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Il bar Aurora. Cronache di vite sospese
Il bar Aurora. Cronache di vite sospese
Il bar Aurora. Cronache di vite sospese
E-book156 pagine1 ora

Il bar Aurora. Cronache di vite sospese

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Info su questo ebook

Le cronache di vite sospese sono una specie di Antologia di Spoon River, infinitamente minore, ma che rende voce a chi non c'è più e che, senza questo schedario, sparirebbe per sempre. Il Nando, il Pollo, il Caioffa, il Cinquini, il Ciapetti, il Tani, il GluGlu, il Carnera, il Tartaglia, il Pancino, non sono solo personaggi e frequentatori di un bar, ma sono storie che sovrapposte ad altre fanno la storia di un paese. E fanno storie di resistenze umane. La narrazione è tesa a tenere in vita un passato remotissimo, così come il mondo che è stato quel bar di Castelnuovo di Garfagnana, che non esiste più, ma che allo stesso tempo ci sarà per sempre, in bilico tra una realtà finita e un ricordo incancellabile. Il Bar Aurora alla fine diventa un non luogo dove raccontare le umanità di un paese della Garfagnana, che però potrebbe essere la periferia di Roma negli anni settanta o quella di un paesotto della pianura padana.
LinguaItaliano
Data di uscita13 lug 2022
ISBN9788832281583
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    Anteprima del libro

    Il bar Aurora. Cronache di vite sospese - Pierluca Rossi

    Copyright

    © Argot edizioni

    Lucca, luglio 2022

    ISBN 9788832281323

    www.tralerighelibri.it

    Epigrafe

    Dove sono Elmer, Herman, Bert, Tom e Charley, l’abulico, l’atletico, il buffone, l’ubriacone, il rissoso?

    Tutti, tutti, dormono sulla collina.

    Antologia di Spoon River, Edgar Lee Masters

    Prefazione di Lorenzo Salvia

    C’è il Nando, il barista naturalmente filosofo. C’è la moglie del Nando, Chiappe secche, che tutti sbirciano da dietro le carte. Ci sono il Filone, re incontrastato della bestemmia, e il tenente degli alpini morto per un’infezione dopo essersi cavato un callo con le pinze da elettricista. Le facce e le storie del Bar Aurora di Castelnuovo Garfagnana sono le facce e le storie di quel grande bar di paese chiamato Italia. Sembra di sentirlo l’odore di vernice, di donne e di velocità dell’Alfa Giulia 1300 doppio carburatore dell’Enio. E, purtroppo, pure quello del Gallinaio, la 124 del Pippo, che in tutta la sua (dis)onorata carriera non deve aver mai incontrato un autolavaggio.

    Quello seduto ai tavoli del bar Aurora è un mondo tenero, dove i Longin li trovi solo dal Brogin, slogan da era pre marketing che però deve aver funzionato benissimo. Un mondo spietato, ma senza cattiveria, dove il venditore di santini, bassetto e magro, sopporta con pazienza il suo nomignolo, il Carnera. Un mondo dove sono tutti uguali davanti al biliardino o alle carte, dove il contadino può dire senza problemi Dottore lei è un imbecille. Un mondo meritocratico ma senza retorica, democratico ma senza politichetta. Un mondo vero, fatto di carne e sangue.

    Quando in un Paese si apre un vuoto di futuro la nostalgia è sempre un balsamo affidabile. Non è il caso di queste pagine. Il Bar Aurora è anche nostalgia, certo. Ma è soprattutto sogno, l’invincibile sogno di un mondo migliore. Quello, come scrive Pierluca che non corre più di te ma ti sa camminare a fianco come un amico serio e premuroso.

    Lorenzo Salvia

    Giornalista del Corriere della Sera

    Una premessa

    Non tutti i personaggi di cui parlerò sono passati dal Bar Aurora. Alcuni per evidenti limiti anagrafici, essendo vissuti prima, altri perché persi in chissà quale tipo di vita, ma l’Aurora è stato la sintesi, la summa, di un modo di vivere e di pensare e, se ne avessero avuto modo, tutti quanti si sarebbero fermati lì, per un bicchiere e due risate. Proverò a dipingere un affresco non richiesto dove potrà sopravvivere tutto un mondo che rischierebbe di scomparire, e quello sì che sarebbe un peccato. La carta ha più forza della memoria, perché non è legata alle persone. Si tramanda da sola e, se a qualcuno venisse in mente di aprirne le pagine, un mondo intero potrebbe saltare fuori, anche se nessuno lo richiede. Una specie di Antologia di Spoon River, infinitamente minore, ma che rende voce a chi non c’è più e che, senza, sparirebbe per sempre. Non so perché mi metto a fare questo. Forse la mia invincibile malinconia, quella che, insieme ai sogni, ha guidato tutta la mia vita. Forse il desiderio di tenere in vita un passato remotissimo, così come il mondo che è stato il Bar Aurora, che non esiste più e che ci sarà per sempre, in bilico tra una realtà finita ed un ricordo incancellabile. Mi fa piacere tornare là e tornare a quegli anni felici. Tanta gente percorre il Cammino di Santiago di Compostela. Da buon anarchico scelgo il mio personale pellegrinaggio.

