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Le anime rubate
Le anime rubate
Le anime rubate
E-book219 pagine2 ore

Le anime rubate

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Info su questo ebook

Chi pensava di non avere più nulla da vendere si accorse che aveva ancora l’anima. Chi pensava di non aver più nulla da comprare scoprì che poteva ancora comprare anime piene di passione, di spontaneità, di desiderio. Si diceva “rubare”, perché tutti sapevano che un’anima, in ogni caso, la si può solo rubare. Si poteva anche dire che la si “comprava”, un’anima, ma occorreva pagarla di più. In una Bangkok piovosa Roberto, ladro di anime, fugge dalla polizia e viene aiutato dalla thailandese Jan che, con i suoi amici, lavora nel mercato clandestino di anime. Roberto, Jan e i suoi amici incontrano il dottor Jiriporn, inventore del procedimento che consente di trasferire l’anima o, come alcuni preferiscono dire, di rubarla. Quando il dottor Jiriporn viene ucciso, Roberto e i suoi compagni in fuga per Bangkok scoprono un commercio attorno al quale si sviluppano interessi terapeutici, dell’industria del divertimento, forse militari. Il furto di anime non è solo l’ultima distrazione di chi si annoia e l’estrema risorsa di chi non ha che se stesso. Roberto e i suoi amici scoprono gli interessi che si nascondono dietro quel mercato, e i meccanismi che, in mancanza di altra definizione, si raccolgono sotto il nome di “anima”.
LinguaItaliano
Data di uscita9 ott 2013
ISBN9788868555986
Le anime rubate

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    Anteprima del libro

    Le anime rubate - Paolo Euron

    Paolo Euron

    Le anime rubate

    ROMANZO

    Perché chi vorrà salvare la propria anima la perderà, ma chi perderà la propria anima, la salverà. Difatti che giova all’uomo guadagnare il mondo intero, se perde l’anima sua?

    (Marco, 8, 35-36)

    1

    Dopo tutta questa storia, se Roberto avesse dovuto suggerire un’immagine della propria anima, probabilmente ti avrebbe descritto certi lotti vacanti confinanti lungo linee incerte, sbiancati dal sole, percorsi da branchi di cani che marciano lenti, non per stanchezza, come penseresti vedendoli tanto smunti, ma perché intendono impiegare più tempo possibile per attraversare quel terreno, prima di tornare indietro.

    2

    A Bangkok il caldo costringeva Roberto a camminare rasente al muro, dove si raccoglieva un po’ d’ombra. I tassisti erano sdraiati sulle loro motociclette, al riparo degli ombrelloni stinti, i piedi sul manubrio, e ti osservavano passare con sguardo assorto, come se volessero farti capire che quel cerchio d’ombra era proprio il luogo in cui loro avevano avuto intenzione di arrivare e in cui desideravano rimanere. Anche le auto nell’ingorgo sembravano soffrire l’immobilità del caldo, vibrando come girini sul fondo di una pozzanghera. Le carrozzerie erano avvolte da una bolla di calore che ti pareva di poter toccare. La gente cercava rifugio nel centro commerciale, dove l’aria condizionata mostrava oltre i vetri uno spettacolo diverso: pigri tassisti che dormivano sui loro mezzi e l’immobilità del traffico perenne del centro.

    Roberto camminava verso la fermata del bus che lo avrebbe portato alla stazione della corriera, e quella verso il mare, verso casa. Sul lato opposto della strada svettava il massiccio complesso di metallo e vetro del centro commerciale.

    Pensò che se attraversava il corso e proseguiva all’interno del centro commerciale, sarebbe stato circondato dal mite inverno di aria condizionata che, per chi vive ai tropici, è un po’ come il paradiso terrestre, così come il paradiso terrestre, per chi vive altrove, sono i tropici. L’idea di primo acchito gli parve buona, come in genere pare delle idee sciocche. Salì sul primo passaggio pedonale, attraversò il corso ed entrò nell’edificio.

