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I Memoriali di Lorlh - Gli Eroi di Doral'Har
I Memoriali di Lorlh - Gli Eroi di Doral'Har
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E-book792 pagine12 ore

I Memoriali di Lorlh - Gli Eroi di Doral'Har

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Info su questo ebook

Il secondo libro fa seguito agli eventi descritti nel primo capitolo della saga. Raggiunta la fama, Urizen il mezzodemone intraprende una nuova avventura volta alla salvezza delle terre emerse. Un mistero lungo centinaia di pagine condurrà i protagonisti alla caccia di una chiave arcana capace di condurre ad un potere oscuro, bramato da un nemico celato tra le ombre.
LinguaItaliano
Data di uscita2 feb 2024
ISBN9791222720173
I Memoriali di Lorlh - Gli Eroi di Doral'Har

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    Anteprima del libro

    I Memoriali di Lorlh - Gli Eroi di Doral'Har - Filippo Samorè

    Il segreto di Fargast

    Anno 1809 dalla Caduta di Lorlh, Foresta di Fargast.

    Era una notte fredda e spettrale nella Foresta di Fargast. Le tenebre soffocavano ogni angolo come se rigurgitassero fuliggine nell’aria. Un vento glaciale serpeggiava tra i tronchi degli alberi, presenze notturne si spostavano nel sottobosco umido e folto. Tra quelle ve ne era una che si muoveva con particolare circospezione: una figura snella che sfilava di tronco in tronco guidata da una logora pergamena. I suoi spostamenti erano incerti, il muschio attorno alle radici degli alberi ovattava ogni suo passo. Talagrun splendeva alta nel cielo, i fasci di luce che penetravano le fronde parevano liane di seta in preda alla brezza notturna. L’individuo raggiunse un macigno, vi appoggiò sopra le mani e, dopo attimi di riflessione, lo ripulì dallo strato erboso. Incise nella pietra scritte antiche tornarono alla luce, erose dal tempo e dalle intemperie. Il volto incappucciato si avvicinò nel tentativo di carpirne il significato, ma l’oscurità si sforzava di preservare i misteri celati in quel luogo. L’eccitazione per il ritrovamento si tramutò ben presto in inquietudine. La Foresta di Fargast non era del tutto abbandonata, la possibilità di incappare in brutti incontri non era da escludersi.

    Di colpo si udì il bubolare di un gufo. La figura si volse di scatto sfoderando un pugnale. L’arma tremava, sostenuta da un braccio divorato dalla tensione. Il vapore rilasciato dalla bocca divenne sempre più copioso, tanto da peggiorare la visibilità dell’area attorno. I movimenti dell’individuo erano divenuti nervosi quando, compiuti alcuni passi alla base del macigno, l’esile corpo venne inghiottito da un anfratto nel terreno.

    La caduta fu breve e non ebbe conseguenze. Il giovane si rialzò sistemandosi il cappuccio, dopodiché estrasse una torcia da sotto il mantello. Una timida fiamma prese vita grazie ad un acciarino custodito nello zaino. Il bagliore vibrante illuminò un cunicolo sotterraneo abbastanza alto da permettere la postura eretta. L'umidità era notevole, impregnava ogni angolo visibile. L’intruso formulò alcune ipotesi su dove si trovasse. Prima di esultare ritenne saggio dare fondamento alle proprie previsioni.

    Le pareti attorno erano ricoperte di terriccio e radici delle piante che popolavano la superficie. La mano dello sconosciuto raspò finché non riportò alla luce una raffigurazione scolpita nelle pietra. Gli occhi faticarono a scorgerne i tratti a causa dei sedimenti che ancora l’avvolgevano. Solo grazie ad un’esperienza maturata negli anni fu possibile comprendere che si trattasse di una statuetta raffigurante la divina Torgabel. Il solo fatto di rinvenire il simulacro di colei che nell’antichità era simbolo del sapere millenario generò nell’animo del giovane un’eccitazione incontenibile. La marcia riprese sostenuta da movimenti sempre più euforici. L’individuo si ritrovò combattuto, una parte di lui fremeva, l'altra, lo rallentava per scongiurare eventuali passi falsi. A lungo aveva sognato quel momento. In cuor suo si era ripromesso di mantenere il sangue freddo, ma si accorse suo malgrado di non esserne capace.

    Il cunicolo attendeva gli incauti visitatori avvolto da un’ombra impenetrabile, la torcia a fatica ne schiariva il cuore. Ad una prima occhiata quel luogo appariva antico, ciò non fece che incrementare l’eccitazione per la scoperta. L’intruso si guardò attorno, immobile, tentò di scovare indizi di potenziali trappole, poi avanzò incapace di attendere oltre. Più avanti gli si pararono innanzi frammenti seminascosti sotto il terriccio, la fiamma si precipitò ad illuminare il reperto e lo sguardo ne colse ogni caratteristica. I pezzi erano ingombranti, presentavano lavorazioni su di un lato. Altri sorrisi e gocce di sudore comparvero su di un volto sempre più esaltato. I cocci vennero riposti in un sacchetto, poi l’individuo proseguì allontanandosi dal fascio luminoso che proveniva dall’apertura nel soffitto.

    Al termine del percorso una porta di legno avvolta da radici inumidite venne partorita dalle tenebre. Il giovane fremette, percorse ogni insenatura alla ricerca di un potenziale pericolo. Un entusiasmo trascinante però gli impedì di concentrarsi. Le mani si mossero inconsciamente, toccarono ogni punto della rugosa superficie. La serratura comparve poco dopo, a quel punto un ultimo elemento mancava ancora per accertare l’origine di quel luogo. Finalmente, dopo quasi un giro di clessidra, i polpastrelli immersi nel terriccio si soffermarono su qualcosa. Un corroso vessillo dei Bash fece la sua apparizione tra i sedimenti fangosi. L’estraneo rimase immobile ad osservare il simbolo della dinastia reale che per secoli aveva governato il Regno di Karim, mille anni prima di allora. La sua espressione divenne basita, prima di togliersi il cappuccio e mostrare alla luce della torcia uno sguardo vispo e attento. I capelli castani scesero fin sotto alle guance celando in parte gli occhi nocciola. Il volto giovanile balenava davanti alla fiamma che condivideva con lui l’entusiasmo per la scoperta.

