Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

KRUGÄN - L'origine delle razze
KRUGÄN - L'origine delle razze
KRUGÄN - L'origine delle razze
E-book450 pagine6 ore

KRUGÄN - L'origine delle razze

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Diciotto anni dopo la battaglia contro il demone, Harith è sotto il dominio di Mograt, Lith è stata invasa, e come se non bastasse Enan torna a calcare le terre di Arset, evaso dalla prigionia millenaria. Ma è proprio dal continente di Lith che si alza una fiera resistenza: è qui che Èrance fa ritorno dal passato, la ricerca della sua parte mancante in quest'epoca di guerra e di incertezza lo porta a confrontarsi con la propria natura di krugän, svolgendo la matassa del tempo fino ad arrivare alle Ere del Mito e della Creazione, e ancora più indietro. Cacciatori di Dei, un Folle e una bambina senza nome, e l'amore che segue l'inaspettato.
I continenti perduti vengono ritrovati e antichi artefatti bellici fanno ritorno sui campi di battaglia. Terribili verità sono sul punto di essere rivelate ad un mondo forse non ancora pronto...
LinguaItaliano
Data di uscita21 ott 2015
ISBN9788892509788
KRUGÄN - L'origine delle razze

Leggi altro di L. A. Beaver

Correlato a KRUGÄN - L'origine delle razze

Ebook correlati

Fantasy per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su KRUGÄN - L'origine delle razze

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    KRUGÄN - L'origine delle razze - L. A. Beaver

    noi.

    CAPITOLO 1°

    ILITHRA

    «Sembra una città» disse Garel.

    «Di certo lo sarà stato una volta» aggiunse Lam.

    Un cielo grigio e scuro illuminava con brecce dorate un’imponente distesa di edifici erosi dal tempo e sottomessi alla natura selvaggia. Strade di steppa, vie otturate da intrecci di rovi, palazzi che si ergevano a fatica, piegati dallo scorrere dei secoli. Torri dalle mille finestre che s’innalzavano verso il cielo, memori di una gloria passata, macerie dappertutto, e ancora rottami d’ogni genere ormai arresi al decadimento. Nell’aria solo il sibilare del vento e l’odore acre della polvere e della cenere.

    Tre persone misero piede in quel luogo desolato.

    «Dove credi che sia?» chiese Kell.

    «Purtroppo non lo so ancora con precisione» fece Garel.

    «L’altra volta ci abbiamo messo quasi tre giorni per trovare l’ingresso» aggiunse Lam.

    Garel, il capo del trio, era un uomo dai chiari lineamenti elfici, ma più induriti e tozzi, più basso e con la corporatura più massiccia rispetto allo standard elfico, e il viso era ricoperto da una folta barba bruna dai riflessi rossastri; indossava una lunga giacca di cuoio nero, pantaloni e stivali della stessa tinta. Degli altri due Kell era più smilzo, portava capelli neri e lunghi, legati e raccolti da un laccio, Lam aveva invece corti capelli biondi e crespi; entrambi portavano la stessa armatura di cuoio leggera color marrone scuro, tendente al rosso, stessi pantaloni grigio scuro, stessi stivali neri; l’unica cosa che differiva era il mantello: rosso per uno beige per l’altro.

    Kell si guardò intorno in cerca di qualcosa. «Non mi sento tranquillo…»

    «Che cos’è che senti, Kell?» chiese Garel.

    «È come se qualcuno ci stesse osservando…»

    «Non dargli retta, Garel, l’ultima volta che Kell ha avuto queste sensazioni siamo rimasti nascosti in una caverna un giorno intero per un solo cervo, e un’altra volta abbiamo marciato senza sosta un giorno e una notte per non si sa bene cosa, un’altra ancora…»

    «Ma in altre occasioni ha avuto ragione» lo interruppe Garel.

    «Quante? Una, due?»

    «Se è successo anche solo una volta può succedere di nuovo. E io non voglio trovarmi impreparato!» fece Garel.

    – Ma affidarsi a un vero mago, no eh? – pensò Lam preferendo non continuare la discussione, perché dopotutto erano in territorio ostile.

    «Ma non abbiamo raccolto abbastanza informazioni?» chiese Kell «Dovremmo tornare a Dûm-Danar, che stai cercando in questa città fantasma?»

    «Te l’ho già detto… la tavola» disse Garel.

    «La tavola…? Che tavola?»

    «Lui non c’era quando l’hai detto a me» intervenne Lam.

    «Ma Rock lo sa di questo?»

    «Sì, sì, è tutto a posto» aggiunse Lam.

