orecchie grandi avete!»

    «È per sentirci meglio, bambina mia!»

    «Nonnina mia, che occhioni grandi avete!»

    «È per vederci meglio, bambina mia!»

    «Nonnina mia, che lunghi denti avete!»

    «È per mangiarti meglio!...»

    E nel dir così, il perfido Lupo si avventò sulla povera Cappuccetto Rosso e la mangiò.

    MORALE

    Qui si vede che i bimbi, ed ancor più le care

    Bimbe, così ben fatte, belline ed aggraziate,

    Han torto di ascoltare persone non fidate,

    Perché c’è sempre il Lupo che se le può mangiare.

    Dico il Lupo perché non tutti i lupi

    Son d’una specie, e ben ve n’è di astuti

    Che, in silenzio, e dolciastri, e compiacenti,

    Inseguon le imprudenti

    Fin nelle case. Ahimè, son proprio questi

    I lupi più insidiosi e più funesti!

    Barbablù

    C’era una volta un uomo che aveva case bellissime in città e in campagna, vasellame d’oro e d’argento, suppellettili ricamate e berline tutte d’oro; ma, per sua disgrazia, quest’uomo aveva la barba blu e ciò lo rendeva così brutto e spaventoso che non c’era ragazza o maritata la quale, vedendolo, non fuggisse per la paura.

    Una sua vicina, dama molto distinta, aveva due figliole belle come il sole. Egli ne chiese una in matrimonio, lasciando alla madre la scelta di quella che avesse voluto dargli. Ma nessuna delle due ne voleva sapere, e se lo rimandavano l’una all’altra, non potendo risolversi a sposare un uomo il quale avesse la barba blu. Un’altra cosa poi a loro non andava proprio a genio: era ch’egli aveva già sposato parecchie donne, e nessuno sapeva che fine avessero fatto.

    Barbablù, per far meglio conoscenza, le condusse, insieme alla madre, a tre o quattro delle loro migliori amiche, e ad alcuni giovanotti del vicinato, in una delle sue ville in campagna, ove rimasero per otto giorni interi. Non si fecero che passeggiate, partite di caccia e di pesca, balli, festini e merende: non si dormiva neppure più, perché si passava tutta la notte a farsi degli scherzi l’uno con l’altro; insomma, tutto andò così bene che la minore delle due sorelle cominciò a trovare che il padron di casa non aveva più la barba tanto blu, ed era in fondo una gran brava persona. Non appena furono tornati in città, il matrimonio fu concluso.

    In capo a un mese, Barbablù disse a sua moglie ch’egli era costretto ad intraprendere un viaggio, di almeno sei settimane, per un affare assai importante; la pregava di stare allegra durante la sua assenza: invitasse pure le sue amiche più care, le portasse in campagna, se voleva; insomma, pensasse sempre a passarsela bene.

    «Ecco qui», le disse, «le chiavi delle due grandi guardarobe; ecco quelle del vasellame d’oro e d’argento che non si adopera tutti i giorni; ecco quelle delle mie casseforti dove tengo tutto il mio denaro, quelle delle cassette dove sono i gioielli, ed ecco infine la chiave comune che serve ad aprire ogni appartamento. Quanto a questa chiavetta qui, è quella che apre lo stanzino in fondo al grande corridoio a pianterreno; aprite pure tutto, andate pure dappertutto, ma quanto allo stanzino, vi proibisco di mettervi piede, e ve lo proibisco in modo tale che, non sia mai vi entraste, dalla mia collera vi potete aspettare ogni cosa!»

    Lei promette d’ubbidire scrupolosamente agli ordini avuti e lui, dopo averla abbracciata, sale in carrozza e parte per il suo viaggio.

    Le vicine e le amiche del cuore non aspettarono che le si mandasse a chiamare per venire a trovare la sposina, tant’erano impazienti di vedere tutte le ricchezze della casa di lei, e non avendo osato di venirvi quando c’era il marito, sempre per via di quella barba blu che tanto le spaventava. Eccole subito a correre per tutte le sale, una più bella e ricca dell’altra. Salirono poi alle guardarobe dove non avevano occhi abbastanza per ammirare la quantità e la bellezza degli arazzi, dei letti, dei divani, degli stipi, dei tavolinetti, delle tavole grandi e degli specchi, dove ci si poteva specchiare dalla punta dei piedi fino ai capelli e le cui cornici, alcune di cristallo, altre d’argento o d’argento dorato, erano le più ricche e splendide che mai si fossero vedute. Non la finivano più di portare alle stelle e invidiare la fortuna della loro amica, ma questa non provava alcun piacere nel vedere tutte quelle ricchezze, perché non vedeva l’ora d’andare ad aprire lo stanzino a pianterreno.

