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E-book437 pagine6 ore

Svegliati Italia!

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Info su questo ebook

Tutto quello che è bene sapere sui poteri forti che stanno impoverendo l'Italia, pur di non pagare dazio dopo i disastri che hanno combinato con le folli speculazioni finanziarie. Poteri forti che hanno il volto dei banksters (banchieri - gangsters), dei governi nazionali e delle istituzioni internazionali che li hanno lasciati fare, complici di una gigantesca rapina planetaria che ha distrutto l'economia reale, ridimensionato il welfare (sanità, pensioni, istruzione) e ridotto la democrazia a una finzione.
LinguaItaliano
Data di uscita13 ott 2014
ISBN9788891160119
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    Anteprima del libro

    Svegliati Italia! - Tino Oldani

    lettura.

    PRIMO CAPITOLO

    HORS D’OEUVRE

    Ricco antipasto, omaggio della casa,

    a base di paté di Renzi, affettati di Merkel,

    soufflé di Euro, gamberoni alla Draghi,

    pastiche di Bce con patate prussiane,

    cavolini soffocati dell’Unione Europea,

    purea soffice di Napolitano, e altri sfizi

    che solleticano il palato e anticipano

    le godurie delle portate seguenti.

    1.1 - Matteo Renzi non è un clone di Berlusconi.

    (22 gennaio 2014)

    Per i lettori di Italia Oggi, me compreso, Riccardo Ruggeri è il top, le sue opinioni sono come la Bibbia. Scrive da dio e riesce a spiegare la politica meglio di tanti opinionisti in carriera, a cominciare da quelli che affollano inutilmente i talk show. Di solito i suoi pezzi mi aiutano a formulare un giudizio. Ma non ieri, quando a commento dell’accordo tra Matteo Renzi e Silvio Berlusconi sulla nuova legge elettorale, ha scritto: Sognavo l’arrivo di una Thatcher 2.0, mi ritrovo un Berlusconi giovane. Peccato. Chiedo venia se per una volta scrivo in prima persona, ma non sono d’accordo.

    Chiarisco subito un punto: non conosco Renzi, di persona non l’ho mai incontrato, e non sono un suo sostenitore. Anzi, per parecchio tempo l’ho considerato un giovane arrivista, molto aiutato dai media nella scalata alla notorietà e al potere. E poiché il potere, alla fine, se l’è preso per davvero, conquistando con le primarie (3 milioni di votanti) la segreteria del Pd e in prospettiva la premiership, ho capito di avere sbagliato giudizio. E per non ripetere l’errore mi sono dedicato con umiltà alla lettura di tutti i libri che il giovane sindaco di Firenze, 39 anni, ha sfornato negli ultimi anni.

    Risultato: Renzi è un politico profondamente diverso da quelli che abbiamo visto in scena negli ultimi 20 anni. Certo, anche lui è un politico di professione, visto che è diventato presidente di Provincia quando aveva meno di 30 anni. Ma scrive bene, ha letto parecchi libri, conosce la storia meglio di tanti politici attempati, ha familiarità con la comunicazione sul web come tutti i giovani e la sa usare, soprattutto non ha mai nascosto il suo programma politico, fondato su valori in cui crede fortemente. A differenza dei precedenti leader della sinistra, non ha fatto un manifesto programmatico alla Carlo Marx, o peggio seguendo i canoni che insegnavano alle Frattocchie. Più furbamente, ha sminuzzato il suo programma in tanti pezzi, che ha via via inserito qua e là, dove i suoi libri parlavano d’altro, magari della bellezza dei monumenti di Firenze o dell’eterna guerra tra fiorentini e pisani.

    Come si fa con i puzzle, mi è servito un po’ di tempo per mettere insieme questi pezzi sparsi, e alla fine ho avuto la prova scritta che Renzi un programma di governo ce l’ha, e che sta semplicemente ripetendo le cose che aveva scritto. E le ripete per farle sul serio: oggi come segretario Pd, domani come premier. Ed è su questo programma che, a mio avviso, dovrà essere giudicato. Non sul colore o sul gossip.

    Certo, il suo piglio decisionista può ricordare la Thatcher. E in comune con la signora di ferro, Renzi ha certamente una scarsa considerazione per i sindacati. Ma oggi i sindacati italiani sono dei perdenti, si sono sconfitti da soli consegnandosi ai pensionati, e non c’è bisogno di un premier simil-Thatcher per metterli in riga. Si aggiunga che Renzi non è un liberale, anzi ci tiene a professarsi di sinistra, sia pure di una sinistra alla Tony Blair. Di più: un cattolico di sinistra, e piuttosto intransigente. Non a caso ha intitolato Savonarola e la Casta uno dei capitoli più interessanti da lui scritti, sentendosi lui stesso un piccolo Savonarola, deciso più che mai a cancellare i mille privilegi che hanno reso odiosa la casta, dai vitalizi regionali al finanziamento pubblico dei partiti. Non solo. Proprio per distinguersi da Berlusconi, Renzi cita come maestro un prete ribelle, don Lorenzo Milani. La politica del Cavaliere è difendere gli interessi, è egoismo. La mia politica, scrive Renzi, è la solidarietà, è l’uscire insieme dai problemi insegnato da don Milani alla scuola di Barbiana.