    «Nella sala della Forgia di Vulkenör ho visto una tavola, i nani hanno detto che è sempre stata là, anche se di sicuro non è stata fatta da un nano. Quando mi sono avvicinato l’Oloster, si è illuminato e sono stato in grado di leggerne l’iscrizione incisa: ‘Non fidatevi di loro, la verità è un’altra’. Non so…»

    «Loro? Loro chi?» lo interruppe Kell.

    «Non so a chi si possa riferire l’iscrizione. Non penso siano i nani, ma qualcosa mi dice che questa è solo una parte di un messaggio più grande. Devo sapere, devo trovare le altre tavole»

    «Ma…»

    «Non ti preoccupare, non sto andando a caso: l’Oloster ne segnala una in questa zona, come segnalava quella a Tharak-Nâr»

    «Se l’Oloster segnalav…»

    «L’Occhio di Sutra entra in funzione solo quando lo uso io, per gli elfi era un artefatto divino conservato gelosamente fra i loro tesori, ma in realtà non sapevano neanche a cosa servisse e come poterlo utilizzare!» rispose Garel di anticipo. «È anche per questo che sono convinto che il messaggio inciso sulla tavola sia destinato a me, qualcosa legato al potere che mi sono trovato fra le mani all’improvviso»

    Percorrendo le vie e attraversando le piazze, gli edifici di roccia scorrevano ai loro lati come spettri.

    «Effettivamente c’è qualcuno qui intorno…» disse Garel continuando tranquillamente a camminare, Lam lo guardò allarmato «sono una ventina di goblin. Probabilmente ci seguono dagli scontri al fiume»

    «Hanno così tanta voglia di farsi ammazzare?» disse Lam.

    «Certe volte la follia diventa audacia e l’incoscienza un punto di forza… e forse questo fa parte della loro natura. Ne ho visto uno sgattaiolare tra le macerie di quel palazzo!»

    «Sono proprio quei mostriciattoli…» disse Kell con una punta di sollievo.

    «Anche se sono goblin, non possiamo permetterci di avere questo codazzo appresso!»

    «Già!» disse Lam. «Troppo movimento attira l’attenzione»

    «Cosa vuoi che facciamo, Garel?»

    «Continuiamo per la nostra strada, Kell appena puoi tirane giù uno, gli altri salteranno fuori da soli»

    Con naturalezza Kell prese il suo arco di corno che portava legato allo zaino, impugnandolo saldamente con la mano sinistra.

    «Kell, sul cornicione!»

    «Sì, l’ho visto…» disse, e con un unico e fluido movimento prese una delle frecce della sua faretra e la scoccò quasi senza prendere la mira. La freccia volò dritta e rapida, trapassando il piccolo collo del goblin, che cadde dal cornicione sfracellandosi sul selciato della strada, invaso dall’erba.

    «Venite fuori mostriciattoli…» mormorò osservandosi intorno «sono qua che vi aspetto!»

    «Sembra che dovremmo stanarli uno per uno» disse Lam.

    «Andiamo, meglio non fermarsi troppo a lungo» disse Garel, riprendendo il cammino, Lam lo seguì a ruota, rimanendo qualche passo alla sua sinistra, mentre Kell, che aveva un po’ indugiato a osservare il profilo delle rovine, era rimasto un po’ arretrato. I tre proseguirono con cautela per un centinaio di passi lungo la strada, poi il muro di un edificio alla destra di Kell andò in frantumi, investendolo di polvere e calcinacci. D’istinto si coprì il volto, e non vide chi ne uscì caricandolo con un khalâg, l’enorme ascia da guerra usata dall’Orda. Come fosse stato un segnale, sedici goblin uscirono dai loro nascondigli tra i ruderi, fiondandosi sui tre.

    «Voi pensate a loro!» disse Garel a Lam chiudendo l’occhio sinistro «Khagrämdhüma knäe, kizhîm jaari, khagräm kirôh» disse secco, il tatuaggio sotto il suo occhio destro ben spalancato, s’illuminò leggermente, come anche quello di Kell, e la loro posizione si invertì all’istante.

    «Kell, arrivano i mostriciattoli!» lo avvisò Lam. Quello si sgrullò la polvere di dosso e incoccò la freccia destinata al primo di loro.

    Garel parò la pesante mazzata dell’orco con il dorso del braccio, protetto dalla barriera energetica, ma il resto del corpo non era ancora preparato allo scontro, e il mezz’elfo digrignò i denti per lo sforzo.