    Non rimaneva che penetrare all’interno.

    La serratura che per centinaia di anni aveva celato a tutti il suo segreto divenne l’ultimo ostacolo da superare. In seguito ad alcuni attimi di lavoro uno scatto funse da segnale di resa da parte del meccanismo metallico. La mano preda dell’emozione posizionò la torcia vicino all’ingresso, poi fece forza tirando la maniglia. L’operazione si rivelò più difficile del previsto a causa dei sedimenti che vincolavano la porta. Il giovane usufruì di un’apertura minima, appena sufficiente a permettergli il passaggio.

    Oltre la soglia lo attendeva un buio secolare.

    L’intruso si addentrò titubante in una stanza racchiusa da spesse mura nelle viscere della terra. All’interno un odore nauseabondo agì quasi da sistema difensivo. La pesantezza dell’aria era forse la prova più concreta dell’avvenuto ritrovamento di un sito archeologico. Il giovane si preparò a dare inizio alla perlustrazione, ma un pensiero fugace frenò ogni iniziativa. L’entusiasmo era grande, la curiosità di scoprire cosa celassero quelle mura, anche di più. Tuttavia il buon senso esortava alla prudenza, forse fare ritorno di giorno avrebbe rappresentato la scelta meno rischiosa. Il dibattito interiore sfuriò nella mente dell’individuo, il quale recuperò lucidità solo alla vista del proprio mantello accarezzato da una corrente d’aria. Quel gesto venne interpretato come un’esortazione ad abbandonare ogni remora. A destra della porta di ingresso la torcia illuminò innumerevoli scaffali di legno, sommersi dalla polvere. A sinistra tavoli logori si reggevano ancora in piedi. Tutto era intatto, in ordine. Era evidente come in passato quell’ambiente fosse stato trattato con rispetto.

    «Una biblioteca…» sussurrò il suo scopritore.

    Il pavimento era formato dalle stesse mattonelle individuate nel cunicolo, anche se presentavano dimensioni maggiori. Lo strato di polvere che le ricopriva era spesso, di un colore chiaro quasi ad imitare l’aspetto di un manto nevoso. Gli scaffali a lato erano alti più di quattro braccia, ad una prima occhiata ospitavano una quantità inimmaginabile di volumi. La curiosità di pervenire alle informazioni contenute si fece padrona dei movimenti del giovane, tanto da deviarlo dalla direzione iniziale. Ad un tratto però un timore riportò alla realtà una mente già immersa nelle proprie fantasticherie. La prudenza precedentemente zittita continuava a lanciare segnali di allarme. Per acquietarla l’individuo si diresse verso le pareti perimetrali, sfruttò l’isola luminosa emessa dalla torcia per accenderne altre tre ancora in buono stato. I tavoli posti a poca distanza presero vita, rischiarati dopo secoli di oscurità.

    Successivamente la figura si avventurò tra gli scaffali accarezzando con una mano i ripiani colmi di libri. Il tempo, le tarme e la polvere avevano intaccato solo in parte quei reperti storici di immenso valore. Per un attimo, sotto ai capelli castani, comparve un’espressione quasi comica nel tentativo di calcolare la quantità d’oro racchiusa in quel luogo.

    Fin da quando si era interessato alle vicende del passato il giovane si era chiesto che cosa fosse accaduto durante quello che veniva definito dagli storici del suo tempo come il Grande Buio. Un periodo durato centinaia di anni, riguardo al quale non si disponeva di alcun documento in grado di rivelarne le caratteristiche. Solo la totale assenza di civiltà avrebbe potuto generare un simile vuoto di informazioni, ma ciò non era possibile, almeno in teoria. In qualche modo il Grande Buio aveva cancellato regni e territori del continente conosciuto, aveva permesso che lo sfarzo delle civiltà del passato si avvilisse fino a scomparire del tutto. La maggior parte delle razze umanoidi si era estinta, tra tutte solo quella umana si era salvata, anche se a stento. Di tutta quella faccenda l’elemento più sconcertante era rappresentato dall’avvento della tragedia, avvenuto in tempi ridotti, forse nell’arco di una sola ventalba. Come mai erano rimasti così pochi siti archeologici a testimoniare la grandezza degli antichi territori del nord? Come mai la maggior parte degli scritti era andata perduta, oltre alle storie tramandate di generazione in generazione? Erano solo alcuni dei quesiti che martellavano la menti di tutti gli studiosi dell’epoca. Per dare risposta a quelle domande il giovane si era ripromesso di scavare, di andare a fondo nella questione e di sfruttare ogni informazione utile. La considerava una missione a compimento della quale avrebbe ricevuto gloria e onore, ma soprattutto, avrebbe dimostrato all’anima del defunto padre che il suo interesse nei confronti del passato non era da considerarsi una futile passione. Ormai erano più di due anni che le ricerche conducevano ad un possibile obbiettivo celato nella Foresta di Fargast. Il suo ritrovamento era costato innumerevoli tentativi. Durante quell’ultimo periodo le ricerche dell’individuo si erano rivelate dei buchi nell’acqua. Lui stesso non si spiegava quale misteriosa forza lo avesse indotto a non arrendersi. Solo allora, a ritrovamento avvenuto, si accorse che ne era valsa la pena. Grazie a quella biblioteca l’origine del Grande Buio sarebbe finalmente uscita dall’ombra.

    «Volumi! Centinaia di volumi ricchi di informazioni! Questo è un autentico tesoro! Calma Varn, occorre mantenere i nervi saldi» sussurrò tra sé il giovane incurante della polvere che sollevava ad ogni passo.