    Oltre che per i valori, Renzi tiene a distinguersi da Berlusconi anche nel metodo. Gli piace agire alla luce del sole, e lo ha ribadito anche dopo l’incontro con il Cavaliere per concordare la nuova legge elettorale. Certo, l’incontro lo ha fatto per tante ragioni di convenienza politica e di pragmatismo , che è inutile ripetere. Ma per chi ha letto l’ultimo libro di Renzi, è impossibile non ricordare le pagine in cui il sindaco di Firenze racconta che è stato proprio Berlusconi, nella primavera scorsa, a bocciare la sua nomina a premier dopo il fallimento di Pierluigi Bersani. Allora, ricorda Renzi, c’era in campo una terna di possibili premier: Giuliano Amato, Enrico Letta, e il sindaco di Firenze. Per capire quali fossero le sue chances, Renzi chiamò al telefono Angelino Alfano, che gli passò il Cavaliere: Non c’è un veto nostro, caro sindaco. Semplicemente non vogliamo te, preferiamo Amato e Letta. Una chiusura totale, ma non alla luce del sole, visto che le trattative di quei giorni sono ancora avvolte nella nebbia.

    Se non bastasse tutto questo a convincermi che Renzi non ha proprio nulla a che fare né con la Thatcher, né con Berlusconi giovane, aggiungo un altro episodio sulla personalità del segretario Pd, raccontato da lui stesso. Elezioni per il Quirinale. Franco Marini telefona a Renzi: Matteo, mi farebbe tanto piacere se tu mi dessi una mano. Deve andare uno dei nostri al Colle. Uno dei nostri, Franco? Sì, un cattolico. Dopo due laici, tocca a un cattolico. Ecco perché sono in pista io, ci vuole un cattolico. Metto giù il telefono, scrive Renzi. Ci vuole un cattolico? Ha detto proprio così, pare. Faccio outing: sono cattolico, orgoglioso di esserlo e non mi vergogno del mio battesimo… Ma io nell’esperienza di sindaco agisco laicamente: ho giurato sulla Costituzione, non sul Vangelo. Rappresento la città, tutta intera, non solo quella con cui vado a messa la domenica… Non penso che si possa usare l’appartenenza religiosa come chiave d’accesso a posti di responsabilità. Il cattolico è colui che va a messa la domenica, non colui che chiede le poltrone tutti i giorni. O ogni sette anni.

    Fu così che Renzi bocciò Marini, al quale proprio Berlusconi aveva già dato il gradimento del centrodestra. Mentre altri del Pd (la parte che trama alle spalle precisa Renzi) bocciarono subito dopo Romano Prodi, gradito invece al sindaco di Firenze, che conserva gli sms di quei giorni. Concludo: se Renzi era favorevole a Prodi sul Colle, come può essere confuso con un berlusconiano? Piuttosto: siete sicuri che non voglia essere lui a rottamare anche il Cavaliere? Forse, lo ha riportato in vita non per questo, ma anche per questo.

    1.2 - Chi è Angela Merkel, la donna più importante d’Europa:

    di lei si sa poco, noi non l'abbiamo eletta, ma ci comanda.

    (29 ottobre 2009)

    La Merkel riduce le tasse. La Merkel ci farà neri. Merkel di qua, Merkel di là. Abbiamo capito. A 55 anni, vinte le elezioni in Germania, la Bundeskanzlerin ha preso in mano il boccino della politica europea, e per cinque anni tutti i governi della Ue dovranno confrontarsi con il «metodo Merkel». Un metodo fatto di molto pragmatismo, ma anche di basso profilo. Basso profilo? Anche se può sembrare incredibile, è proprio così.

    Di questa donna, che oggi è forse la più potente al mondo, si sa poco, anzi pochissimo. Non è in discussione il suo passato nella Germania dell'Est comunista, dove ha vissuto i primi 35 anni della sua vita, senza mai fare un viaggio all'estero. Quando si dice poco, basta un dettaglio della sua biografia per capirlo: il cognome Merkel. Pochi sanno che non le appartiene più da molti anni, eppure lei continua a portarlo perché, a suo dire, suona bene. Pragmatismo anche questo, in fondo. Ma come si spiega?