    «Hai avuto la tua occasione, orco…» disse Garel accorgendosi che la barriera aveva avvolto tutto il suo corpo come un’armatura trasparente «ora tocca a me!» scostò l’ascia a destra con la mano sinistra, e con una mezza torsione colpì lo stomaco dell’avversario con una potente gomitata, e poi subito appresso, un montante destro sotto il mento fece barcollare l’orco all’indietro. Due goblin gli saltarono addosso prendendolo alle spalle, piccole lame con cui erano armati risultarono totalmente vane contro la barriera energetica. Garel cercò un paio di volte di sgrullarseli di dosso, ma senza successo, poi riuscì ad afferrarne uno per una gamba, l’altro per un braccio, e li lanciò per aria come se fossero due pupazzi. Con rapido movimento posizionò le mani come se stesse incoccando una freccia su un arco trasparente: un dardo luminescente comparve allungandosi, pizzicando un punto della barriera energetica. Prese d’istinto la mira e lasciò partire la freccia di energia, che come una saetta vibrò nell’aria trafiggendo entrambi i goblin, che caddero a terra occhi sbarrati e lingue penzolanti, a pochi passi da Lam e Kell.

    I due compagni di Garel combattevano in coppia: Kell si occupava degli avversari a lunga-media distanza, Lam invece colpiva con i suoi lunghi coltelli ricurvi, tutto ciò che era troppo vicino per le frecce. Questa era una tecnica che i due avevano sviluppato nelle battaglie contro l’Orda nel continente di Lith. Di certo poco adatta per una battaglia ordinata e compatta, ma efficace nella guerriglia e le imboscate, o nelle mischie caotiche.

    Lam sentì sibilare una freccia vicino al suo orecchio destro, e un altro goblin cadde a terra. Kell vide roteare il compagno intorno a lui, tirare un calcio sul ventre di un avversario e piantare i due coltelli tra le clavicole di un altro che si era avvicinato troppo.

    Entrambi si voltarono di scatto percependo qualcosa entrare bruscamente nel loro campo visivo, e videro l’orco volare via, rovinando sulla strada, al centro di un incrocio.

    «Avrà fatto arrabbiare Garel…» disse Kell.

    «Però… ha la pellaccia dura!» disse l’altro vedendo che, seppur a fatica e barcollando, l’orco si era rimesso in piedi.

    «Forse ha…» Kell non riuscì a terminare la sua frase, che, veloci come un morso di un serpente, due enormi fauci color ruggine agguantarono il soldato dell’Orda sbucando dalla traversa a destra dell’incrocio. Il possente drago fece un paio di passi in avanti rendendosi visibile fino alle zampe anteriori. Con uno scatto verso l’alto della testa, aprì la bocca, e lanciò in aria la sua preda, riafferrandola al volo subito dopo. Sgranocchiò il boccone due o tre volte allo stesso modo, poi lo ingoiò.

    I tre erano rimasti imbambolati da quell’improvvisa entrata in scena, non si erano neanche accorti che i goblin si erano dati a una fuga isterica non appena avevano avvistato il grande animale. Il drago avanzò ancora, arrivando al centro dell’incrocio, ora erano ben visibili le ali ripiegate sui fianchi e la lunga coda che sferzava l’aria dietro di lui. Le piccole squame erano color ruggine, ma in alcune zone creavano riflessi color ghisa, soprattutto nella zona adiacente alla cresta dorsale, dove le scaglie ossee erano di quello stesso colore.

    «Come nelle leggende!» mormorò Garel con il cuore colmo di gioia per aver visto un esemplare così grande.

    Il rettile si accorse dei tre piccoli uomini che lo fissavano, i suoi occhi intelligenti li studiarono brevemente, poi gonfiò il torace. Garel capì al volo cosa avrebbe fatto, ma Kell e Lam erano ancora incantati dall’imponente essere mitologico. «Khagrämdhüma knäe, kizhîm jaari, khagräm kirôh» disse, sostituendosi appena in tempo a Lam, che era il più vicino al drago.

    Un torrente di fuoco si riversò sulla strada, andando a impattare prima contro la barriera di energia eretta da Garel, quindi sugli edifici a lato, carbonizzando tutta la vegetazione presente. Pali di metallo che spuntavano dalla strada si arroventarono e in alcuni casi si piegarono per il loro stesso peso.

    Il drago terminò la soffiata con un ultimo impetuoso impulso, e indispettito dall’inefficacia del suo attacco, cacciò un fragoroso ruggito, che fece tremare tutte le rovine nei paraggi, e i tre si dovettero tappare le orecchie. Al frastuono seguì la calma e il silenzio più assoluto, anche il vento aveva cessato ogni movimento, come se fosse timoroso del grande rettile. Garel stava per disattivare la barriera per passare al contrattacco, quando vide la bocca del drago spalancarsi nuovamente verso di loro. Una grande sfera luminosa iniziò a condensarsi tra le fauci, scie di luce si proiettavano vorticando verso la sfera che aumentava di dimensioni.

    Il mezz’elfo spalancò gli occhi incredulo. «Questa è magia!» mormorò – La barriera non reggerà – pensò.

