Sotto il segno del cancro
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Anteprima del libro
Sotto il segno del cancro - Valentina Ferrero
padre
1
Quando ti muore il padre sei diversa. Non è una questione di specialità: sei diversa dagli altri. Per quanto la gente possa dirti: Ti capisco
, non saprà mai abbastanza per poterti comprendere. A meno chè non abbia affrontato lo stesso percorso e vissuto le stesse emozioni, affrontandole così, proprio come le hai affrontate tu.
Piacere, mi chiamo Amanda Ferro e mio padre è morto un anno fa, ucciso dal cancro. Un male che soltanto chi ha vissuto sulla propria pelle può comprendere. Un male che ti dissangua lentamente, ti prosciuga le interiora e ti ributta nel mondo così, secca, priva di linfa vitale. E ti va bene se hai ancora la testa a posto e ragioni bene, come qualsiasi altro uomo sulla terra.
Il cancro ti ferma, ti dice: "Hey, cosa pensi di fare? Non puoi mica vivere la vita come fanno tutti! Adesso ci sono io qui! Devi rendere conto a me!".
Il cancro è un dittatore: lui sceglie e tu devi obbedire. Il cancro ha preso mio padre e anche noi, me e mia madre, ci ha messo in gabbia, ci ha detto cosa dovevamo fare per sei lunghi ed agognati mesi e poi ci ha liberato così, come fa un cacciatore con la sua preda, quando ha già abbastanza di cui cibarsi.
E tu sei lì, libera, ma con il costante terrore che possa tornare a riprenderti e con lui, il maledetto e lacerante senso di colpa.
Da quando è arrivato il cancro ho capito di non essere sola, dentro di me; ho capito che c'era un'altra Amanda giù, nelle viscere della mia psiche. Un Amanda che controllava le mie azioni, mi puniva quando cercavo di vivere come gli altri e mi atterrava sommergendomi di sensi di colpa.
Questa è la storia di come ho cercato di sconfiggerla, di schiarire la flagellante ombra del cancro, quella che segue tutti coloro che l'hanno visto, almeno per una volta.
........
L'odore del cimitero mi era rimasto addosso per tutto il pomeriggio, malgrado mi fossi cambiata i vestiti. Era una domenica ed il sole di un aprile che aveva faticato a sbocciare, mi riscaldava la pelle come mai prima di quel giorno.
Vedevo mio padre tranquillo e beato fra le nuvole, intento a gustarsti il solito piatto della domenica, rideva di gusto e, sicuramente, stava meglio di quanto potessimo stare noi, qui, a fare i conti con le emozioni.
I parenti più prossimi si erano riuniti in un pranzo che, sinceramente, consideravo di cattivo gusto; un pranzo che, per tradizione, voleva omaggiare il defunto, anche se, a dirla tutta, di questa tradizione non avevo mai sentito parlare. Forse doveva essere una trovata della zia acquisita, quella del Meridione, dove le usanze sono ancora ben radicate.
Per quanto mi riguarda, passai tutto il pomeriggio sola, a guardare il cielo, distesa fra l'erba fresca, quella che tenera spunta a primavera quando tutto riemerge dal freddo, dalle tenebre.
Mio padre era morto quando la vita rinasce. E questo doveva convincermi che il suo volere fosse esattamente questo: che rinascessimo, tutti, nuovi di zecca, con idee nuove e pensieri inediti.
Che non fosse facile era ovvio, ma non volevo che il cancro atterrasse anche me: mi sentivo piena di vita, a dispetto della morte.
La morte non è nient'altro che energia. L'avevo sentita quel giorno, in ospedale, quando mio padre mi aveva guardata per l'ultima volta. E non potevo affermare che fosse negativa: il volto di mio padre era disteso, privo di rughe, come quello di un bambino. La stanza era vuota, ma l'aria era talmente carica che mi pareva di essere sommersa da migliaia di palloncini: mi schiacciavano, mi comprimevano la pelle, erano bianchi, chiari come un'aurea.