    Da quel momento in poi tutte le paure vennero relegate in un angolo remoto della sua mente. Varn aveva atteso quel momento troppo lungo, pertanto decise di dare libero sfogo alla propria curiosità. Passò di scaffale in scaffale per consultare le varie date, stando attento a non rovinare le copertine ingiallite dal tempo. Alcune di quelle erano talmente antiche che si sbriciolarono al semplice tocco. Occorreva prestare attenzione. Anche se quel sito conteneva migliaia di volumi non ne doveva andare perso nessuno, la posta in gioco era troppo alta. Come prevedibile la quasi totalità dei libri trattava di fatti ed episodi antecedenti al Grande Buio. Rappresentavano comunque informazioni di immenso valore storico, ma per venirne a conoscenza nel dettaglio sarebbe stato opportuno un’analisi scrupolosa. Ciò avrebbe richiesto interi cicli di lettura, forse addirittura anni. Varn decise di proseguire. In poco tempo aveva individuato una gran quantità di trattati economici, oltre che saggi sulla società di un tempo ormai dimenticato. Il valore stimato di quegli scritti era incalcolabile, per non parlare delle informazioni sul Grande Buio che potevano considerarsi ancora più preziose. L’indice del giovane scorreva a gran velocità finché non si posò su di una copertina scura, creata con la pelle di un qualche animale. Varn non seppe spiegarsi il motivo, ma quel tomo attirò la sua attenzione più degli altri accanto. Il braccio si allungò e lo sfilò dallo scaffale. Quando gli occhi presero visione dello stemma impresso sulla copertina, raffigurante una lama fiammeggiante incrociata con un’altra dall’aspetto particolare, fu un sussulto.

    «Gli Eroi di Doral’Har! Anno 777 dalla caduta di Lorlh! Non credo ai miei occhi! Un diario sulle gesta degli avventurieri più famosi del continente!» gridò mentre sfogliava le pagine incurante della loro antichità.

    Un impulso successivo però indusse Varn alla calma. Forse sarebbe stato meglio prelevare il tomo, celare l’accesso alla biblioteca e leggerlo al sicuro tra le mura della sua dimora. La curiosità tuttavia pareva irrefrenabile, come un macigno senza freni sottoposto alla pendenza di un versante montuoso. Attorno al giovane tutto scomparve: era giunto fin lì armato di saldi ideali, i quali si tramutarono in polvere davanti alla sete di conoscenza. L’avventura più grande e gloriosa che gli era stata raccontata anni prima dal misterioso mendicante pareva aver trovato un seguito. Varn non avrebbe mai sperato in un simile colpo di fortuna, tanto che temette di risvegliarsi da un sogno meraviglioso. Di corsa raggiunse i tavoli davanti all’entrata, si sistemò su di una sedia ancora capace di reggere il suo peso. Con fare febbrile giunse alla prima pagina isolando la mente dal mondo esterno. Ancora non credeva alla scoperta appena effettuata. Niente in passato gli aveva fatto presagire che esistesse un resoconto di quanto accaduto dopo il ritrovamento del Tempio dei Saggi della Terra. Varn si congratulò con sé stesso, realizzò di aver seguito il consiglio che, tempo prima, gli aveva suggerito il vecchio mendicante. Ormai era stato appurato che Dunval, il suo paese natale, sorgesse all’interno dei confini dello scomparso Regno di Karim. Ciò aveva spinto Varn alla ricerca di siti archeologici sparsi in tutta la regione. La Foresta di Fargast sorgeva ai piedi delle montagne ad ovest, ciò poteva solo significare che quella biblioteca in tempi antichi si trovasse nel paese di Noak. A Varn pertanto non rimaneva che intraprendere la lettura del tomo appena rinvenuto. Un momento atteso dal giorno in cui l’anziano gli narrò la vicenda più avvincente di cui si avesse memoria. Per tali ragioni intendeva godersi a pieno il contenuto di quelle pagine, affinché rimanessero scolpite nella sua mente.

    Varn rilasciò un sospiro, poi, iniziò.

    «…anno 777 dalla Caduta di Lorlh. A quattro anni dalla Battaglia di Doral'Har l’intero continente era pervenuto alla tanto agognata pace. Il Regno di Damar e quello di Karim erano sopravvissuti alla guerra e si erano concentrati sulla ricostruzione delle città andate distrutte. Nel 777, all’età di sessantasette anni, Karn Stobergal morì in circostanze misteriose, lasciando il posto all’erede più prossimo, il giovane nipote Lintor Stobergal. Milanor Bash continuò a governare le proprie terre, venute a ridursi a causa della disfatta di alcuni nobili. La figura del sovrano e soprattutto la sua perdurata assenza dagli eventi pubblici non faceva che alimentare voci e preoccupazioni. Gli elfi di Feldrik, coloro che avevano subito le perdite maggiori in seguito alla guerra contro Kelven, si ritirarono all’interno della loro foresta, cessarono ogni tipo di comunicazione con il mondo esterno. Riguardo agli elfi oscuri non vi erano notizie certe, se non che l’attacco ad opera delle bestie immonde avesse ridotto l’impero in ginocchio. Nessuna missione ufficiale partita dai regni del nord si era più infiltrata oltre le linee nemiche, ogni sforzo era stato dirottato verso la salvaguardia dei confini più esterni. Dopo aver udito decine di ballate cantate al termine della guerra, schiere di avventurieri partirono alla volta della Falce di Ghiaccio, alla ricerca della mitica civiltà degli Elfi Bianchi. Quale sia stata tuttavia la sorte di tali individui è affare esclusivo degli dei. Il Regno dei Nani mantenne fede alle volontà del sovrano defunto, il grande Randigal Slint. La Neutralità venne abbandonata e Doral'Har aprì i suoi varchi a coloro che desideravano visitarla...».

    «Gli avvenimenti sono tutti riportati in ordine preciso» si sorprese Varn mentre con lo sguardo era già passato ad analizzare altri dettagli.