    All'anagrafe di Amburgo, dove è nata il 17 luglio 1954, la kanzlerin tedesca è registrata come Angela Dorothea Kasner. Suo padre, Horst Kasner, era un pastore protestante, che nell'ottobre del '54, quattro mesi dopo la nascita di Angela, si trasferì con la famiglia nella Germania dell'est, a Templin, 80 km a nord di Berlino, in campagna. Sempre nella Germania dell'est, benché il regime comunista non fosse di solito magnanimo verso i religiosi e i loro familiari, Angela poté studiare e laurearsi in fisica all'università Karl Marx di Lipsia, dove frequentò i corsi dal 1973 al 1978. All'università, Angela conobbe uno studente, Ulrich Merkel, e, con una rapidità insolita, lo sposò con rito religioso. Era il 1977: Angela Kasner diventò Angela Merkel, prendendo il cognome del giovane marito, che aveva un anno più di lei. La laurea, per Angela, arrivò solo l'anno dopo. E il matrimonio si rivelò ben presto per quello che allora era una realtà diffusa: poiché il governo comunista agevolava le giovani coppie sposate nell'assegnazione degli alloggi e dei posti di lavoro, Angela e Ulrich ne avevano approfittato. Ma tra loro due non sembrava esserci molto altro.

    Nel 1981 si separarono; il divorzio arrivò l'anno successivo. Ma, come se niente fosse, Angela continuò a farsi chiamare Merkel. Continuò a farlo anche quando si trasferì a Berlino, per studiare e lavorare come ricercatrice presso il dipartimento di Fisica dell'Accademia delle Scienze. Qui conobbe e frequentò il dottor Joachim Sauer, suo consigliere accademico al dottorato. Sposato e divorziato, Sauer aveva due figli e un carattere schivo e riservato. Ma con Angela si trovò bene. I due decisero di abitare insieme nell'appartamento del professore. Hanno convissuto senza sposarsi per 17 anni. Soltanto nel 1998, quando la Germania era ormai riunificata da quasi dieci anni e Angela era diventata un esponente politico di primo piano della Cdu di Helmut Khol, la coppia decise di unirsi con un matrimonio civile. Angela lo fece soprattutto perché la Cdu era ed è un partito in prevalenza cattolico, e non poteva più ignorare le critiche che le venivano rivolte da più parti, anche dal cardinale Joachim Meisner, noto per le posizioni conservatrici.

    Le date hanno una discreta importanza in questo caso: il 7 novembre 1998 Angela venne eletta nuovo segretario della Cdu; meno di due mesi dopo, il 30 dicembre, si unì in matrimonio con Joachim Sauer. Tuttora, come ha sempre fatto, Angela sa coprire il proprio privato con grande riserbo. Anche per questo, 27 anni dopo il divorzio dal primo marito, continua a farsi chiamare Angela Merkel, e non le passa neppure per l'anticamera del cervello di usare il cognome del secondo marito, Sauer. I motivi, come avrebbe spiegato in privato la stessa kanzlerin, sono essenzialmente due. Primo: Merkel è un cognome semplice da ricordare, e con questo appelativo Angela già nel 1998 è un dirigente politico molto noto. In tempi di politica spettacolo, cambiare cognome significherebbe ricominciare da capo. Un guaio. Secondo: il cognome del secondo marito, Sauer, in tedesco significa «acido», e questo per un leader politico più che un cognome assomiglia a una maledizione. Quindi, con innegabile pragmatismo, Angela continua a chiamarsi Merkel, che suona bene. E nell'era della politica spettacolo, anche la musicalità ha il suo peso.

    Che questi aspetti non siano noti a tutti, è confermato da una gaffe di Nicolas Sarkozy, il presidente francese che nel maggio 2008 ha consegnato alla Merkel il Premio Charlemagne, uno dei più prestigiosi in Europa. Durante la cerimonia di consegna, dopo avere tessuto le lodi della cancelliera, Sarkozy si rivolse al di lei marito con queste parole: «Caro Monsieur Merkel, deve sapere che amo Angela molto più di quanto la stampa non dica». Il professor Sauer non batté ciglio. Ma a riprova del fatto che si era trattato di una gaffe vera e non di una banale distrazione, bastò consultare il testo scritto del discorso: c'era scritto proprio Monsieur Merkel. Ecco, se la vostra conoscenza della Bundeskanzlerin è identica a quella che ne aveva il presidente francese nel maggio 2008, non dovete abbattervi. Se puntate al Nobel per la pace, continuate pure. In fondo, questo è soltanto uno dei molti aspetti poco noti della Merkel. Ciò si deve anche al fatto che in Germania i media non sono invadenti come in Italia, la privacy è un valore vero per tutti e nessun giornale si sognerebbe di scrivere sulla cancelliera ciò che in Italia si scrive sul privato di Silvio Berlusconi. Se n'è avuto conferma qualche anno fa, quando la Merkel venne in Italia per una vacanza a Ischia e fu fotografata mentre si cambiava il costume da bagno. La foto finì sui giornali inglesi con una didascalia ironica. In Germania i media insorsero all'unisono e condannarono l'episodio, con una difesa totale della privacy della loro cancelliera. Anche in questo, la Germania è un mondo a parte.

    (firmato: Franco Talenti)

    1.3 - L’Europa degli inciuci Merkel style.