    Il drago lanciò il suo attacco e lui fu costretto a richiamare tutto il suo potere. La sfera crepitante di saette, che ne graffiavano la superficie, partì come un siluro, e colpì la barriera, deflagrando in un’esplosione che fece tramare il terreno, le scariche elettriche s’irradiarono istantaneamente dal punto d’impatto. Il palazzo a sinistra si riempì di crepe, mentre quello a destra, che era più vicino, cedette crollando per i danni strutturali riportati. Il polverone delle macerie che si era sollevato separò momentaneamente i due avversari, ma anche se il drago non lo vedeva, poteva percepire la sua energia, e rimase sorpreso. Sorpreso di sentirne l’imponenza, apprezzarne la natura e scoprirne l’antico profumo.

    Quando la polvere iniziò a depositarsi, il drago lo vide di fronte a lui. L’energia fluiva copiosa da ogni suo poro, convogliandosi in lingue di fuoco che serpeggiavano vorticosamente intorno al suo corpo, prima di sparire verso il cielo in sottili linee di energia rossa. L’aria intorno a lui ondulava arroventata. D’istinto il rettile emise un ruggito acuto verso il cielo, ma non di minaccia o di sfida, ma di affinità, di sintonia, di atavica nostalgia. Con un balzo improvviso spiccò il volo sollevandosi a spirale e continuò a ululare come se volesse gridare a tutto il mondo il suo stato d’animo.

    «Dove pensi di andare?» disse Garel, reso ancor più eccitato dal potere che aveva lasciato libero di pervadere il suo corpo, e che aveva esteso ai limiti estremi i suoi istinti di cacciatore. Calcolò con precisione il punto di arrivo, stimando la rotta e la velocità del drago, quindi si teletrasportò sul suo dorso. Si afferrò alle grosse scaglie della cresta dorsale per resistere all’urto dell’improvviso cambio di velocità. Il grande rettile era salito quasi in verticale, continuando a lanciare i suoi gridi, e quando si accorse di avere qualcuno sul dorso non se ne curò, ma aumentò la velocità. I palazzi e le rovine precipitarono sotto di loro, divenendo sempre più piccoli, fino a quando Garel non riuscì a vedere l’antica città per la sua interezza. E si sorprese meravigliandosi di quanto potesse essere immensa sotto il telone di nuvole grigie che si apprestavano al tramonto. Il drago si fermò, e Garel sentì il suo torace espandersi e i polmoni gonfiarsi, infine il rombo gorgogliante del torrente di fiamme che vomitò in cielo in una grande colonna rossa che sembrava reggere le nuvole e il cielo. Poi la forza di gravità si riappropriò dell’animale, che riassettò le ali e si abbassò di quota in volo planato. Si diresse a nord-ovest, sbattendo di tanto in tanto le grandi ali membranose, per mantenere la velocità.

    Garel voleva approfittare di quel momento di volo tranquillo per sottomettere la sua preda, ma non lo fece, perché la meraviglia mise a tacere l’istinto. Tutto intorno a loro, infatti, si stava sollevando in volo ogni genere di drago che si era annidato fra le rovine della città, altri giungevano dalle regioni selvagge appena oltre gli ultimi edifici, e altri ancora già si profilavano all’orizzonte, provenienti dalle regioni vicine. I suoi occhi di elfo li vedevano chiaramente, in poco tempo si ritrovò in mezzo a un enorme, fluido ed eterogeneo stormo di rettili. Gruppi numerosi di piccoli draghi volavano sincroni salendo di quota, per poi riscendere in picchiata serpeggiando tra i loro simili più grossi, dal volo più lento e regolare. Draghi di medie dimensioni gareggiavano a gruppi di tre o quattro, in sfide di velocità, destreggiandosi in acrobazie ed evoluzioni aeree, picchiate vertiginose e brusche virate. E tutto era un ruggire e batter d’ali, un andare e venire, un salire e scendere, un girare e ancora girare: l’intero stormo era una fitta macchia nel cielo che cambiava forma continuamente, ma che manteneva il suo baricentro sulla torre più alta della città.

    «La tavola…» mormorò Garel fissando la torre «è qui!»

    Come se avesse capito le sue parole, il drago virò a sinistra scendendo di quota, e planò fino a una terrazza sporgente della torre, dove atterrò comodamente sbattendo con forza le ali. Garel si lasciò scivolare sul fianco del grande animale, atterrando sui lastroni di pietra della terrazza. Interruppe il flusso del suo potere e l’energia smise di pervadere il suo corpo. Il drago perse interesse, e tornò a unirsi allo stormo, lanciandosi lateralmente nel vuoto.

    Il mezz’elfo si passò le mani fra i capelli, che vennero subito scompigliati dal forte vento, poi si pulì e si risistemò i vestiti. Frugò qualcosa nella tasca destra della sua giacca, e ne tirò fuori un oggetto circolare, metallico, che aveva incastonata una pietra larga e piatta, scura e vitrea. Il cacciatore tastò rapidamente l’artefatto in diversi punti, e la pietra s’illuminò nel suo punto centrale.

