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C'ero una volta... e altri racconti
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C'ero una volta... e altri racconti
E-book134 pagine2 ore

C'ero una volta... e altri racconti

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Info su questo ebook

"C'ero una volta..." è la storia vera di un uomo sulla quarantina, Paolo, vittima di un grave incidente stradale che lo costringe a passare la maggior parte del suo tempo

seduto su una poltrona, luogo dal quale avrà inizio il suo racconto. Avvalendosi di numerosi flashback, la narrazione procede su due piani differenti: quello del presente e quello di un passato dal quale riaffiorano i più svariati ricordi, di un'infanzia rubata, di un'adolescenza travagliata e di una sofferta maturità. In tutti e tre i casi il protagonista si ritrova a fare i conti con vecchi strascichi

lasciati dalle dinamiche di potere in cui rimane continuamente invischiato e che sembrano non volerlo abbandonare neanche in età adulta; le stesse dinamiche che pregiudicheranno tutti i suoi rapporti con l'altro: la relazione con la famiglia e quella con Laura, sua compagna. Una lotta contro se stesso, diviso tra il desiderio di raccontarsi e la necessità di nascondere i fantasmi del passato.
LinguaItaliano
Data di uscita30 apr 2014
ISBN9788898017935
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    Anteprima del libro

    C'ero una volta... e altri racconti - Beatrice Benet

    coraggio.

    PREFAZIONE

    Violenza e paura, angoscia e ribellione, desiderio di dissoluzione e voglia di risorgere. Il primordiale, ma anche attuale, destino incrociato dell’umanità: da un lato il male apparentemente ineludibile; dall’altra il bene che è sempre risposta e mai fuga.

    C’ero una volta, nell’intreccio cupo e drammaticamente coinvolgente del suo incedere, sembra volerci riproporre proprio questi assillanti interrogativi: ma è inevitabile la sofferenza? non si può immaginare che cessino di esistere quelli che hanno il piacere di infliggerla? perché c’è sempre chi - per un caso che si direbbe cosmico - deve trovarsi nel ruolo di agnello sacrificale (qui, meglio, di vittima degli istinti più truci e bestiali)?

    Il romanzo rifugge da tentazioni pedagogiche, le sue risposte le sceglie sul piano concreto. E, facendo proprio uno degli insegnamenti pirandelliani ( quando vedi due occhi pieni di rabbia, cadono tutti i sistemi filosofici), evita di fornire alibi giustificatori che, per una sorta di cedimento istintivo al relativismo più spinto, finiscono per rendere accettabile tutto quello che succede intorno.

    Se capita agli altri poi...

    Il racconto degli eventi è crudo. Non perché manchi una morale.

    Piuttosto per far capire, quand’anche ce ne fosse bisogno, che al sopruso non si risponde né con la passività né con la vendetta, ma con la reazione e - soprattutto - con la denuncia. Meglio se coraggiosa. E, per quanto le circostanze lo consentano, immediata.

    Pablo-Paolo è l’illuminante esempio che scegliere si può e si deve. Che il non farlo può solo peggiorare, più della percezione di sé e degli altri, la propria condizione di vita.

    Maurizio Righetti (Giornalista)

    C’ERO UNA VOLTA...

    Rimanere così a lungo inattivi fa pensare, vengono in mente scorci di vita che salgono dalle profondità della mente senza che uno li possa fermare. Sono quasi due mesi che passo dal letto a questa poltrona che mi permette di guardare fuori, nel giardino della mia infanzia. I due cipressi che fanno la guardia al cancello sono gli stessi che mi osservavano giocare in cortile, che sentivo muovere durante le notti di vento soffiando inquieti mentre si piegavano verso la finestra a disegnare ombre minacciose sul muro della mia stanzetta. Rimanevo in ascolto, raggomitolato sotto la trapunta fatta dalla nonna quando ancora ero in fasce e cercavo di capire se c’era una minaccia in quel sospiro o se era solo l’alito degli alberi che cercavano di dirmi qualcosa. Avrei voluto chiamare mia madre ma la voce non usciva, la mia paura di bambino rimaneva lì, dietro le labbra serrate, poi la stanchezza vinceva ogni resistenza ed ogni rumore svaniva mentre il mio sonno si popolava di immagini che mi accompagnavano fino al mattino quando la luce del giorno faceva dimenticare le paure notturne.