    (17 maggio 2014)

    Quando l'ho letto, non credevo ai miei occhi. Il tedesco Martin Schulz, candidato socialdemocratico alla guida della Commissione Ue, ha scritto papale papale in un saggio recente ("Il gigante incatenato, Fazi Editore) che oggi vi sono due realtà politiche nell'Unione europea: c'è l'Europa delle istituzioni, che non conta nulla, e c'è l'Europa degli inciuci" (sì, usa proprio questa parola) creata dalla cancelliera Angela Merkel, l'unica che conti davvero. Una tesi interessante, che trova piena conferma nel reportage che Bernardo Valli, autorevole decano del giornalismo internazionale, ha dedicato ieri alla Germania sulla Repubblica.

    La cancelleria federale, a fianco della Porta di Brandeburgo, è la meta obbligata dei dirigenti politici che spesso snobbano la Commissione di Bruxelles, scrive Valli riferendosi all'ufficio di Angela Merkel. I greci, aggrediti dalla crisi non perdono tempo, saltano José Manuel Barroso e vengono direttamente qui. Anche per i problemi di politica internazionale più scottanti, come l'Ucraina, cinesi e americani si consultano con Berlino. Parigi è una tappa successiva. Così Londra. Così Roma. Perfino il ministro delle Finanze francese, Michel Sapin - rivela Valli - si è consultato con Berlino sul piano di risparmi di 50 miliardi prima ancora che il premier Manuel Valls ne parlasse ai francesi. E Matteo Renzi, prima di diventare segretario del Pd e poi premier, già nell'agosto 2013 si era fatto ricevere dalla Merkel nella veste di candidato al potere. Ed è sempre frau Angela che detta la posizione europea nei confronti di Vladimir Putin, oscurando ed esautorando nei fatti la responsabile Ue per la politica estera, l'inglese Catherine Ashton, baronessa laburista.

    L'origine della politica dell'inciucio è ben raccontata dal libro di Schulz. A partire dalla crisi iniziata nel 2008, si registra una tendenza alla 'verticizzazione' inaugurata dal cosiddetto 'direttorio franco-tedesco': nell'ottobre 2010 la cancelliera Angela Merkel e l'ex presidente francese Nicolas Sarkozy hanno deciso di avocare a sé la gestione della crisi e di mettere da parte il metodo comunitario. Proprio così: mettere da parte, cioè ignorare le quattro principali istituzioni dell'Unione europea: la Commissione di Bruxelles, il Parlamento europeo, il Consiglio dei capi di stato e di governo e il Consiglio dei ministri. Un colpo secco, zac!, e gli organi statutari e democratici previsti dai Trattati europei sono stati sostituiti dall'inciucio franco-tedesco, preludio di una sistematica politica di inciuci bilaterali con i quali l'architettura istituzionale dell'Unione europea è stata rottamata.

    Annota Schulz: Angela Merkel ha motivato questo passo sostenendo che era necessario un maggior coinvolgimento dei governi degli Stati membri nel dibattito sulle possibili vie d'uscita dalla crisi. Di conseguenza i capi di Stato e di governo si sono incontrati sempre più spesso per valutare le misure da prendere, e allo stesso tempo per fare sfoggio della loro capacità d'intervento di fronte alle rispettive opinioni pubbliche nazionali. Si tratta a mio parere di un bell'inganno.

    Non meno interessanti le pagine seguenti, in cui il presidente uscente del Parlamento europeo racconta le conseguenze negative della politica dell'inciucio e dell'inganno. Poiché i capi di Stato e di governo debbono decidere all'unanimità, ben di rado sono riusciti a decidere qualcosa. Solo per trovare un accordo sugli aiuti alla Grecia ci sono voluti ben 25 riunioni dell'Eurosummit. Ma il retroscena più interessante riguarda il Fiscal Compact, che pure doveva esser approvato all'unanimità. Ma così non è stato. Con il suo no, il governo inglese di David Cameron ha mandato all'aria ogni piano scrive Schulz. Il Fiscal Compact non è quindi diventato parte del diritto europeo, anche se, per aggirare il veto britannico, è stato fatto passare nel diritto internazionale. Così è diventato tutto più complicato, perché in questo modo deve essere ratificato in ogni singolo Stato membro, cosa che non sarebbe stata necessaria con una normale legge europea. Ma questa procedura, per fortuna, non è ancora conclusa.

    L'Italia, come è noto, su iniziativa del governo di Mario Monti ha recepito e approvato il Fiscal Compact a tempo di record nel 2012, introducendo perfino l'obbligo del pareggio di bilancio nella Costituzione. Ma non per questo il trattato fiscale può dirsi incardinato per sempre. Anzi. Schultz spiega che entro il 2017 (cinque anni dopo il suo varo) il Fiscal Compact dovrà comunque essere recepito nel diritto europeo. Ciò vuol dire che a breve bisognerà ritentare quello che è già fallito una volta con David Cameron. Un metodo che nel libro viene giudicato fallimentare per affrontare la crisi economica.