Credo che quella sia la morte: una forte carica energetica che arriva e ti ruba l'aria. Ma non è oscura, anzi, credo di non aver mai percepito un'emozione così pulita e pura.
Distesa fra l'erba del praticello, guardavo il soffitto dell'universo; in lontananza si sentivano le chiacchiere dei parenti, le risate soffocate per paura di mancarci di rispetto, le urla dei bambini che di morte ancora non sapevano nulla. Ed io, appoggiata al ciliegio che mio padre aveva sempre accudito come un figlio, mi sentivo felice. Avrei voluto che ridessimo tutti ricordando la sua perfezione, che non ci fossero lacrime, anche se le prime a cadere erano le mie.
Quando ritornai in cortile, la maggiorparte dei parenti se n'era già andata e dovetti sorbirmi la ramanzina di mia madre, relativa alla mia scarsa disponibilità e pazienza nel sopportare anche le cose che non mi andavano a genio. La guardai annuendo e cercando la sua comprensione. Il suo viso era apparentemente tranquillo, come quello di tutti coloro che erano rimasti, del resto. Era come se fossimo sospesi in uno spazio parallelo, in un lasso di tempo dove non c'è realizzazione, dove la coscienza, forse, non è ancora in grado di comprendere.
Come quando fai un incidente: l'intervallo di tempo che intercorre tra la tua guida tranquilla ed il momento in cui sei completamente fuori strada con le gambe penzoloni è troppo breve perchè tu possa rendertene conto. E così, fra un mucchio di vetri rotti ed il fumo di un motore che borbotta, ancora pensi che non è successo nulla, che la tua macchina la puoi ancora riportare sulla strada.
Ma non è così, tu sei ferita, l'automobile è capovolta e, malgrado i tentativi, rimane ferma, inchiodata al suolo.
Quando ti muore un padre è più o meno così: quello che vedi intorno a te è sempre il medesimo. La stessa casa dalle tende arancioni, lo stesso praticello curato, la stessa aula calda ed affollata di studenti, le stesse amicizie, gli stessi uomini. È la tua vita; è uguale a quella di prima, no?
Solitamente la domenica sera uscivo con Alessandra, giusto per trascinare l'ebrezza del week end ancora per una notte. Andavamo in centro e ci bevevamo qualcosa in uno di quei tanti locali che popolavano Piazza Vittorio. Passeggiavamo sotto i portici, chiacchierando del più e del meno, cercando di ricostruire il sabato sera, i quali ricordi erano sempre un po' troppo annebbiati. Era rilassante.
Se mi andava di lusso, riuscivo anche ad incontrare qualche uomo, scambiarci qualche frase più o meno intelligente ed uscirci qualche volta, nei giorni a seguire. Mai nulla di più. Avevo imparato a stare alla larga dagli impegni, soprattutto dopo la mia ultima storia, finita con vasi rotti e lacrime a gogò.
Quella domenica sera avevo così tanta voglia di scolarmi un drink. Volevo che mi scorresse nelle vene, che mi scaldasse la pelle che era così fredda, così secca, talmente secca che avrei potuto rovesciarci invano un intero barattolo di crema di aloe, quella che gelatinosa ti fa venire la pelle dei bambini.
Guardai il display del telefono, vuoto, a causa della fervida discrezione di Alessandra. Guardai mia madre col suo volto dolce ed il corpo accogliente. Rimasi sospesa senza equilibrio per qualche secondo, cercando di valutare. Volevo il calore della gente, quello che ti circonda gratuitamente quando passeggi per le vie del centro, quello che non ti chiede nulla in cambio, ti tocca e basta. Quel calore che si confonde con l'ebrezza dell'alcol e ti fà ridere, senza motivo. Avevo così tanta voglia di ridere.
Riguardai mia madre, seduta sui gradini con gli zoccoli da lavoro, quelli che usava per andare nell'orto ad accudire i suoi pomodori, quelli di cui mio padre rideva sempre.
Se fossi andata in centro mi sarei sentita uno spunto, come uno scracio uscito dalla bocca di un avido masticatore di tabacco: mi sarei sentita proprio così, viscida, spiaccicata sull'asfalto come una gomma da masticare, calpestata dai sensi di colpa.