    – È veramente qui… – pensò – devo recuperare gli altri due! – rimise l’oggetto nella tasca e si concentrò il tanto che bastava a individuare Lam.

    «Khagrämdhüma knäe, kizhîm jaari, khagräm kirôh!» disse chiudendo l’occhio destro, il tatuaggio intorno a quello sinistro s’illuminò: all’istante Lam si ritrovò sulla terrazza della torre, mentre Garel aveva preso il suo posto.

    «Ho provato a usarlo al contrario, ma…» Kell s’interruppe trovandosi davanti Garel al posto di Lam.

    «Ho trovato la tavola» disse il mezz’elfo «Khagrämdhüma knäe, sënhèini nomnìr, khagräm kirôh!» E scomparve nel nulla. Kell guardò il punto in cui un attimo prima c’era Garel. «Odio quando usa la sostituzione così» mormorò, un istante dopo il suo tatuaggio s’illuminò e nella strada rimase solo il cacciatore, tornando deserta subito dopo.

    Quando Garel riapparve sulla terrazza, Kell e Lam stavano ammirando lo stormo mutaforma di draghi che però si stava dissolvendo scemando piano piano.

    «Dalle mie parti una cosa del genere la fanno grandi stormi di uccelli, non sapevo che i draghi avessero lo stesso comportamento» disse Kell.

    «In realtà non sappiamo quasi nulla dei draghi, fino a poco tempo fa appartenevano alla leggenda» disse Lam.

    «Presto si dissolverà del tutto: da quando ho interrotto il flusso non esiste più il motivo della loro frenesia» disse il mezz’elfo.

    «Mi chiedo con cosa si sfama questa enorme quantità di bocche!»

    «Queste rovine sono meno abbandonate di quanto sembra» disse Garel «probabilmente chi ci ha attaccato prima non ci aveva seguito, ma era già qua e ci ha visto entrare in città»

    «Vuoi dire che…»

    «Molti palazzi sono ancora in piedi, e non escludo che si possano nascondere anche sotto terra, al riparo dai draghi»

    Kell si voltò a fissare il grande arco che sovrastava l’ingresso alla terrazza. «Quindi anche questa torre…»

    «Sì, è probabile che sia abitata»

    «Fra l’altro si è fatta sera, dobbiamo trovare un posto dove accamparci» disse Lam.

    «Direi di toglierci dalla terrazza, con i draghi in giro, è di certo esposto e poco sicuro. Esploriamo questo piano della torre, passeremo la notte nel posto più protetto» gli altri due annuirono.

    Garel accese un huki, la luce della lanterna s’irradiò intorno a lui, ben visibile nonostante il rosso del tramonto fosse ancora acceso. Fece un cenno con la testa e insieme oltrepassarono l’arco d’ingresso alla terrazza. Un grande salone occupato solo da calcinacci e macerie fu il primo ambiente che attraversarono, l’ultimo a scorgere la luce del sole morente. Vennero inghiottiti dal buio. Le altre stanze del piano erano fondamentalmente tutte uguali, quadrate o rettangolari, poche avevano qualche sorta di mobilio arrugginito e divorato dal tempo, la maggior parte erano rimaste senza porta, e tutte erano colme di polvere, sporcizia e ragnatele.

    Individuarono a nord-ovest una rampa di scale che conducevano ai piani inferiori e superiori, e da entrambe le direzioni non proveniva alcun rumore oltre al sibilo del vento. L’edificio sembrava apparentemente tranquillo, almeno al livello in cui erano.

    Scelsero la stanza più al riparo dalle correnti d’aria, Garel fissò dei picchetti dalla testa sferica e lucida, all’ingresso della terrazza e all’imbocco delle scale – Perfetto – pensò – non mi sfuggirà neanche una pagliuzza!

    Quando raggiunse gli altri due, trovò la porta della stanza semi-ostruita da pietre e barre di ferro arrugginite.

    «Non c’era bisogno di murarsi vivi qui dentro!» disse oltrepassando un po’ a fatica l’apertura.

    «Così potremo difenderci meglio in caso di attacco» rispose Kell.

    «O rimanere bloccati come topi in trappola!» disse Garel.

    «Non vi preoccupate» aggiunse accorgendosi della loro frustrazione «se qualcuno si dovesse avvicinare alle scale o alla terrazza, lo verrei subito a sapere»

    «Hai usato quegli aggeggi che ti hanno dato gli elfi?» chiese Lam.

    Lui annuì. «Faranno la guardia al posto nostro: questa notte dormiremo tranquilli!»