    Vi sono qui i presupposti concreti per dare una risposta al pessimismo della ragione di chi teme che la partita sul futuro dell'euro e dell'Europa sia ormai persa. Nei prossimi tre anni, basta volerlo, vi è tempo e modo per un lavoro culturale e politico volto a impedire che il Fiscal Compact diventi parte integrante del diritto comunitario. Le regole demenziali di questo trattato, come ha ben spiegato l'economista Paolo Savona, porterebbero l'Europa al disastro. Ma nessuno finora in Italia - né Renzi, né Beppe Grillo, né i tanti scienziati della politica europea - aveva mai preso in considerazione la normativa giuridica Ue, che con i suoi cavilli (grazie Schulz per averceli ricordati) consentirebbe all'Italia di farsi capofila di un movimento europeo per sterilizzare il Fiscal Compact entro il 2017. E' l'unica strada, forse l'ultima, per sconfiggere l'Europa degli inciuci imposti finora dalla Merkel, e riportare in auge il metodo democratico. Perché senza una vera democrazia al suo interno, l'Europa del futuro non potrà sopravvivere.

    1.4 - Al posto della Merkel, all’Europa servirebbe un Hamilton.

    (13 maggio 2014)

    Pur non essendo stato presidente degli Stati Uniti, il volto di Alexander Hamilton è effigiato sulle banconote di 10 dollari. Il privilegio si spiega con il fatto che Hamilton (1755 – 1804) è considerato un padre della patria per il triplice ruolo che svolse come politico, militare ed economista durante e subito dopo la guerra di indipendenza americana, che si concluse con la vittoria delle tredici colonie nordamericane contro la Gran Bretagna. A conflitto finito, non solo prese parte alla stesura della Costituzione degli Stati Uniti, ma diventò nel 1789 il primo ministro del Tesoro nella storia americana, e lavorò a fianco del presidente George Washington, di cui era amico e consigliere. Si devono a lui l’istituzione della Banca nazionale d’America e la creazione di un unico sistema monetario Usa, prima inesistente. Il suo capolavoro fu però la coraggiosa realizzazione di un progetto autenticamente federale, sulla cui riuscita era l’unico a credere: mettere insieme i debiti di tutte le ex colonie, e creare un unico grande debito di guerra, con l’impegno ad onorare la sua restituzione. Un progetto tra il folle e il visionario, in quanto gli Stati delle ex colonie avevano accumulato debiti enormi ed erano sull’orlo della bancarotta. Ma Hamilton, prendendosi dei poteri superiori a quelli che gli erano riconosciuti dalla Costituzione, nel 1790 fece prendere in carico alla Federazione i debiti dei singoli Stati, li ristrutturò e li rimborsò completamente.

    La principale motivazione di Hamilton non fu però economica, ma politica, poiché a suo avviso solo mettendo insieme i debiti di tutte le ex colonie, e onorandoli, si sarebbe potuto creare un vero senso di appartenenza a un unico grande Stato. Un visionario come Hamilton oggi farebbe davvero comodo all’Europa. Solo uno come lui avrebbe il coraggio di mettere insieme i debiti dei vari Stati dell’Unione europea, quelli del Nord ricco e quelli del Sud in difficoltà, e ristrutturarli creando un unico grande debito europeo, da onorare mediante la graduale emissione di eurobond da destinare anche a nuovi investimenti. Un progetto logico sul piano economico, che finora ha però trovato ostacoli insormontabili sul piano politico, primo fra tutti l’opposizione della Germania di Angela Merkel.

    Che si tratti di un progetto logico lo dice da sempre l’ex ministro Giulio Tremonti, che ha fatto propria l’idea originaria di Jacques Delors, ex presidente della Commissione Ue (1985-95). A suo dire, nel 2011 lui stesso fu silurato dall’asse di potere Berlino-Parigi-Bce insieme al governo di Silvio Berlusconi proprio perché pretendeva l’introduzione degli eurobond in cambio del contributo italiano al Fondo europeo salva-banche. Ma non è l’unico ad auspicarli. Perfino l’ex premier Mario Monti, che Tremonti indica abitualmente come un esecutore dei voleri della Merkel, nel suo ultimo libro (La democrazia in Europa: guardare lontano. Best Bur), scrive che la creazione di eurobond non è che la naturale prosecuzione dell’introduzione dell’euro. Con gli eurobond, sostiene, si consentirebbe all’eurozona di rimediare alla frammentazione dei mercati europei del debito e di presentarsi finalmente sulla scena mondiale come un soggetto compatto e autorevole. E la misura risponderebbe a un’esplicita domanda degli investitori, in particolare fondi pensione e assicurazioni, alla ricerca di prodotti insieme stabili e remunerativi.