    La qualità costruttiva del tomo era superiore rispetto agli altri che aveva visionato sugli scaffali: l’esterno era protetto da una copertina rigida, grazie alla quale il libro si era mantenuto in buono stato per tutti quegli anni. La superficie rugosa pareva provenire dalla pelle di una qualche creatura. Il diadema degli Eroi di Doral'Har era stato abilmente lavorato in metallo. All’interno, una solida rilegatura tratteneva il contenuto, composto da diverse centinaia di pagine. Nonostante i secoli trascorsi l’integrità dell’oggetto era imperturbabile, come se fosse stato creato appositamente per farsi beffe dello scorrere del tempo. Anche la cura e la calligrafia che ne addobbavano le righe non lasciavano alcun dubbio: l’autore era un maestro nel suo lavoro. Una rapida occhiata ai titoli dell’ultima pagina rivelò presto il nome di quell’ultimo, un certo Ufradil Tor’Nadimor. Varn si lasciò andare in un’espressione perplessa, non ne aveva mai sentito parlare prima di allora. Sul momento di immergersi tra le righe però la sua attenzione venne attirata altrove. L’interno della biblioteca era avvolto dal silenzio, perfino le lingue di fuoco non producevano alcun rumore. L’atmosfera divenne ideale per una lettura come quella. Varn si sentiva proiettato in un mondo magico, dove ad ogni elemento di disturbo era impedito l’accesso. I suoi pensieri tuttavia non sfuggirono ad inquietanti riflessioni, dall’oscurità che regnava oltre l’ingresso poteva comparire chiunque in qualsiasi momento. Tornare nella propria dimora per godersi la lettura sarebbe stata la mossa più saggia, ma tali informazioni non potevano attendere, non dopo la fatica fatta per scovarle. Non appena gli occhi color nocciola incrociarono le prime lettere, tutto il resto non ebbe più alcuna importanza.

    La gilda di Kolligar

    Anno 777 dalla Caduta di Lorlh, ex contea di Bramur Toe.

    Passi frenetici percorsero il corridoio illuminato quando le porte della sala principale del castello si aprirono di scatto. La figura di un giovane snello, con una corazza che ne proteggeva busto e avambracci, fece la sua comparsa. Il viso era fine, gli occhi smeraldini sprizzavano di arguzia. Una coppia di foderi assicurati alla cinta gli pendeva dietro la schiena. Il guerriero avanzò sistemandosi le ciocche di capelli neri scampati al vincolo del laccio posto dietro alla nuca. Si fermò, un rapido inchino anticipò le parole al cospetto di Urizen, seduto sul trono fatto di ferro e stoffa color carminio.

    «Mio signore! Lainard è stato sopraffatto da uno straniero penetrato nelle vostre terre. Stuk ha riferito di aver rinvenuto alcune trappole scattate, senza che vi fosse alcuna preda all’interno» cominciò il giovane.

    «Qualcuno si sta avvicinando al castello» replicò pensieroso Urizen. Un sorriso compiaciuto comparve sul suo volto.

    «E costui è anche rapido. Che ordini avete?».

    «Nessuno, lasciatelo passare. Chiunque sia, se vuole il mio oro, deve solcare per forza questi tappeti» commentò Urizen, poi continuò «In tutto il nord vi è un solo individuo capace di eludere le difese del mio castello» concluse per poi sprofondare nel trono che dominava la sala.

    Una calma innaturale dipingeva il volto del mezzodemone. Sebbene non ne avesse la certezza, percepiva un’aura maligna avvicinarsi sempre più. Un’aura che non si poteva dimenticare, non dopo quello che era accaduto in passato.

    «Attendi qui con me Alek, aspetteremo questo sfrontato assieme» terminò Urizen rilasciando un cenno con la mano.

    Il guerriero si appostò alla base del trono. Il mezzodemone congedò due guardie da un’uscita secondaria mentre, oltre la porta principale, passi cadenzati rimbombavano nel corridoio. Alek mise mano ad una delle sue spade, prima che gli venisse intimato di deporre le ostilità.

    «Se ho ragione, quelle non ti saranno di aiuto alcuno» lo informò Urizen.

    Al di fuori della stanza i passi si fermarono, le ante del portone che conduceva alla sala principale si spalancarono come se ad investirle fosse stato un rinoceronte in corsa. Il padrone del castello non mosse un solo dito, i suoi occhi zampillavano di entusiasmo. Una figura allampanata, coperta da uno mantello nero, fece la sua apparizione accompagnata da una ventata di aria fresca. Alek percepì una sensazione di gelo penetrargli nelle ossa. Benché gli costasse fatica ammetterlo il solo aspetto dell’estraneo bastava a renderlo nervoso.

    La presenza scura rimase immobile per alcuni istanti, durante i quali anche le fiamme nei bracieri ai lati del trono affievolirono la loro danza. Alek deglutì, continuò a tenere una mano sull’elsa di una delle due armi, mentre cercava di scorgere i lineamenti dello sconosciuto. La presenza di colui penetrato in maniera tanto abile nel castello per nulla si discostava da quella di una creatura sovrannaturale.

    «Serra il guinzaglio al tuo acerbo mastino, se ti preme per la sua incolumità...» cominciò l’intruso mostrando fin da subito una voce familiare.

    Urizen si alzò in piedi sospinto da una falsa risata.

    «Alek darebbe filo da torcere persino ad un vampiro, credimi!».

    Un ghigno appena accennato fuoriuscì dall’oscurità del cappuccio. Lo sconosciuto decise di svelare la propria identità. Una mano ossuta sfilò il mantello liberando una lunga chioma corvina.

    Monar apparve alla luce dei bracieri.

    Per alcuni attimi Urizen lo osservò con sguardo perso. Quel volto gli scatenò un turbinio di ricordi ormai sepolti nei meandri del passato. La loro ultima avventura era avvenuta quattro anni prima e li aveva visti protagonisti di incredibili vicende. Fin da quando si erano separati con le rispettive parti del tesoro, Monar non si era più fatto vivo. In quel momento invece si era presentato come se niente fosse, tuttavia, ciò che il vampiro ignorava, era che nell’arco di quel periodo molte cose erano cambiate. In seguito alla battaglia di Doral’Har, Urizen aveva visto il proprio animo umanizzarsi sempre più, andando a compromettere i suoi poteri. Sebbene le ultime missioni non gli avessero richiesto un impegno totale, il mezzodemone sapeva che l’energia demoniaca andava esaurendosi. Da una parte lo percepiva constatando la debolezza della propria magia. Dall’altra quando provava attrazione nei confronti di ciò che in passato disdegnava. Non era più il guerriero di una volta, a differenza di Monar il quale invece non risentiva in alcun modo dello scorrere del tempo. Durante la guerra conto gli elfi oscuri il non morto aveva dato prova di possedere un grande potere, ciò aveva sempre scatenato nell’animo di Urizen un naturale senso di competizione. Ebbene, il mezzodemone si domandava come si sarebbe comportato in quella circostanza. Avrebbe ancora retto il confronto con il vampiro se lo avesse affiancato nuovamente in battaglia? L’ipotetica scena occupò per poco l’immaginazione del signore del castello, prima che ostentasse sicurezza e omaggiasse il proprio ospite. Discese dal rialzo su cui era posto il trono, poi gli strinse la mano in segno di amicizia.