    Una luna piena brillava a notte fonda, nel mezzo di un cielo stellato privo di nuvole. I draghi erano tornati alle loro tane ormai da tempo, lasciando posto al volo disordinato dei pipistrelli.

    Garel fu svegliato di soprassalto da uno dei picchetti di rilevazione. «Lam! Kell!» chiamò i due compagni strattonandoli. «Oh, sveglia!»

    Lam fu il primo a destarsi e d’istinto portò la mano alla spada che teneva al suo fianco.

    «Che c’è, che succede?» disse Kell un po’ agitato.

    «Sssshh!» fece Garel «Preparatevi armi alla mano, qualcuno o qualcosa ha fatto scattare i picchetti!»

    «Dove?» chiese Lam tirandosi su di scatto.

    «Alle scale»

    «Stanno venendo qua?»

    «Questo non lo so, prepariamoci a tutto!»

    Garel fu il primo a mettersi in piedi, la capacità visiva ereditata dai suoi genitori gli consentiva di vedere facilmente anche al buio. Si affacciò al corridoio, dove un po’ di luce lunare giungeva dalla terrazza.

    «Via libera!» sussurrò. «Faccio un sopralluogo, intanto preparatevi e accendete l’huki alla minima intensità» Scavalcò la piccola barricata che ostruiva la porta, quindi guardò con più attenzione a destra e a sinistra, accorgendosi di due puntini luminosi in fondo al corridoio, proprio all’imbocco delle scale.

    – Ne ero sicuro… – pensò, diede un’occhiata alle stanze che davano sul corridoio accertandosi che fossero deserte.

    Sguainò lentamente la spada e si avvicinò. La testa sferica dei picchetti era luminescente – Qualcosa li ha attivati… ma cosa? – si chiese – Ma soprattutto dov’è adesso?

    Fissò un momento i gradini che scendevano al piano inferiore, poi tornò alla loro stanza affacciandosi alla porta. Lam e Kell erano pronti ad aspettarlo. «Il nostro piano è libero» disse a bassa voce «ma effettivamente, qualcosa ha fatto scattare l’allarme, e non possiamo rimanere qui senza sapere con cosa abbiamo a che fare!» i due annuirono «Perlustreremo il piano di sotto e se necessario quello successivo, poi faremo lo stesso con quelli superiori. Io vado avanti, voi seguitemi a breve distanza, così evitiamo che la vostra luce venga avvistata»

    «D’accordo!» disse Lam.

    Il cacciatore si avviò e gli altri due uscirono in corridoio passandosi l’huki mentre scavalcavano la barriera eretta sulla porta.

    «Non andare troppo veloce o ti perderemo!» disse Kell senza alzare troppo la voce, ma non ebbe la sicurezza che Garel avesse ricevuto il messaggio.

    Quando arrivarono alle scale, i picchetti erano spenti.

    «Scendete, ma rimanete sulle scale» disse Garel affacciandosi dal piano inferiore. «Io proseguo»

    Il livello era sostanzialmente speculare a quello superiore: stesse stanze nelle medesime posizioni, stessa rovina, stesso abbandono. L’unica differenza era la terrazza, in corrispondenza della quale c’erano due stanze ovali e un colonnato che le separava.

    Garel aveva appena raggiunto il punto più lontano, quando Kell udì qualcosa nell’aria. «Lam, tu senti un rumore come di tamburi?»

    «Non mi pare… no» rispose quello.

    «Ecco… tum… tum… tum… lo sento arrivare da sotto… vieni qua» entrambi si affacciarono al piano successivo. «Ora li senti?»

    «Sì… tamburi… ora li sento anch’io» disse Lam «e stanno aumentando d’intensità»

    «Non vengono dal piano di sotto, sembrano provenire da più giù… aspetta qui un attimo!» Kell mollò la lanterna al compagno e inforcò le scale, scendendo veloce fino all’ultimo gradino, dove si bloccò. L’alone di luce dell’huki si fermava due passi dietro di lui – Non si vede nulla – pensò.

    «Kell!» mormorò.

    «Eh?»

    «Torna su!»

    «Qui non si vede nulla, ma i suoni provengono chiaramente da sotto»

    Lam fece per scendere, quando una mano lo bloccò per la spalla.

    «Che state facendo? Dovevate aspettarmi!» disse secco, ma sempre a bassa voce.

    «Senti i tamburi?» si limitò a dire Lam.

    Adesso che glieli aveva fatti notare, Garel li sentiva, e senza dire una parola scese al piano inferiore.

    «Provengono da sotto!» gli disse Kell.

    «Dobbiamo prima perlustrare questo piano, non possiamo lasciarci dietro zone non sicure!» rispose lui, poi chiamò Lam. «Aspettate qui e nessuna iniziativa personale!»