    Purtroppo l’uomo politico Mario Monti sembra un’altra persona rispetto all’economista che porta il suo stesso nome, e mai in questa campagna elettorale per le europee gli abbiamo sentito dire qualcosa di simile alle tesi del suo libro. La stessa cosa si può dire per l’ex presidente della Commissione Ue, Romano Prodi, e per l’economista Alberto Quadrio Curzio, che insieme proposero tempo fa l’introduzione di obbligazioni europee la cui emissione dovrebbe essere affidata a un Fondo unico garantito dagli Stati attraverso depositi in oro e quote azionarie di società in attivo. In pratica, eurobond per ridurre i debiti sovrani e alimentare gli investimenti. Una proposta stranamente finita nel dimenticatoio proprio quando sarebbe stato utile farne un cavallo di battaglia per dare un senso alle elezioni europee. Ma né il premier Matteo Renzi, né gli altri leader vi hanno mai fatto cenno.

    Incredibilmente afondi sugli eurobond sono diventati anche i due principali candidati a succedere a Manuel Barroso nella guida della Commissione Ue. Il popolare Jean Claude Juncker, lussemburghese, che in passato si era dichiarato a favore degli eurobond, ha cambiato opinione subito dopo che la Merkel ha deciso di appoggiare la sua candidatura europea. E il suo avversario, il socialista tedesco Martin Schulz, che pure era favorevole, intervistato domenica dal Corriere della sera, se n’è lavato le mani con lo stile di Ponzio Pilato. Lei è favorevole agli eurobond? gli ha chiesto Aldo Cazzullo. E Schulz: Sì. Ma per gli eurobond ci vuole l’unanimità. Oggi non ci sono le condizioni. Una risposta che conferma tutto il peggio che perfino i tedeschi pensano di lui, come faceva notare sabato su Italia Oggi Roberto Giardina, citando un titolo di Die Welt: L’Europa di Schulz? Dio ce ne scampi!.

    Paradossalmente, l’unico in Italia che nei comizi auspica di mettere insieme i debiti dei vari Stati europei è Beppe Grillo, leader dei Cinque stelle, che non è un economista, ma un comico. E lo dice come una provocazione, una delle tante, insieme ad altre provocazioni più o meno grevi sulla signora Merkel. Il che, di certo, non può fare di lui l’Hamilton di cui l’Unione europea avrebbe un gran bisogno per fare il salto di qualità necessario per uscire dall’incubo dell’austerità e riproporre il sogno degli Stati Uniti d’Europa solidali, prosperi e pacifici. Un vero peccato!

    1.5 - La Bce di Mario Draghi, una banca centrale nata zoppa.

    (3 gennaio 2014)

    Che il presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, e quello della Bundesbank tedesca, Jens Weidmann, abbiano opinioni diverse e spesso contrastanti sulle questioni economiche, non è una novità. Di recente Draghi ha parlato con il settimanale tedesco Der Spiegel, mentre Weidmann lo ha fatto con il quotidiano popolare Bild. Il primo ha cercato di rassicurare i tedeschi, soprattutto quelli che temevano che un italiano potesse distruggere la Germania, e ha sottolineato di avere rispettato con scrupolo il proprio mandato alla Bce: L'inflazione è bassa e l'incertezza è diminuita. Per contro, Weidmann ha detto che l'euro è ancora in fase di risanamento, per cui sono necessari perseveranza e volontà forti per evitare che la malattia esploda nuovamente. Si potrebbe trattare di una calma ingannevole. La polemica tra i due, più presunta che reale, sarebbe stata incomprensibile, se non fosse giunto un commento del ministero tedesco delle Finanze, Wolfgang Schauble, convinto che Draghi non abbia violato il suo mandato. Ecco la parola chiave: il mandato. Per i tedeschi il compito della Bce (il mandato) è di tenere sotto controllo i prezzi e l'inflazione. Punto e basta. Quanti affermano - e in Italia sono in tanti a farlo, compresi gli autori del recente appello del Manifesto - che la Bce dovrebbe impegnarsi anche nel rilancio dello sviluppo e nel contrastare la disoccupazione, per il governo di Berlino sono in errore. Anzi, si tratta di una vera e propria eresia che viola i Trattati. Lo sviluppo e la creazione di lavoro - sottolineano a Berlino - sono compiti di esclusiva competenza dei governi dei singoli Paesi, non della Banca centrale europea. E' scritto nei Trattati europei, e per Berlino guai andare oltre.

    In Europa ci sono 25 milioni di disoccupati. Ma biasimare per questo l'egoismo tedesco, serve a ben poco. Draghi, onestamente, non poteva fare di più contro la crisi per una ragione molto semplice: la Bce è una banca centrale nata zoppa, un mostriciattolo istituzionale. A volerla zoppa fin dalla nascita sono stati gli stessi Trattati europei (Maastricht nel 1993, Lisbona nel 2007) che le vietano espressamente (articolo 123) di prestare soldi ai governi dei Paesi dell'Unione. Si tratta di un caso unico al mondo. Un'anomalia che sa di follia economica, su cui poco si discute e nulla si fa non solo in ambito politico, ma anche in quello culturale e mediatico. Da secoli, le banche centrali sono state istituite per svolgere soprattutto precise funzioni: finanziare lo Stato, creare la quantità di moneta necessaria per il buon funzionamento dell'economia, ripagare i debiti giunti a scadenza, finanziare la spesa sociale e promuovere lo sviluppo e l'occupazione. E' così che funzionano le Banche centrali nel resto del mondo, in testa la Federal Reserve negli Stati Uniti, la Banca centrale in Inghilterra, quelle del Giappone e della Svizzera. Ma la Bce - incredibilmente - fa eccezione, perché così hanno stabilito i Trattati europei: di fatto, può prestare soldi soltanto alle banche private. Una clausola ferrea, imposta dalla Germania, che ha un terrore storico dell'inflazione (Weimar) e della finanza pubblica allegra. Una rigidità che non ha risolto nulla, ma provocato guai enormi.