    «Cosa ti porta qui, vampiro!» gli chiese saltando i convenevoli.

    Solo allora Alek si rese conto di avere innanzi una creatura non morta. Ne aveva già udito parlare in passato, ma non ne aveva mai preso visione con i propri occhi. A Noak, dov’era nato, la sua gente li chiamava Figli delle Tenebre, considerati alla stregua di efferati abomini. A quanto si sapeva si trattava di esseri a cui non era permesso muoversi alla luce del sole. Una maledizione mitigata da vantaggi di rilievo, come l’immortalità e la forza sovrumana.

    Nel frattempo la conversazione tra i due compagni d’armi proseguiva. Prima di replicare Monar era rimasto a fissare l’aspetto sciupato del mezzodemone. Non lo vedeva da quattro anni e notò alcune differenze rispetto al passato. I suoi capelli si erano scuriti, l’argento vivo che li tingeva aveva perso lucentezza. Persino gli occhi non mostravano più lo stesso ardore. Al termine di quell’analisi il vampiro ostentò una genuina indifferenza.

    «Vedo che ti sei sistemato a dovere» rispose infine guardandosi attorno.

    «Questo è ciò che rimane della contea di Bramur Toe, colui che ti cedette il diario di Brill Megren. Giunsi qui in seguito al nostro ritorno al nord con il tesoro. Nessuno sa che cosa sia successo a queste lande durante la guerra. Al mio arrivo il castello era rimasto sguarnito, costellato da un limitato numero di cadaveri. Del conte in fuga si persero le tracce, forse egli è spirato in una putrida capanna, trafitto dalla sua stessa codardia». Fu il resoconto.

    Monar rimase interdetto, non tanto per ciò che aveva udito, ma per il modo. Era certo nell’affermare che Urizen avesse espresso più parole in quel singolo momento che durante l’arco delle avventure passate. Non avrebbe mai pensato di notare tanti cambiamenti nell’animo del compagno.

    «Non temi che il re di Karim possa muoverti battaglia per riprendersi i territori persi durante la guerra?» domandò.

    «Nessun contingente armato si è mai presentato alle porte del castello. Giungono voci da Daren, si dice che la mente del sovrano sia sprofondata in un mare oscuro. Altri affermano invece che il regno sia caduto nelle mani dell’Ordine dei Darsen» fu la spiegazione del mezzodemone, poi continuò «Cosa ti porta così a sud? Ho udito che negli ultimi tempi hai servito il Regno di Damar, svolgendo missioni rischiose per gli umani».

    «Nulla può considerarsi più rischioso di quello che abbiamo già passato». Una velata tristezza attanagliò lo sguardo freddo di Monar. «Ho affiancato gli umani solo per proteggere il luogo che mi ha donato la mia vita mortale. Tuttavia la recente scomparsa di Karn Stobergal ha scosso le fondamenta di tutto il regno» fece una pausa «Io invece ho udito di un gruppo di uomini che, dietro lauto compenso, ha sparso sangue in ogni dove, guadagnandosi l’appellativo di Teste Mozze».

    Urizen si volse minimizzando.

    «Il denaro compete con gli dei, esso decreta la nascita o la fine delle persone».

    Monar rilasciò un ghigno per dissimulare la propria sorpresa. Il mezzodemone che rammentava non si sarebbe mai lanciato in fraseggi di quel tipo.

    «Ad ogni modo, se sono giunto al tuo cospetto, l’ho fatto perché il mio passato è un impavido segugio, esso mi scova ovunque io mi nasconda, ghermendomi con le sue ombre» rivelò Monar.

    Urizen si volse, il tono del non morto era divenuto cupo.

    «Berzac Mei mi ha affidato un compito il cui ostacolo è un muro troppo alto da valicare con le mie sole forze».

    «Che genere di aiuto ti serve?» tagliò corto il mezzodemone, poi risalì i pochi gradini che lo separavano dal trono.

    Monar si avvicinò, lanciò un’occhiata al guerriero che sostava al loro fianco.

    «A Golbas i vampiri hanno formato una gilda di grande splendore chiamata il Sangue di Kolligar! Kolligar è il vampiro a capo di questa organizzazione».

    «E tu che hai da spartire con costoro?».

    «Il loro numero continua a crescere, notte dopo notte. I confini della gilda a stento trattengono i neo trasformati che dilagano ammantanti nell’oscurità. Se qualcuno non interviene c’è il rischio che i miei simili prendano di mira il dominio della capitale. Ciò ha portato Berzac Mei a chiedermi di occuparmene. Egli ritiene che io sia meglio preparato per questo compito».

    «Ed è nel giusto!» concluse Urizen.

    «Per questo motivo mi appello al tuo aiuto. La ricompensa offerta dal regno sarà assolutamente generosa» continuò Monar, tuttavia, l’inefficacia delle sue argomentazioni divenne evidente.

    Urizen scosse il capo con fare disinteressato.

    «Coloro che rimestano tra le ombre non sono affar mio. Che ci pensino gli umani a soffocare la piaga che incupisce le loro notti» sentenziò.

    Innanzi a quel rifiuto Monar non si scompose. Aveva già previsto una simile eventualità, del resto Urizen ormai era uno degli individui più ricchi di tutto il nord, se non del continente stesso. Non si sarebbe scomodato solo per ottenere altro denaro, occorreva solleticare il suo interesse con qualcos’altro, qualcosa che il vampiro conosceva bene.

    «Kolligar si fregia di essere un combattente insuperabile. Un vampiro superiore a qualsiasi altro, persino al sottoscritto». Quello fu il suo asso nella manica.

    Il mezzodemone sollevò lo sguardo al pari di un cane che avvista il suo osso preferito.

    «Ed è così?». Il suo tono divenne ferreo, la futura risposta avrebbe posto un peso vincolante sulla decisione finale.