    Garel esaminò da cima a fondo, stanza per stanza, anche quel piano, che risultò essere deserto come gli altri, quindi tornò alle scale.

    «Venite quando vi chiamo» disse passando in mezzo ai due. Scese velocemente tutti i gradini, tranne gli ultimi due, dai quali si sporse per osservare il corridoio. Questo aveva stanze solo sul lato destro, su quello sinistro aveva alcune piccole finestrelle che si aprivano a mezza altezza e dalle quali filtravano luce e tamburi. Stranamente tutte le porte erano ostruite dalle macerie, quindi il mezz’elfo si avvicinò piano a una di queste aperture larghe un palmo, e vi sbirciò dentro. Nonostante la poca visuale a disposizione, riuscì a vedere una grande sala illuminata da bracieri, alcuni orchi che colpivano tamburi come fabbri sulle loro incudini, e un altro paio in piedi davanti a una tavola dai riflessi metallici violacei.

    «Quella…» mormorò «lo sapevo che era qui!»

    Cercò di scorgere altri dettagli della sala, era importante sapere il numero di orchi presenti, e andò a guardare anche dalle finestrelle vicine, poi tornò veloce dai suoi compagni.

    «Spegnete la luce, da qui in avanti dovreste vedere senza problemi» disse «c’è la tavola, ma è anche pieno di orchi, stanno facendo una qualche cerimonia. Silenzio e cautela. Andiamo»

    Lam aveva già spento la lanterna elfica, quindi scese le scale insieme a Kell, seguendo poi Garel ancora più in basso.

    Il quarto piano sotto a quello in cui avevano dormito era certamente più luminoso, e il suono dei tamburi pressante, come il terzo aveva le stanze solo sul lato destro, ma queste erano vuote e ripulite. Su quello sinistro si aprivano due finestroni ad arco seguiti poi in fondo da una porta.

    I tre si avvicinarono al primo arco, facendo attenzione a non farsi vedere.

    La sala era piena, diverse centinaia di orchi danzavano sovraeccitati dalla frenesia, i colpi di tamburo rimbombavano tra le pareti arricchite di stendardi tribali e di trofei di guerra e di caccia. Un grosso teschio di drago sovrastava la piattaforma con la tavola salda sul piedistallo di basalto, dietro la tavola cinque orchi presiedevano al rito. Indossavano vesti nere, arricchite con pellicce e lunghe piume, decisamente raffinate per i loro standard, e avevano il volto coperto da maschere cerimoniali, intessute anch’esse con piume d’ogni forma e colore. Alla loro destra, due passi indietro, sette orchi completamente pitturati di bianco e con un solo pezzo di stoffa grezza legato intorno alla vita, erano in attesa che si compisse il loro destino.

    Il ritmo dei tamburi aumentò e la danza divenne sempre più frenetica, poi tutto cessò di colpo. Quattro degli orchi mascherati condussero uno di quelli pitturati di bianco davanti alla tavola. Il suo sguardo era un po’ assente e un po’ intimorito, ma sembrava tranquillo, forse era stato drogato o forse non sapeva ciò che lo attendeva. A forza venne disteso di schiena sulla tavola, e ogni cerimoniere gli bloccava un arto spingendolo verso terra con il proprio peso, in modo che quello non potesse muoversi da quella posizione. Il quinto cerimoniere, il sacerdote, si avvicinò alla tavola rettangolare, tastò e massaggiò l’addome e i muscoli dell’orco disteso, soffermandosi sul ventre e risalendo più volte verso lo sterno e il pettorale sinistro. Quindi estrasse un pugnale di ossidiana da un fodero di cuoio nero, e lo piantò con forza all’altezza dell’ombelico. Fiotti di sangue caldo iniziarono a colare copiosi sul corpo della vittima e sulla tavola, mano a mano che il pugnale tagliava affilato muscoli e interiora fino ad arrivare alla cassa toracica, tra le urla strazianti dell’orco che sorprendentemente rimaneva cosciente nonostante il dolore. Era effettivamente stato drogato. Il sacerdote rinfoderò il pugnale con cura, poi infilò la sua mano nell’addome squarciato della vittima cercò il cuore e lo tirò fuori ancora pulsante stracciandone vene e arterie. Ne azzannò un pezzo e lo mostrò trionfante alla folla di orchi in delirio, mentre il cadavere della vittima venne gettato davanti alla tavola. Il tutto avvenne sotto gli occhi ormai atterriti e piombati nell’incubo degli altri prigionieri. Due vennero colti dal panico e tentarono la fuga insieme a un terzo, fuga che fallì quasi subito, perché i tre si trovarono le caviglie ghermite da un tentacolo luminoso che prima li bloccò attorcigliandosi alle gambe, poi li trascinò indietro verso l’altare. E videro che i tentacoli spuntavano dallo stesso pugnale di ossidiana con cui il sacerdote aveva eseguito il sacrificio. Il sacerdote tirò uno di quei tre che avevano tentato di scappare fin sotto la tavola, dove gli altri quattro cerimonieri lo distesero braccia e gambe divaricate. La vittima si sentiva impotente davanti al suo destino ormai segnato, indebolita dal tentacolo luminoso, e divorata dall’angoscia per la fine che l’attendeva. Il suo respiro era corto e accelerato, sentiva le grida e le urla frenetiche della folla che assisteva danzante al sacrificio, sospinta dal ritmo dei tamburi. Riusciva a vedere poco di ciò che accadeva intorno a sé, ciò che vedeva bene era solo il soffitto della grande sala. Avvertì il sacerdote che si avvicinava e con lui l’ora della sua morte, il cuore pompava sangue in modo forsennato e il suo pulsare gli rimbalzava dentro quasi più forte dei tamburi. Il suo respiro accelerò ancor di più quando vide il pugnale innalzarsi sul suo addome. Pregò che quell’istante si dilatasse all’infinito, pregò che venisse risparmiato, pregò che i suoi carnefici rinunciassero, ma quelle preghiere vennero lacerate dal dolore della fredda lama che bucava il suo ventre. La poteva sentire mentre tagliava istante per istante le sue carni e i suoi visceri, e ora pregava affinché il dolore finisse subito, accorgendosi di stare gridando quando il sangue iniziò a gorgogliargli in bocca. La mano del sacerdote s’infilò esperta nell’addome, e rovistando tra gli organi lacerati risalì fino a trovare il cuore. Quando lo afferrò, la vittima ebbe uno spasmo, spalancando la bocca come a voler gridare parole che però gli rimasero strette in gola. Ormai non vedeva più il soffitto della sala e i tamburi erano sussurri ovattati che giungevano da un lontano passato. Il sacerdote gli strappò il cuore, ma la sua anima era già altrove.