    Basta fare un confronto tra Usa ed Europa. Per contrastare la crisi economica, da tempo la Federal Reserve inonda ogni mese il mercato con 85 miliardi di dollari. Grazie a questa alluvione di dollari ("quantative easing), la moneta Usa si è progressivamente svalutata, e questo ha contato non poco sulla ripresa dell'economia americana e sulla creazione di nuovi posti di lavoro. Al di qua dell'Atlantico, la Bce di Mario Draghi - anche se l'avesse voluto - non poteva fare altrettanto, poiché gli è vietato prestare soldi ai Paesi maggiormente colpiti dalla crisi dei debiti sovrani. Per questo, l'unica iniziativa che Draghi ha potuto intraprendere contro la crisi, senza violare il mandato", è stata quella di prestare ingenti risorse alle banche private (mille miliardi di euro in due anni, di cui 293 miliardi all'Italia), al tasso dell'1 per cento, nella speranza che poi queste risorse affluissero all'economia reale, alle imprese e alle famiglie. Ma così non è stato. Anzi, le banche dell'Eurozona si sono tenute i soldi della Bce per investirli comodamente in titoli di Stato e per pagare gli enormi debiti che avevano contratto con le speculazioni finanziarie degli anni precedenti, debiti privati che in quasi tutti i Paesi europei avevano raggiunto e superato le dimensioni dei debiti pubblici. Di riflesso, mentre l'abbondanza di dollari in circolazione provocava la svalutazione della moneta Usa, l'euro finiva per rivalutarsi nonostante il perdurare della crisi economica nell'eurozona, una crisi aggravata dalle politiche di austerità imposte dalla Germania a causa di una visione egemone e non solidale del proprio ruolo in Europa.

    Pochi dati aiutano a capire come e perché l'azione della Bce, condizionata da Berlino, sia servita soprattutto per evitare il collasso dell'indebitato sistema bancario, comprese le grandi banche tedesche. Secondo dati del Fondo monetario, a fine 2011 le banche tedesche dichiaravano debiti pari al 98 per del pil tedesco; i debiti di quelle francesi superavano il 150 per cento del pil nazionale, in Spagna il rapporto si collocava a quota 111 per cento, in Portogallo al 150 per cento, mentre l'Italia si collocava su una quota simile a quella tedesca (98 per cento), indice di una situazione bancaria tutt'altro che in salute, anche se lontana dal pessimo record delle banche inglesi, con un debito pari a 5 volte e mezzo il pil britannico (547 per cento).

    Di fronte a questi dati a dir poco disastrosi, nascosti colpevolmente sotto il tappeto, l'ipotesi che la Bce possa svolgere un ruolo decisivo per superare la crisi economica e rilanciare lo sviluppo e l'occupazione non ha alcun fondamento, purtroppo. La verità nuda e cruda è che finora la Bce ha soltanto cercato di evitare il collasso del sistema bancario, che per troppo tempo aveva scherzato con il fuoco speculando sui derivati e indebitandosi oltre ogni immaginazione. Il disastro non è ancora scongiurato. Ma quel che è peggio è che né i governi europei più colpiti dalla crisi (Italia in testa) né l'Unione europea sembrano avere l'intenzione di intervenire sui nodi veri del problema: all'Eurozona serve al più presto una Bce che abbia tutti i poteri di una vera banca centrale (come la Fed e la Banca d'Inghilterra) e faccia da prestatore di ultima istanza; serve una Bce che quando serve possa svalutare l'euro (cosa che oggi Draghi non può fare); serve una separazione netta tra le banche commerciali e le banche d'investimento sull'esempio della Volcker rule Usa, perché mai più le banche-casinò possano giocare sui derivati con i risparmi dei clienti, mettendo a rischio il futuro di un'intera generazione. Purtroppo, nulla di tutto questo sembra profilarsi all'orizzonte, nulla di simile è scritto nell'agenda futura dell'Unione europea. L'unica ipotesi che gira nelle stanze dell'euroburocrazia è di rafforzare i compiti della vigilanza bancaria in tutta l'Eurozona affidandoli alla Bce. Di fatto, una chimera. Colpa della solita Germania? Oppure anche la signora Merkel è succube delle indebitate banche tedesche, specie di quelle troppo grandi per fallire? La seconda ipotesi sembra la più vera. Non a caso l'economista Paolo Savona ha sottolineato in una recente conferenza che oltre la metà degli asset della Deutsche Bank, la prima banca tedesca, è composta da derivati. E se le premesse sono queste, si giustifica sempre di più il rifiuto da parte degli euroscettici di una politica di austerità che, imponendo tasse e sacrifici all'intera Europa, alimenta soltanto il Fondo europeo salva-banche, e - come ha spiegato Riccardo Ruggeri - uccide i ceti produttivi che producono il pil, mentre salva le categorie parassite (banche, burocrati e politici) che lo consumano. Invertire la rotta non sarà facile né possibile se prima non vi sarà una diffusa consapevolezza sui veri responsabili del disastro economico (le banche e i politici loro complici). In questa battaglia, i giornali liberi e indipendenti hanno, e avranno sempre più, una missione storica. Italia Oggi, e non da ora, sta facendo la sua parte.