    La curiosità la spinse a un punto che, senza considerare quanto fosse sconveniente di lasciare lì, su due piedi, le amiche, ella vi andò, scendendo per una scaletta segreta e con una precipitazione tale che, due o tre volte, fu lì lì per rompersi l’osso del collo. Giunta dinanzi alla porta dello stanzino, esitò un momento prima d’entrarci, pensando alla proibizione del marito e considerando che la propria disubbidienza avrebbe potuto attirarle qualche guaio; ma la tentazione era così forte che non potè vincerla; prese la chiavetta e aperse con mano tremante la porta dello stanzino.

    Dapprincipio ella non vide nulla, perché le finestre erano chiuse; ma a poco a poco cominciò ad accorgersi che il pavimento era tutto coperto di sangue rappreso, nel quale si rispecchiavano i corpi di parecchie donne morte e appese lungo le pareti. (Erano tutte le donne che Barbablù aveva sposato e che aveva sgozzato una dopo l’altra). Per poco non morì dalla paura, e la chiave dello stanzino, che ella aveva ritirato dalla serratura, le cadde di mano. Dopo essersi un tantino riavuta, raccolse la chiave, richiuse la porta e salì nella sua camera per riflettere un poco, ma non le riusciva tant’era la sua agitazione.

    Essendosi accorta che la chiave dello stanzino era macchiata di sangue, la ripulì due o tre volte, ma il sangue non se ne andava via; allora la lavò e perfino la strofinò con la rena e col gesso: il sangue era sempre lì, perché la chiave era fatata, e non c’era mezzo di pulirla perbene: se si levava il sangue da una parte, rispuntava dall’altra.

    La sera stessa Barbablù tornò dal suo viaggio; disse che per strada aveva ricevuto una lettera, dove gli si diceva che l’affare per il quale era partito, era stato già concluso in modo vantaggioso per lui. La moglie fece tutto il possibile per dimostrargli ch’ella era felice del suo pronto ritorno.

    Il dì seguente egli le chiese le chiavi, lei le consegnò, ma con una mano così tremante che lui indovinò senza fatica tutto l’accaduto.

    «Come mai», le chiese, «la chiavetta dello stanzino non si trova qui, insieme alle altre?»

    «Forse», lei rispose, «l’ho lasciata in camera, sul mio tavolino.»

    «Non tardate a restituirmela», disse Barbablù.

    Dopo qualche inutile indugio, non si potè far a meno di portare la chiave. Barbablù, dopo averla ben guardata, disse alla moglie:

    «Come mai c’è del sangue su questa chiave?».

    «Non ne so nulla», rispose la poverina, più pallida della morte.

    «Non ne sapete nulla?», replicò Barbablù, «ma io lo so benissimo! Siete voluta entrare nello stanzino! Ebbene, signora, adesso vi tornerete e prenderete posto accanto a quelle dame che avete visto lì dentro.»

    Ella si gettò ai piedi del marito piangendo e chiedendogli perdono, con tutti i segni d’un sincero pentimento per la sua disubbidienza. Bella e addolorata com’era, avrebbe intenerito un macigno; ma Barbablù aveva il cuore più duro d’un macigno.

    «Bisogna morire, signora», le disse, «e senza indugi.»

    «Dato che devo morire», ella rispose guardandolo con gli occhi pieni di lagrime, «datemi almeno un po’ di tempo per raccomandarmi a Dio.»

    «Vi accordo un mezzo quarto d’ora», rispose Barbablù, «ma non un minuto di più.»

    Rimasta sola, ella chiamò sua sorella e le disse: «Anna», era questo il suo nome, «Anna, sorella mia, sali, ti prego, sali in cima alla torre per vedere se i nostri fratelli, per caso, non stiano arrivando; mi avevano promesso di venire a trovarmi quest’oggi, e se li vedi, fa’ loro segno di affrettarsi».

    La sorella Anna salì in cima alla torre e la povera infelice le gridava di quando in quando: «Anna, sorella mia, vedi arrivare nessuno?».

    E la sorella Anna le rispondeva: «Vedo soltanto il sole che dardeggia e l’erba che verdeggia».

    Intanto Barbablù, brandendo un coltellaccio, gridava a sua moglie, con quanto fiato aveva in corpo: «Scendi giù subito, o salgo su io!».

    «Ancora un momentino, per piacere», gli rispose la moglie; e, subito dopo, riprese con voce soffocata: «Anna, sorella mia, vedi arrivare nessuno?».

    E la sorella Anna rispondeva: «Vedo soltanto il sole che dardeggia e l’erba che verdeggia».

    «Scendi giù subito», gridava Barbablù, «o salgo su io!»

    «Adesso vengo», rispondeva la moglie; e poi gridava: «Anna, sorella mia, vedi arrivare nessuno?».