    Da quel poco della propria religione che in quel momento gli passava per la mente, sentiva che dai paradisi terrestri si esce per aver commesso un errore. Non immaginava che potesse essere anche un errore cercare di entrarci. Gli balenò in mente che il termine giusto non era errore ma peccato, Adamo ed Eva uscirono dal paradiso terrestre per aver commesso un peccato. Tuttavia la parola peccato non esisteva tra gli stati d’animo che da quasi quarantott’ore facevano funzionare la sua mente. Il peccato non esisteva nell’anima di quella ragazza thailandese e il termine errore era il concetto più simile che quell’anima gli poteva offrire.

    Entrare nel centro commerciale fu l’errore da cui tutto ebbe inizio.

    3

    Sapeva di essere stato individuato. L’apparecchio con il sensore termico non aveva emesso alcun segnale, ma i volti dei militari che lo manovravano si erano tesi. I tre soldati si erano scambiati uno sguardo di sfuggita, appena un accenno di sguardo, di quelli intesi per passare inosservati. E probabilmente sarebbe anche passato inosservato, quello sguardo, se soltanto fosse stato scambiato in presenza di un uomo. Tuttavia quei tre non potevano ingannare i sensi attenti di una sedicenne.

    Non gli restavano che pochi secondi, pensò. Si disse che lo avrebbero chiamato, avrebbero cercato di bloccarlo, poi se non avesse risposto al primo richiamo e avesse dimostrato l’intenzione di fuggire, probabilmente sulla camicia si sarebbe disegnato il pennello del puntatore laser. Infine, questione di attimi, il proiettile avrebbe colpito un qualche punto percorso, tra uno scatto e l’altro, da quell’insetto rosso. Non immaginava tanto sangue. Non era Roberto a pensare. Lasciava il compito di notare i particolari e di trarne le conseguenze all’anima di quella sedicenne che si era fatta carico del suo corpo. Tuttavia lui smise per un istante di ascoltare i pensieri della sua ospite e si disse che una sedicenne in cerca di avventure, in quelle circostanze, avrebbe dovuto pensare innanzitutto al sangue, se ne esce tanto o poco, non al meccanismo di un puntatore laser. Poi tacque ed ascoltò se dall’anima di quella ragazzina arrivava qualche consiglio che gli potesse tornare utile. Si disse che in fondo quella era la sua patria, quelli i suoi simili. Tuttavia sono fatte così le anime, aspettati una risposta, e loro tacciono.

    Roberto aveva una certezza, non sua, ma di quell’anima presa a prestito, che contro quello straniero di mezz’età, caucasico e sudato, avrebbero sparato.

    4

    Accelerò il passo. Udì un trapestio alle spalle. Iniziò a correre. Si chiese come aveva potuto non notare quel congegno all’ingresso che lo scrutava. Da che paese proveniva quella ragazzina che non aveva mai visto prima un rilevatore di temperatura? Ormai era troppo tardi. Raggiunse il parapetto che delimitava la balconata e attraversava con una linea serpentina il primo piano del centro commerciale. Il piano sottostante distava troppo per un salto. A pochi metri da lui la scala mobile tagliava diagonalmente l’atrio e si posava davanti all’uscita, di fronte alla salvezza.

    Signore! udì chiamare alle spalle.

    Ci siamo... pensò Roberto. O, meglio, pensò qualcuno in lui e per lui. Troppa gente affollava la scala mobile e tutte le altre possibili vie di fuga erano irraggiungibili. Notò due poliziotti ai piedi della scala. Alzavano i loro fucili con il cannocchiale verso la balconata. I pensieri che si mischiavano ai suoi gli impedivano di concentrarsi. Poi si accorse a cosa stava pensando. Quella voce che lo aveva chiamato era una voce di donna.

    I sensori termici che lo avevano individuato, in uso nei luoghi pubblici, erano gli stessi usati nell’aeroporto internazionale nel 2009, durante la prevista epidemia di influenza H5N1. A quel tempo la gente nella metropolitana di Bangkok indossava le mascherine bianche. Bangkok era affollata da un popolo di volti bianchi che si aggirava per le strade, nella metropolitana, nei centri commerciali, e quella maschera toglieva loro ogni residuo di perscrutabilità, di intelligibilità. Tutta quella gente sembrava abitare un altro mondo, o venire da un altro mondo per abitare questo solo per un po’. Insomma, sembravano degli apprendisti spettri, solo un po’, solo attorno alla bocca, come se stessero facendo delle prove generali dell’apocalisse.