    Dopo l’incidente, l’ospedale e l’operazione, sono dovuto tornare qui, non potevo riandare nel mio appartamento, sia per le scale che non me ne consentono l’accesso, sia perché per tanto, troppo tempo, non potrò muovermi, i piccoli spostamenti che mi obbligo a compiere, come andare in bagno per evitare l’umiliazione della padella, sono fatti contro il parere dei medici visto il tipo di frattura che hanno dovuto sistemare, ma per me sono fondamentali.

    La gran parte della giornata la trascorro da solo, mia madre è impegnata in campagna, mia sorella al lavoro ed i bambini a scuola.

    Adesso c’è il pullmino che li viene a prendere, quando ero piccolo io si andava a piedi, non c’era mai nessuno disposto ad accompagnarci, tutti già fuori da casa alle prime luci dell’alba. La nonna ci preparava una tazza di latte fumante ed il pane bruschettato e poi via, poteva pure nevicare o cadere acqua a dirotto, non c’erano scuse, solo la febbre, alta, ci avrebbe consentito di rimanere a casa. I miei ci tenevano al pezzo di carta che, dicevano, ci avrebbe permesso di avere una vita diversa dalla loro che l’avevano passata a faticare su quella terra. Io non vedevo l’ora invece di tornare a casa o che arrivassero le vacanze, per poter scorazzare finalmente libero nel frutteto, o davanti, nel cortile, rincorrendo le papere che al mio arrivo se la davano a gambe starnazzando, giocando a pallone con i miei cugini o arrampicandomi su qualche ciliegio per fare una vera e propria abbuffata di frutti maturi e ridiscendendo solo quando cominciavo a sentire i primi dolori alla pancia, con le mani e la faccia talmente sporchi che non sarei riuscito mai a nascondere, a mia madre, il motivo della mia indigestione. C’era un mondo intero lì fuori che mi aspettava e non mi pesava neppure aiutare ogni tanto mio padre quando doveva scaricare i sacchi delle sementi, o mi chiedeva di raccogliere le uova che le galline continuavano a depositare in giro per il cortile, sapevo che dopo mi avrebbe ricompensato lasciandomi arrivare allo stagno, a cercare girini, nonostante le rimostranze di mia madre che non voleva che ci allontanassimo mai dal cortile di casa. Non ci si annoiava, neppure nelle ore calde di quelle estati infuocate, quando non ci era permesso né mettere il naso fuori dalla porta della cucina, né fare alcun rumore perché tutti riposavano. In quelle giornate era la nonna che si sedeva in camera nostra e ci raccontava storie di quando era piccola, del viaggio che aveva fatto con i suoi per venire da un paese del nord, un paese che si chiamava Paese, a bonificare queste terre che erano tutte acquitrini malsani, pieni di zanzare che se ti pungevano ti facevano venire la malaria e di sanguisughe che ti si attaccavano addosso quando entravi scalzo nelle risaie per la raccolta. Noi l’ascoltavamo inorriditi all’idea di una sanguisuga attaccata alle nostre gambe magre e piene di lividi ed intanto passava il tempo fino all’ora in cui si rompeva la consegna del silenzio e potevamo ritornare ai nostri giochi e agli schiamazzi di sempre. Non ho mai dimenticato quegli anni e ancora adesso me li sento cuciti addosso, come una coperta calda e confortevole; a volte, dopo...quando all’improvviso mi riassaliva la nausea e la voglia di finirla lì, subito, erano proprio quelle immagini a ricordarmi che c’era stato anche altro.