    «Kolligar è un non morto anziano, ciò rende il suo potere ineguagliabile». Monar in realtà ignorava la reale pericolosità del nemico, la sua risposta era stata costruita ad arte per suscitare l’interesse del guerriero.

    Urizen si sfregò le mani quasi senza volerlo, poi si ricompose. Il suo animo era travolto dall’eccitazione, la stessa che lo coglieva in passato ma che non riusciva più a provare nel presente. Da quando aveva scovato il tesoro dei saggi il denaro non era stato più un problema. Nei quattro anni precedenti non aveva fatto altro che adempiere a semplici mandati di assassinio. Ciò che più gli mancava era l’essenza del pericolo, ovvero affrontare nemici degni della sua forza, non comuni esseri umani che tutto potevano fare meno che spingerlo al limite. Monar aveva condotto all’interno del castello una ventata d’aria fresca: un pericoloso non morto da piegare a colpi di spada.

    «Dove si celano questi vampiri?» domandò infine il mezzodemone.

    «La gilda si è allargata a dismisura e ha preso possesso delle sale sotterranee che una volta appartenevano all’organizzazione di Lozar. Ma penetrarvi non sarà facile. Un buon piano di azione farà la differenza tra vivere o morire» rispose il vampiro, poi si tolse il mantello lasciando ben visibile il magico medaglione.

    Urizen fissò il pendente. Rammentò i momenti in cui, anni prima, aveva bramato di impossessarsene. Quell’oggetto aveva sempre rappresentato per lui un elemento di interesse, quando ancora era convinto di poter nuocere ai suoi vecchi compagni di avventura. Da allora tuttavia Talagrun aveva solcato la volta celeste innumerevoli volte, tante che il guerriero aveva fatto pace con i cambiamenti in atto nel proprio essere. Comprendere la psicologia umana e la sfera dei sentimenti annessi si era rivelato utile negli affari, non poteva negarlo. Urizen attese qualche istante prima di rispondere, si rivolse al guerriero che attendeva in silenzio.

    «Alek, convoca Jonat! Partiamo per Golbas».

    Il giovane uscì dalla porta secondaria.

    «Portare degli umani con noi non è una scelta saggia». Il non morto mostrò un’espressione simile a quella di un fanciullo costretto a trascinarsi dietro i fratelli minori.

    «Alek Snordan e Jonat Bergantus sono i migliori mercenari di cui dispongo. Ci saranno utili» replicò Urizen.

    La sera giunse in fretta portando con sé un vento carico di umidità. Le nuvole correvano rapide nel cielo notturno, si scontravano a ritmi alterni impedendo a Talagrun di irradiare i tratti boschivi della contea. Il castello era una grande costruzione, un tempo appartenuta a Bramur Toe. Per fortuna gli scontri non avevano minato la solidità delle mura portanti, pertanto Urizen non aveva fatto altro che servirsene convertendo gli spazi ai propri scopi. La maggior parte degli ambienti era troppo ricca ed elegante, così buona parte della mobilia divenne legna da ardere. A lavori ultimati in ogni stanza regnava l’austera semplicità che si addice a truci mercenari. Nella sala principale vi era solo l’eco dello sfarzo che per anni ne aveva abbellito l’arredo. Ogni ambiente era praticamente vuoto, molti angoli vennero adibiti ad armerie, dove i nuovi inquilini riponevano le rispettive attrezzature. Non vi era più una cucina vera e propria, ognuno consumava i pasti cacciandosi la selvaggina nel bosco attorno al castello. Tuttavia, nonostante la desolazione, un ordine maniacale aveva attirato l’attenzione del vampiro: non vi era un solo oggetto fuori posto. La carenza di arredamento contribuiva a rendere semplice la gestione di quella dimora. Niente era lasciato in stato di abbandono, i pochi elementi presenti venivano sfruttati al massimo delle loro possibilità.

    Durante la permanenza a Monar vennero presentati gran parte dei mercenari assoldati da Urizen. Si trattava di un manipolo disparato di uomini che non sembrava avere altro interesse se non quello rappresentare una spina nel fianco ai regni del nord. Il non morto lesse brama di violenza nelle espressioni di alcuni di loro, del resto era l’unico ambiente all’interno del quale il mezzodemone si sentisse a proprio agio. Alek pareva l’unico a differenziarsi dagli altri. Ad una prima occhiata non aveva niente a che vedere con i suoi compagni o con chi li comandava. Monar ebbe l’impressione che a guidare le sue azioni vi fosse una mente dotata di un acume più che raro.

    Al crepuscolo il castello era blindato, ognuno dei mercenari che formava il turno di guardia si avviò verso le mura perimetrali per sorvegliare le ombre del bosco. Gli ordini erano quelli di uccidere qualsiasi cosa si muovesse tra la vegetazione, senza porsi inutili domande.

    Gli occhi di Varn si sollevarono di colpo. Ebbe la prova che il prosieguo dell’avventura narratagli anni prima dal vecchio mendicante giaceva tra le sue mani. Stentava ancora a crederlo.

    «Quindi Urizen, dopo aver diviso i carri con Monar, si è appropriato del castello del conte, lo stesso luogo dove tutto ebbe inizio» fu un leggero sussurro che uscì dalla sua bocca, dopodiché ripiombò nella lettura.

    Nella stalla i preparativi per la partenza fervettero con un buon ritmo. Jonat Bergantus fece il suo ingresso per ultimo, ma catalizzò ben presto l’attenzione di tutti i presenti. Era un uomo gigantesco, più alto e grosso del mezzodemone stesso. Il suo corpo era protetto da una corazza da campo, tanto che per Monar fu difficile scorgere il viso quadrato oltre la guardagoletta in metallo. Alla schiena era assicurata un’enorme mazza chiodata dal manico decorato. Il vampiro fu costretto ad alzare lo sguardo per mettere a fuoco il viso dell’enorme guerriero. Si trattava senza dubbio dell’essere umano più imponente che avesse mai incontrato.

    «Impiegheremo quattro giorni per giungere a Golbas» puntualizzò Urizen che nel tardo pomeriggio aveva lasciato il comando del castello ad uno dei suoi sottoposti.