    «Ho visto abbastanza…» disse Garel scostandosi dal finestrone.

    «Allora… il piano è semplice» disse Lam «irrompiamo nella sala, ripuliamo questo posto da queste bestie, e…»

    «No! Torneremo quando se ne saranno andati via» disse il mezz’elfo.

    «Dov’è il problema? Dovrebbe essere un giochetto per te fare piazza pulita!»

    «Dov’è il problema? C’è un grosso problema! Malediciamo questi popoli perché hanno invaso le nostre terre, perché sono venuti a usare la loro prepotenza in casa nostra portando morte e distruzione. Io non farò lo stesso in casa loro!» disse secco Garel, senza badare al tono della voce visto che sarebbe stato coperto comunque dal rimbombare dei tamburi.

    Quelle parole colpirono Lam, che aveva perso i suoi cari durante l’assedio di Arbega, ma per questo capì subito il loro valore.

    «Senza contare che non sappiamo nulla, per quanto sia crudele, potrebbe essere l’esecuzione di criminali…» aggiunse il mezz’elfo.

    «Faremo come vuoi» disse Kell.

    Garel rimase in silenzio, per un istante, poi cercò di riprendere dal punto in cui era stato interrotto. «Ne avranno ancora per molto, ma domattina saranno andati via e potremmo fare tutto senza problemi»

    Tornarono indietro fino al loro piano, Garel sistemò un paio di picchetti lungo il tragitto per le scale e un paio al livello superiore, recuperando poi quelli che erano scattati, ormai diventati superflui.

    Kell rientrò nella loro stanza. «Non ho capito però cosa abbia fatto attivare i tuoi picchetti»

    «Chi lo sa… forse qualcuno era effettivamente arrivato al nostro piano per controllare e poi è tornato alla cerimonia, forse il campo di azione dei picchetti raggiunge in verticale più distanza di quanto sembra» rispose Garel scavalcando la piccola barricata posta all’ingresso.

    «Hahaha, forse è stato un topolino» Lam sghignazzò.

    «È escluso, i picchetti rilevano il movimento di corpi grossi almeno quanto un cane»

    «Beh… alla fine non è così importante: abbiamo controllato ed è tutto in ordine»

    «Infatti… torniamo a dormire» disse Garel coricandosi sul suo giaciglio improvvisato.

    I tamburi si percepivano appena, confondendosi con i battiti dei loro cuori. Così il sonno giunse sfumando e calò velocemente su di loro, ignari che ciò che aveva fatto scattare i picchetti, aveva continuato a salire le scale verso i piani superiori, fortunati che non si era invece avventurato nel loro.

    All’alba erano già in piedi. Kell stava finendo di sistemarsi lo zaino, Lam lo attendeva in corridoio, mentre Garel era andato a recuperare i

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1