    Ai tempi della preannunciata epidemia, all’uscita dell’aeroporto internazionale Suvarnnabhumi di Bangkok, erano stati collocati i sensori termici a raggi infrarossi che dovevano rilevare la temperatura dei viaggiatori. Roberto pensò che già allora, come se ne avesse saputo il loro futuro impiego, lo mettevano in soggezione. Si era dimenticato di tutto questo, ma l’anima rubata sembrava divertirsi con i ricordi che poteva evocare, li ripercorreva con curiosità: sembrava un ospite che, lasciato da solo nel soggiorno, raddrizza i quadri e apre le bomboniere per guardarci dentro.

    5

    Signore, si fermi! Ho un’arma! intimò la voce alle sue spalle. Sì, la voce era proprio quella di una donna, la cosa non significava nulla per Roberto ma sembrava della massima importanza per il pensiero disciolto in lui.

    Si lanciò verso la scala mobile. Un punto rosso rubino apparve sulla maglietta di una ragazza davanti a lui. Spintonò e scivolò tra la folla. Aveva una sensazione. Non era sua. Era dell’anima che ospitava. Chi lo inseguiva non avrebbe sparato tra la gente. Non avrebbe rischiato di colpire le donne che affollavano la scala mobile. Quella sensazione aveva il sapore della certezza, anche se si trattava di un gusto diverso da quelli che lui conosceva. Si trattava di una certezza come la sentiva una sedicenne con voglia di nuove esperienze ma responsabile, una ragazza che ogni mese spediva i soldi al villaggio dove viveva la famiglia. Roberto aveva scambiato poche frasi con lei. Non gli era sembrata così addentro alla conoscenza degli esseri umani che non fossero lei stessa. E anche in questo l’avrebbe detta muoversi con grande approssimazione.

    Invece la ragazza aveva ragione. La donna non sparò. La gente di fronte non si tolse di torno e lo coprì. Anche questo sapeva la sedicenne. E pensare, si disse Roberto, che era poco più che una bambina.

    Scavalcò il mancorrente. Si resse al nastro mobile, pendendo esternamente alla scala. Da quella posizione non vedeva la sua inseguitrice, né poteva essere visto da lei, ma i rinforzi lo stavano già attendendo al pian terreno. Oscillò e si lasciò andare. Atterrò sulla rampa di scale che, a metà percorso, incrociava il tragitto della scala mobile, un paio di metri più in basso. Sulla rampa di scale c’era meno gente che sulla scala mobile ma l’inseguitrice non avrebbe sparato ugualmente, almeno così gli diceva il pensiero che portava sciolto nel suo sangue. Scese di corsa gli scalini e si diresse verso l’uscita di sicurezza. Non udì spari, avvertì alcuni ordini perdersi nelle musiche del centro commerciale e fu tutto. Si trovò in strada e il caldo lo avvolse.

    6

    Attraversò alcune vie che, a prima vista, secondo le mappe e il buon senso, erano vicoli ciechi. Per chi invece quei luoghi li conosce, quelle vie senza uscita erano piene di passaggi. Magari attraversi la cucina di un ristorante, con i cuochi e i camerieri che sembrano non vederti neppure passare tra le pentole, e magari davvero non ti vedono, ma probabilmente sì. Oppure cammini in un vicolo e a un certo punto attraversi un soggiorno o un luogo che potrebbe essere un soggiorno, con un televisore acceso e i bambini seduti davanti, cani di mezza taglia acciambellati che si grattano, e subito oltre trovi la strada accanto, tanto vicina che non sai se sia dentro o fuori quel soggiorno. A Bangkok non c’è una linea precisa che delimita gli interni dagli esterni.