Era il giorno in cui mio padre era stato sepolto, barricato dentro una cassa di legno, a sua volta intrappolata in un cazzo di loculo. Era il giorno in cui dovevo aspettare e scegliere il calore di mia madre.
Quando i parenti se ne furono andati, mia madre ed io, ci mettemmo a zappare un po' nell'orto, a togliere le erbacce e ad annaffiare gli ortaggi. Parlammo del più e del meno, di qualche piccolo particolare del funerale, dei cugini che non vedevamo da anni e della piazza gremita di gente. In ventitré anni di vita non l'avevo mai vista così affollata.
Mio padre era un grande e non lo dico solo perchè dopo che la gente muore è sempre stata bella, gentile e rispettosa. No. Che mio padre fosse un grande lo sapevo da quando avevo cominciato a ragionare e muovermi con le mie gambe, anche se avevo faticato ad ammetterlo.
Grazie alla sua tenacia aveva sfiorato le vette del tennis, quelle dove risiedono i giocatori più bravi del mondo. Aveva lavorato sodo, dando vita ad un'impresa metalmeccanica dal nulla.
Ma non era soltanto questo: la gente lo amava. Non lo so perchè, ma lo amava davvero.
Mi chiesi con che forza mia madre stava zappando l'orto come tutte le sante sere, con che fermezza reggeva l'utensile, affondando nella terra colpi decisi, ma delicati, capaci di sradicare anche la gramigna più aggressiva.
Guardando la terra brulla sotto i piedi, mi accorsi che stavo piangendo. Vedevo le mie lacrime cadere veloci, allungandosi per l'attrito con l'aria e spalmarsi sul suolo. Erano così silenziose ed inconsce che sembravano prodotte da altri occhi, da altri pensieri.
Ed invece erano le mie, di me che guardavo mia madre china sui pomodori, indaffarata a fissare il loro fusto sulla canna portante e mi chiedevo come cazzo avremmo fatto a dare ancora un senso alla nostra vita., come avrebbe fatto lei, e come avrei fatto io a non deluderla.
Le andai vicino e cercai di scostarla, dicendole che potevo fare io, che volevo che stesse tranquilla e si riposasse.
- Ma smettila – disse sorridendo – Non ti sei mai preoccupata dei miei pomodori -
- E quindi? - dissi singhiozzando – Quale momento migliore per iniziare? -
Afferrai l'elastico e, sotto lo sguardo scrutatore di mia madre, cercai di fissare i verdognoli e puzzolenti fusticelli alla canna. Che razza di lavoro! Quei ramoscelli erano talmente viscidi che mi scappavano dalle dita come le acciughe, quando, ancora vive, si divincolano tra le mani alla ricerca dell'acqua e non le tieni più.
In poco più di qualche secondo i pomodori ed io eravamo entrati in guerra, una lotta furibonda all'ultimo sangue. Ero assetata, volevo sodomizzarli, farli stare attaccati alla canna portante senza che avessero la benché minima possibilità di liberarsi.
- Amanda! Così me li rovini! - disse mia madre – Amanda per favore, basta! -
- Ce l'ho quasi fatta -
- Amanda! -
Mia madre mi prese per le spalle, facendo roteare il mio corpo di fronte al suo. Eravamo inginocchiate sulla terra, con le ginocchia sporche ed il volto sudato.
- Ma io... - dissi, facendo cadere le braccia al suolo.
- Stai tranquilla Amanda. Sono solo pomodori. Andrà tutto bene. -
La guardai. I suoi occhi blu luccicavano come zaffiri, sommersi da una mare di lacrime che sarebbero sbordate da lì a pochi attimi. Lasciai cadere gli elastici dalle mani e l'abbracciai, consapevole di non poter restare a lungo ancorata alle sue braccia.
Rimanemmo accoccolate per qualche minuto a sentire i singhiozzii l'una dell'altra, a sfiorarci la schiena e ad inzozzarci di terra.
Sentire il suo corpo che tremava era, per me, la peggiore pena che