    L’infanzia rubata

    Sette anni, calzoncini corti, ginocchia magre perennemente sbucciate, mani sempre sporche di terra e di erba che erano la disperazione di mia madre che non riusciva mai a farle diventare pulite come diceva lei e minacciava di metterle a bagno nella varecchina se non mi decidevo a lavarmele più spesso. Era maggio ed era già caldo, il grano era quasi pronto per la mietitura e quest’anno il babbo aveva deciso di assumere un bracciante a dargli una mano. Le cose stavano andando bene, non c’erano più debiti da pagare e lui si sentiva stanco, voleva un aiuto perché non ce la faceva più a mandare avanti tutto da solo. La mamma e la zia, che era rimasta con noi dopo la morte del fratello del babbo, si davano un gran da fare, ma c’era anche la casa, noi bambini e la nonna che ogni tanto sfarfalleggiava e faceva cose bizzarre che ci sembravano divertenti, come quando stava per mettere a cuocere la gallina ancora con le penne addosso, ma che sembravano invece preoccupare molto i grandi. C’era stata una riunione di famiglia e alla fine avevano deciso di assumere un certo ‘Ntonio che più volte era venuto a chiedere lavoro e che sembrava tanto un bravo cristiano. Avrebbe dormito nella stanzetta vicino al fienile, dove d’inverno il babbo metteva al riparo gli attrezzi, perché era impensabile che facesse tutta quella strada ogni giorno per andare e venire da casa sua. ‘Ntonio si era stabilito subito da noi ed era veramente felice per quell’ingaggio che, se tutto fosse continuato ad andare come stava andando, si prospettava lungo. Il babbo gli aveva detto che dopo i lavori di campagna avrebbero dovuto darsi da fare per risistemare alcune cose, come la staccionata dietro il porcile che era talmente precaria che i maiali se ne andavano regolarmente a spasso per tutta la campagna, o il tetto del fienile che era stato smosso dall’ultima tromba d’aria che per poco non se lo era portato via, per non parlare della casa che aveva sempre bisogno di manutenzione. Così ‘Ntonio aveva portato le sue cose e si era stabilito da noi entrando subito a far parte della famiglia, dividendo sia il lavoro che la tavola. Il babbo era contento, diceva che così avrebbe avuto più tempo libero anche per noi, che finalmente sarebbe potuto venire a scuola per le recite, o per conoscere le maestre e che una mano in più in casa era veramente una mano santa. Ormai eravamo già in vacanza, quegli ultimi giorni anche a scuola si passavano a preparare i giochi della gioventù e lo spettacolo di fine anno dove ogni classe rappresentava una scenetta o cantava qualche canzone o allestiva una mostra di lavori fatti durante quell’anno scolastico. Le maestre erano più sorridenti e soprattutto meno severe e nelle classi si sentiva dovunque chiacchierare e ridere senza timore di veder arrivare il Direttore con la faccia accigliata. Tornavamo a piedi e l’ultimo pezzo di strada lo facevamo sempre correndo così entravamo in cucina rossi e accaldati pronti a buttarci sulla pasta che ci aspettava nel piatto, invitante, profumata e solo l’urlo di mia madre o di mia zia ci fermava e ci faceva fare dietro front fino alla fontanella dietro casa dove ci lavavamo mani e viso spruzzandoci l’acqua addosso e riuscendo così anche a rinfrescarci un po’. Le ore della siesta erano sacre, come sempre, per il riposo di chi si era alzato all’alba e la nonna ormai si perdeva in racconti fantastici che comprendeva solo lei, così a poco a poco anche noi ci lasciavamo prendere dalla calura addormentandoci di colpo, chi con la testa appoggiata al tavolo, chi disteso sul tappeto, chi in braccio al babbo che russava rumorosamente seduto sulla sua vecchia poltrona che poi era quella del nonno. La casa cadeva nel silenzio più totale e per un paio d’ore la facevano da padrone solamente le mosche con il loro continuo ronzio, ma all’improvviso, come se una sveglia invisibile si fosse attivata, aprivamo tutti gli occhi, le donne avevano già preparato la merenda in cucina, di solito pane e olio, a volte spolverato di zucchero e per noi bambini un bicchiere di latte freddo, mentre per gli adulti c’era sul fornello la caffettiera grande, quella da dodici, perché ognuno se ne beveva un mezzo bicchiere. La casa riprendeva vita e noi finalmente eravamo liberi come l’aria di ricominciare i nostri giochi. Mia sorella e mia cugina, si allontanavano parlottando, segreti, sempre segreti ed infatti, non appena mi avvicinavo con i miei cugini, smettevano subito di parlare, ci guardavano brutto e cominciavano a tirarci addosso tutto quello che capitava loro sottomano per farci allontanare. Per noi era un vero e proprio divertimento andare a disturbarle, ma subito dopo ritornavamo ai nostri giochi,

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