    1.6 - Svalutare l'euro è indispensabile.

    (8 gennaio 2014)

    Tra le riforme necessarie per cambiare l'Unione europea, il manifesto lanciato dall'economista Paolo Savona (vedi "Italia Oggi del 28 dicembre) indica come prioritaria l'attribuzione alla Bce almeno del compito di intervenire sul cambio dell'euro. Una richiesta sacrosanta, visto che l'euro è fortemente sopravvalutato e danneggia l'export dei Paesi dell'eurozona (Italia in primis). Ma la Bce - per statuto - non ha alcun potere in materia. Si tratta di una anomalia unica al mondo, frutto dei compromessi che hanno condizionato la stesura dei Trattati europei di Maastricht e di Lisbona. Il risultato è un insulto al buon senso: la Bce non può prestare soldi agli Stati dell'eurozona, ma soltanto alle banche, e neppure può intervenire sul cambio. Lo stesso presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, lo ha ammesso in un'intervista a Le Journal du Dimanche", che a metà dicembre gli ha chiesto: L'euro è apprezzato molto sul dollaro? Che cosa fate per abbassarlo e renderlo più competitivo?. Risposta: Non voglio fare congetture sulla buona parità tra euro e dollaro. Non abbiamo obiettivi di cambio. Ma riconosco che un tasso di cambio elevato ha conseguenze sulla crescita e sull'inflazione in Europa. Tutto qui? Purtroppo sì.

    Di fronte ai diktat di Berlino, che nei Trattati ha imposto alla Bce di occuparsi solo di inflazione e prezzi, e di niente altro, anche un banchiere preparato come Mario Draghi, forte di una lunga esperienza sul campo, è costretto a fare la figura di un Ponzio Pilato qualsiasi. Ma come? Se neppure il presidente della Bce può fare congetture e dire cosa pensa del cambio dell'euro, a chi mai dovrebbero rivolgersi i 330 milioni di europei dei 18 Paesi dell'eurozona per avere lumi sulla loro moneta e sentirsi tutelati? E poiché è lo stesso Draghi a riconoscere che la Bce non ha obiettivi di cambio, è del tutto evidente che la richiesta del manifesto di Paolo Savona coglie un obiettivo strategico quando propone di attribuire alla Bce perlomeno il compito di intervenire sul cambio, un potere che hanno tutte le Banche centrali del resto del mondo proprio per aggiustare il valore della moneta da loro emessa, e adeguarlo all'andamento dell'economia. In Europa, invece, il vuoto di potere della Bce in materia di cambio ha provocato un duplice paradosso, che ha dell'incredibile: mentre l'economia della maggior parte dei Paesi dell'eurozona è in crisi, l'euro è sempre più una moneta forte.

    Nel 2013 tutte le monete del mondo si sono svalutate rispetto all'euro: il dollaro Usa del 4,2%, lo yen giapponese del 22%, la sterlina inglese del 3%, perfino il rublo russo è sceso del 13%. Non solo. Il secondo paradosso è che a determinare il tasso di cambio della moneta comune europea non è la Banca che la emette, ma le Banche centrali delle monete concorrenti, che finora hanno avuto buon gioco nella svalutazione competitiva delle loro valute (soprattutto la Fed Usa con il dollaro, che ha iniettato sul mercato mille miliardi di dollari in un anno), favorendo così l'export dei loro Paesi a danno di quelli europei. E l'Italia è il Paese europeo che ha pagato il prezzo più elevato. Basti ricordare che il nostro Paese (dati Eurostat 2012) vende al di fuori della zona euro il 59 per cento del suo export totale. E non poche aziende di eccellenza (Luxottica e Technogym, per esempio) vendono all'estero il 90 per cento della loro produzione.

    Ma quale potrebbe essere una valutazione corretta dell'euro? Nonostante il silenzio della Bce, gli studi in materia abbondano. La Morgan Stanley, partendo da un cambio euro-dollaro di 1,33 per l'insieme dell'eurozona, ha ammesso di recente che l'Europa monetaria è divisa in due grandi aree, una forte e una debole: così per la Germania sarebbe più corretto un

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