    Oggi il Bar Aurora è diventato un ufficio di non so cosa.

    Le poche volte che ci passo accanto cerco di tenere lo sguardo ostinatamente fisso in avanti.

    Giuro che se avessi avuto i soldi l’avrei comprato per lasciarlo com’era.

    Mi spaventa un po’ questa mia ansia di cristallizzare tutto, di fare di ciò che ho vissuto una specie di museo chiuso al pubblico. Non si tratta di sana nostalgia, quanto del tentativo perdente ed aristocratico di giocare una mano di poker col destino sperando che lui si spaventi del mio bluff fin troppo scoperto e questo gli instilli quel dubbio che potrebbe farlo lasciare.

    Una possibilità su mille, ma in quello sono un esperto.

    Il Bar Aurora però non l’ho comprato e queste pagine sono il tentativo di averlo, comunque, sempre per me, così come di avere quella giovinezza che ti è data solo una volta e sempre troppo presto.

    Non si arrivava per caso al bar Aurora.

    Bisognava attraversare la piazza principale del paese e resistere alle lusinghe dei bar alla moda, quelli con i tavolini fuori. Bisognava infilarsi in una specie di tunnel da cui passava a malapena una sola macchina a senso unico, e trovare la porta senza insegna, sulla sinistra.

    Bisognava, prima, passare dai bar che segnavano la tua crescita. Per me il Settebello, detto il bar dei sette briachi sotto casa, poi il bar della Maria, in piazza Marionetti ed infine, ma solo all’ultimo e solo dopo aver passato anni ad imparare a giocare a briscola e a biliardino, potevi arrivare là, al bar Aurora, l’università, mondo ultracompetitivo sotto ogni aspetto. Al Settebello oltre ai gestori, c’era anche il loro nonno, un tipo buffo soprannominato il Bracco e a cui chiedevano se quel giorno si fosse messo la protesi da carne o da ossa.

    Credo che i proprietari fossero stati emigranti in Australia e poi, con i risparmi, avessero deciso di acquistare il bar, che è funzionante ancora oggi.

    I ghiaccioli costavano 50 lire e li succhiavamo fino a che non diventavano tutti bianchi. Nostalgia? Ma certo, se non altro, come dice Guccini, per aver tutto per possibilità.

    Non si può capire il Bar Aurora se non si sa cosa sia la ralla.

    Dicesi ralla quel particolare aspetto della convivenza umana, che in Toscana viene portato all’esasperazione, attraverso il quale si cerca di far rompere chi viene preso di mira. In pratica si prende in giro il soggetto cercando di farlo arrabbiare e reagire. Se lo fa ha perso. Al concetto di ralla va anche associato un precetto riassumibile in tre parole ed una vocale: addosso a chi perde. In questo modo si misurava la caratura dell’uomo e se ne forgiava il carattere sociale, la sua capacità di stare con gli altri senza esserne sovrastati, pur facendo parte del gruppo. Anarchia individuale dentro ad un mondo fatto di regole non scritte, ma metabolizzate.

    Formidabile strumento di crescita per i ragazzini che, per destino e vocazione, e per misteriosi motivi, attraversavano la piazza senza fermarsi agli altri bar e si facevano membri di una setta particolare, che non aveva regole scritte, ma delle indicazioni eteree anche più stringenti delle altre.

    Ti ci dovevi ritrovare come dentro ad un guanto che non avresti mai creduto possibile potesse esistere, a cominciare dai suoi principi basilari, il primo dei quali era l’affermazione perentoria e lapidaria che spiega bene lo spirito leale, ma ultracompetitivo, che vigeva al bar Aurora: chi perde non cojona. Se non sei quello che prevale non hai diritto di prendere in giro, e devi subire. Una pace armata, una contraddizione vivente che potevi riconoscere solo se te la portavi dentro.

    Ognuno aveva qualcosa da dare e poteva farlo senza obblighi e tempi determinati. Ci sarebbe stato comunque un altro giorno o un’altra sera e quindi nessuna ansia da prestazione.

    Intanto cominciamo col dire che non c’erano donne col permesso di varcarne la soglia, se si eccettua l’Anna, moglie del Nando, che il Tondo chiamava, e non a torto, chiappe secche, nonostante avesse un gran fisico, e pochissime altre.

    Le donne facevano parte del mondo là fuori, anche se erano citate e rammentate di continuo, specie in racconti esagerati a cui nessuno credeva davvero, ma che tutti ascoltavano crescere ed espandersi ogni volta che venivano ripetuti.

    I racconti, parte essenziale della vita del bar, avevano un loro schema mai codificato, ma ben preciso. Si partiva con uno a caso e poi ognuno ci metteva la sua parte: un ricordo, un’invenzione, un’esagerazione, che ne entravano a far parte ed erano la base di partenza della volta successiva in cui quel racconto sarebbe spuntato fuori di nuovo. Il risultato, nel tempo, era quello di una saga mitologica con tanto di dèi e delle loro avventure.

    Non si trattava tanto di misoginia non ammettere le donne, quanto del fatto che,

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