    Le stalle erano gli unici ambienti ad apparire maltenuti, malgrado la mancanza di igiene però gli animali si presentavano in buono stato. Monar si apprestò a salire su di un piccolo destriero, sovrastato da Jonat, in sella ad un poderoso cavallo da tiro. I quattro ricontrollarono l’equipaggiamento, poi partirono al galoppo. Le figure avvolte in lunghi mantelli si diressero verso il ponte levatoio, opportunamente abbassato. Una volta all’esterno gli uomini rimasti nel castello azionarono gli ingranaggi per richiudere l’ingresso. Urizen non si volse mai indietro, si fidava ciecamente del suo sistema di difesa. Altre volte si era allontanato per giorni e non vi era mai stato alcun disguido nella sorveglianza del tesoro. I suoi mercenari conoscevano il pericolo a cui andavano incontro se avessero peccato di avidità. Del resto con la paga che percepivano non conveniva loro cedere ad eventuali colpi di testa. Ad ogni modo le premure del mezzodemone nei confronti delle sue ricchezze andavano via via affievolendosi. Urizen aveva sperimentato una nuova emozione umana, per la quale ciò che tanto aveva bramato in passato era divenuto un qualcosa di normale, di risaputo. Poco dopo il suo insediamento nella contea dei Toe, la ricchezza acquisita conferì l’appagamento agognato. Tuttavia quella condizione si era offuscata con il trascorrere dei cicli. La realtà era che una tale somma di denaro avrebbe distorto lo stile di vita di chiunque. Guadagnare altre ricchezze non aveva più senso, prendere parte alle ultime missioni era stato come per un umano nutrirsi di cibo senza percepirne il sapore. Suo malgrado Urizen aveva iniziato a sentirsi inutile, le uccisioni commissionate in quegli anni erano divenute inutili passatempi. Nelle ultime occasioni aveva addirittura demandato l’incarico ai propri uomini. Ciò che davvero gli mancava era l’epicità delle battaglie passate. In particolare, Urizen desiderava rivivere le emozioni di un tempo, l’eccitazione in seno ad uno scontro decisivo, dal finale in bilico tra la vita e la morte. L’ardore nell’affrontare un rivale all’apparenza imbattibile non era altro che un labile ricordo. Con l’arrivo del vampiro però tutto era cambiato, una missione potenzialmente mortale capace di regalare gli stimoli perduti. Urizen decise di impegnarsi al massimo e mostrare al vecchio compagno che il suo spirito combattivo non si era del tutto assopito.

    Monar procedeva in silenzio, fissava i due mercenari al loro seguito con aria perplessa. Non si capacitava di come il mezzodemone riponesse tanta fiducia in semplici esseri umani. Fin dai primi momenti in cui lo aveva conosciuto Urizen aveva dimostrato insofferenza verso tutte le altre razze del continente. Il vampiro perciò non poté che imputare la colpa di tali stranezze allo scorrere del tempo, il cui sfacelo aveva effetti persino su di un animo roccioso quanto quello del compagno.

    La marcia proseguì avvolta da un rigoroso silenzio, tanto che i due amici d’armi stentarono a parlarsi. Jonat era il più taciturno, le sue labbra rimanevano serrate anche durante le discussioni alla luce del bivacco. Il vampiro non interpellò mai i due umani, per lui era come se non esistessero. La loro presenza in quella missione era ininfluente, all’interno della gilda non avrebbero resistito neanche un giro di clessidra.

    Il gruppo avanzò fino alla grande pianura antistante la capitale del Regno di Damar. Il Ciclo di Sarmarant regalava ancora giornate torride, dal terreno si levavano onde di calore che distorcevano le possenti mura di Golbas, in lontananza. Erano ormai quattro anni che Urizen non vi faceva più ritorno. Nell’ultimo periodo non aveva avuto occasione di oltrepassare la doppia cinta in neviana, le sue missioni si erano spinte al massimo fino al cuore della Foresta di Nurien. Il mezzodemone comunque impiegò poco per notare la presenza di alcune fattorie puntellare il territorio erboso in prossimità dell’ingresso sud. Monar spiegò che, sebbene Golbas fosse stata distrutta dagli elfi oscuri, i damariani si sentissero più protetti nelle sue vicinanze. Pertanto, coloro che se lo potevano permettere, si erano trasferiti in quel luogo. Ciò aveva contribuito a rendere lo scenario più simile a quello offerto da Daren, sede della corona di Karim.

    Giunti in prossimità della cinta muraria Urizen si accorse che la prima linea difensiva era stata alzata ulteriormente. Ad una certa altezza era distinguibile la demarcazione tra la parte sottostante, più vecchia, e quella nuova, più chiara.

    «Golbas è stata in gran parte ricostruita. Karn Stobergal ha agito con la precisa intenzione di farla ritornare agli antichi splendori. Per tali motivi impartì l’ordine di riedificarla com’era prima della guerra» raccontò Monar.

    Alek e Jonat seguivano in silenzio. Nessuno di loro aveva mai varcato l’ingresso di quella città. Entrambi avevano visto la prima luce fuori da quei confini ed il loro stile di vita mal si addiceva a quello dei golbassiani. Per alcune centinaia di braccia rimasero ad ascoltare i ricordi di Urizen e Monar, divenuti ad un tratto sorprendentemente loquaci. La conversazione svanì solo quando ebbero raggiunto alcune figure di guardia poste all’ingresso sud.

    «In seguito alla bruciante sconfitta contro Kelven, Golbas ha reagito introducendo un controllo capillare di ogni straniero in visita alla città. Noi però godiamo di certi privilegi» puntualizzò il vampiro.

    I due mercenari si scambiarono sguardi sorpresi. Entrambi conoscevano le gesta del loro signore, determinanti per la vittoria degli alleati sull’orda bestiale che attaccò Doral’Har. Tuttavia l’epica battaglia era avvenuta lontano dal nord, là dove gli occhi dei bardi non potevano scorgere. Erano state le testimonianze dei fanti sopravvissuti ad alimentare le ballate che riecheggiavano nelle taverne. Per lo più si trattava di racconti confusi, memorie rese nebbiose per via della fatica e del caos presenti durante lo scontro. Urizen ne era stato il protagonista, ma i mercenari ignoravano la portata della sua fama all’interno del regno.