    Roberto proseguì in un vicolo tra due file di case sempre più ravvicinate e trovò il passaggio ingombro di pile di pentole da lavare, mastelli di plastica, una moto con un gatto addormentato sulla sella. Si asciugò il sudore dalla fronte e si guardò attorno, strizzando gli occhi nella luce. Dietro le case di legno, oltre la bandiera thailandese stinta che sventolava su un balcone, i grattacieli risplendevano nel sole, gelidi, distanti. Le gru pendevano immobili sui grattacieli a venire. Improvvisamente due donne uscirono da un portone reggendo dei sacchetti di plastica. Poi ne uscì una terza. Roberto aprì il portone e attraversò un corridoio buio. Si trovò dentro un capannone che copriva un piccolo ring. Due giovani se le davano di santa ragione. Un giovane europeo stava imparando, o semplicemente subendo, la boxe thailandese, e lo faceva a suon di calci sulle gambe. Sicuramente pagava anche il suo allenatore. Uno che tira calci del genere lo può fare solo per denaro o per odio. E il giovane thailandese non sembrava odiare quel farang. Anzi, gli sorrideva. E poi chi calcia per odio smette molto prima. Roberto costeggiò il ring seguendo gli altri passanti e raggiunse il vicolo adiacente.

    Nella strada il calore scendeva dall’alto, ma non era il sole, era il calore appiccicoso rovesciato dagli enormi condizionatori appesi sotto i davanzali. Raggiunse il corso, dove le auto spostavano ondate roventi, e alzò gli occhi al viadotto dello sky train. Un convoglio scivolò sulla ferrovia sopraelevata. Roberto immaginò l’aria gelida dietro i vetri scuri dei finestrini. Gli parve impossibile che tanto freddo potesse essere racchiuso in quelle vetture. Tuttavia non poteva rischiare la vita per un po’ di aria condizionata, si disse. Invece di salire sullo sky train proseguì a piedi e infine prese il battello che percorreva il khlong Saen Saep. Sapeva che lì non avrebbe trovato sensori a spiarlo. Anche la sua ospite lo sapeva.

    7

    Il khlong Saen Saep è un canale di acqua maleodorante che attraversa Bangkok. Si tratta della via di trasporto più rapida tra la città vecchia e la città moderna. Roberto salì sulla sottile lancia a motore. La lancia partì e due ali di acqua nera si sollevarono ai lati. Sulle sponde del khlong si susseguirono muri, condizionatori enormi, banchi del mercato addossati gli uni agli altri, passerelle, case di legno con le pentole appese sui balconi, lo spazio interno aperto, con la gente che mangia, gioca, dorme in un luogo che non è la stanza, non è il cortile, non è la strada ma è un po’ di tutto questo messo assieme. Dietro alle case di legno intravide la sagoma dei grattacieli, le torri di vetro e metallo delle banche e i padiglioni dei centri commerciali, poggianti su un altro mondo, non sulle fondamenta d’acqua di quello su cui stava scivolando. Roberto pensò che sarebbe stato difficile segnare su una carta i luoghi che stava attraversando, per rintracciarli, per ritornarvi: era come se fossero esistiti soltanto nel tracciato rapidissimo che compiva quella lancia. Si trattava di una topografia strana, che si sarebbe sovrapposta solo parzialmente a quella riscontrabile dagli altri mezzi di trasporto. Si trattava della geografia di una città che probabilmente non esisteva così come esistono Roma, New York o Bangkok. Roberto si sentì scomparire in quel paesaggio che non trovava spazio su nessuna mappa, si lasciò cullare dalla vibrazione del motore. Osservò il bigliettaio che camminava sul bordo e indossava un elmetto per proteggersi dall’urto dei ponti che gli volavano incontro. A tutta prima non capì chi gli ricordasse quell’andatura. Poi si accorse che quel bigliettaio ricordava un compagno di giochi della ragazzina. Roberto lo vide chiaramente che si chinava in avanti e gettava una manciata di biglie sulla strada sterrata, accecata dal sole. Pensò che non gli assomigliava affatto. Solo quel gesto di tenere le biglie nella mano richiamava quello con cui il bigliettaio stringeva le monete. Tuttavia era l’amico d’infanzia quello che camminava sul bordo della lancia. Roberto gli porse dieci baht, che quelle dita strinsero come se si fosse trattato di una biglia. Poi chiuse gli occhi e si godette il vento. Anche la sua ospite sembrava apprezzare quella calma e la sua voce risuonava in lui come il rumore continuo e piacevole di una folla lontana, e lui non si curava di

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