    «Vedo...», rispondeva la sorella Anna, «vedo un gran polverone che viene da questa parte.»

    «Sono i nostri fratelli?»

    «Ahimè no! sorella mia! È soltanto un branco di pecore!»

    «Insomma, vuoi scendere o no?», sbraitava Barbablù.

    «Ancora un momento!», rispondeva la moglie; e poi gridava: «Anna, sorella mia, vedi arrivare nessuno?».

    «Vedo...», rispose la sorella, «vedo due cavalieri che vengono da questa parte, ma sono ancora molto lontani... Dio sia lodato!», esclamò un attimo dopo, «sono proprio i nostri fratelli! Faccio loro tutti i segni che posso, perché si sbrighino a venire.»

    Barbablù si mise a gridare così forte da far tremare la casa. La povera donna scese giù da lui e, tutta piangente e scarmigliata, andò a gettarsi ai suoi piedi.

    «Inutile far tante storie!», disse Barbablù, «dovete morire!»

    Poi, afferrandola con una mano per i capelli, e con l’altra brandendo in aria il coltellaccio, si accinse a tagliarle la testa. La povera donna, volgendosi verso di lui e guardandolo con lo sguardo annebbiato, lo pregò di concederle un ultimo istante per potersi raccogliere.

    «No», lui disse, «e raccomandati a Dio!» Poi, alzando il braccio...

    A questo punto, bussarono così forte alla porta di casa che Barbablù si fermò interdetto. Fu aperto, e subito si videro entrare due cavalieri che, sguainando la spada, si gettarono su Barbablù.

    Lui riconobbe ch’erano i fratelli di sua moglie, uno dragone, l’altro moschettiere, e allora si diede a fuggire per mettersi in salvo; ma i due fratelli gli corsero dietro così lesti che lo acciuffarono prima ancora che avesse potuto raggiungere la scala. Lo passarono da parte a parte con le loro spade e lo lasciarono morto. La povera donna era anche lei quasi morta come il marito e non aveva la forza di alzarsi per abbracciare i suoi fratelli.

    Barbablù.

    Il Gatto con gli stivali.

    Si scoperse che Barbablù non aveva eredi; così la moglie diventò padrona d’ogni suo avere. Ne adoperò una parte a maritare la sorella Anna con un giovane cavaliere che l’amava da molto tempo; un’altra parte a comperare il grado di capitano ai fratelli; e il rimanente, a maritarsi con un galantuomo che le fece dimenticare i brutti giorni che aveva passati con Barbablù.

    MORALE

    Quella curiosità che tanto spesso

    Costa dolori e gravi pentimenti

    È un futile piacere (non spiaccia al gentil sesso)

    Che, una volta raggiunto, finisce immantinenti.

    ALTRA MORALE

    Chiunque sia del mondo un po’ informato

    Subito vede che il racconto nostro

    Non è che storia del tempo passato.

    Oggi, dove trovarlo un tale mostro

    Di marito che vuole l’impossibile?

    Per malcontento e geloso che sia,

    Oggi il marito si mostra impassibile

    Al fianco della moglie, e tira via.

    E di qualunque tinta sia tinto il suo barbone,

    È difficile dire chi dei due sia padrone.

    Il Gatto con gli stivali

    Un mugnaio lasciò per eredità ai suoi tre figli solo il mulino, un asino e un gatto. Le parti furono presto fatte: non vi fu bisogno né d’avvocati né di notai. Costoro si sarebbero mangiati in un boccone il povero patrimonio. Il figlio maggiore ebbe il mulino, il secondo l’asino, e il più giovane non ebbe che il gatto.

    Quest’ultimo non sapeva darsi pace per avere avuto una parte così misera:

    «I miei fratelli», diceva, «si potranno guadagnare onestamente la vita mettendosi in società; ma quanto a me, quando mi sarò mangiato il gatto e con la sua pelle mi sarò fatto un manicotto, dovrò rassegnarmi a morir di fame!».

    Il Gatto, che aveva sentito questo discorso, ma aveva fatto finta di non accorgersene, gli disse con aria seria e posata:

    «Non state ad affliggervi, caro padrone; non dovete far altro che trovarmi un sacco e farmi fare un paio di stivali per camminare in mezzo ai boschi, e vedrete come la sorte non sia stata tanto cattiva con voi quanto credete».

    Il padrone del Gatto non faceva un grande affidamento sulle sue parole, ma gli aveva visto fare tanti di quei giochi di destrezza nel prendere topi o sorcetti (come quando il Gatto si lasciava pendere per i piedi, o si nascondeva nella farina facendo il morto) che non disperò completamente di trovare in lui un po’ d’aiuto nella sua miseria.

    Il Gatto con gli stivali.

    Quando il Gatto ebbe ottenuto quel che

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