    In prossimità del portone vi era una folla urlante. Commercianti, venditori di vasi e proprietari di bancarelle ambulanti esternavano la loro disapprovazione nei confronti di un controllo fin troppo scrupoloso. I guerrieri, forti della loro stazza, si fecero largo nel mezzo della calca. Raggiunto il punto di ispezione Monar venne riconosciuto dal capo guardia, così l’intero gruppo venne lasciato passare senza che gli venisse mossa alcuna raccomandazione. Addirittura alcuni soldati accennarono un breve inchino al loro passaggio. Quell’episodio generò perplessità nel volto del mezzodemone. Non si aspettava un simile benvenuto da parte delle guardie reali.

    «Il nostro passato non ci ha fruttato solo grandi ricchezze, ma anche una fama leggendaria. Qui a Golbas sono molte le milizie pronte a rendere omaggio agli Eroi di Doral’Har!» spiegò il non morto con tono solenne, poi si rabbuiò «Berzac Mei ha rilasciato disposizioni chiare riguardo la nostra missione. Ci ritireremo in una locanda fino al calar del sole» concluse non appena si ritrovarono davanti alle stalle.

    Mentre procedevano a piedi per i canaletti ricostruiti Urizen si accorse di provare un velato disagio. Era come se, accanto alle immagini della città ricostruita, figurassero i medesimi scorci al tempo della devastazione. Nonostante gli anni trascorsi l’odore di morte non aveva ancora abbandonato del tutto i canaletti della capitale. E il fatto che lui ne risultasse così sensibile era la prova che quell’esperienza lo avesse segnato più di quanto immaginasse. Tutto ciò faceva parte di un lento processo di umanizzazione che, oltre alla sua psiche, aveva intaccato anche il suo fisico. Negli ultimi tempi i poteri demoniaci si erano affievoliti, la magia che ne derivava, al pari della rigenerazione stessa, non si presentavano più agli stessi livelli del passato. In principio Urizen aveva faticato ad accettare un simile destino, era giunto quasi ad ingannare sé stesso per convincersi del contrario. Ma ad ogni utilizzo vedeva i propri incantesimi indebolirsi, come se attingesse ad una risorsa prossima all’esaurimento. La prospettiva di rimanerne privo, un giorno, aveva addirittura condannato il guerriero a trascorrere notti insonni. Da allora la pace interiore era divenuta l’unica merce che il suo denaro non poteva acquistare.

    La mattina successiva gli avventurieri si ritrovarono nel bel mezzo della folla che popolava le vie della capitale. Il lutto per la morte del re Karn Stobergal, avvenuta mezzo ciclo prima, aveva fermato tutte le attività commerciali per quasi un’intera ventalba. Urizen si guardò attorno con sguardo tagliente. Ovunque erano presenti dipinti e altari dedicati al sovrano defunto. Il cordoglio generale che appesantiva l’animo dei suoi sudditi era evidente, ne rabbuiava le espressioni, ne rallentava i passi. Per il resto Golbas era stata quasi del tutto ricostruita. I canaletti e i caratteristici viottoli erano tali e quali a come si presentavano prima dell’attacco di Kelven. Con ogni probabilità una simile opera di restauro aveva dilapidato le riserve economiche del regno. Forse era stata proprio quella fonte di stress a condannare l’anziano Karn Stobergal ad una morte improvvisa.

    Monar procedeva con fare sicuro. Dietro di lui Alek e Jonat a stento guardavano dove mettevano gli stivali, i loro sguardi rimanevano ammaliati dai corsi d’acqua che si diramavano in tutte le direzioni. Nessuno di loro aveva mai visitato una città tanto popolosa, né opere architettoniche di tale rilievo.

    I cittadini facevano spazio al gruppo in avanzamento, senza mancare di rivolgere sguardi minacciosi nei confronti degli stranieri. Monar spiegò che, in seguito alla distruzione avvenuta per mano di Kelven, parte della popolazione era divenuta xenofoba. Come prevedibile la guerra aveva lasciato un segno indelebile nelle menti degli abitanti, a nulla erano servite le rassicurazioni da parte dei funzionari reali. Il mezzodemone si sentiva al centro dell’attenzione, all’opposto di ciò che era avvenuto nel corso della sua prima visita. Anche Alek sperimentò quella nuova tendenza, rilevando atteggiamenti colmi di diffidenza da parte di alcune fanciulle incrociate lungo il tragitto. Jonat rimaneva il più refrattario nei confronti delle attenzioni che gli venivano rivolte. Data la sua stazza era abituato a sentirsi addosso gli occhi dei curiosi. Il suo interesse si rivolgeva ai luoghi di culto incrociati lungo il percorso, la maggior parte dei quali consacrati alla divina Akabel. Lui non aveva mai reputato saggio concedere attenzioni ad un solo dio, ciò non avrebbe fatto altro che indispettire gli altri. A suo modo di vedere la cerchia divina andava osannata nella sua completezza, era l’unico modo per evitare infauste ritorsioni.

    Poco dopo la comitiva giunse nella piazza principale avvolta da una gran quantità di bancarelle ambulanti. Il mercato avrebbe occupato tutto lo spazio se non fosse stato per una statua che celebrava la vittoria dei fanti di Damar in occasione della battaglia di Doral’Har. L’opera raffigurava i soldati sopravvissuti sollevare in aria gli Elitar in segno di vittoria. La figura centrale rappresentava Artret Jolgonar, considerato da tutti il fante più valoroso dell’intero ordine. Il blocco in marmo si trovava ad un centinaio di braccia dai cancelli del palazzo reale, simboleggiava l’orgoglio patriottico per il successo ottenuto sul nemico.

    Ad eccezione di quel particolare Urizen non notò alcuna differenza rispetto a come si presentava il centro di Golbas prima dell’attacco. La ricostruzione era comunque in via di completamento, un traguardo notevole considerando il poco tempo trascorso dalla fine della guerra.

    Il tragitto terminò innanzi ad una locanda a pochi passi dalla piazza. I quattro entrarono, si sedettero al bancone e ordinarono da bere. Lo sgabello di legno scricchiolò sotto al peso di Jonat, il quale si guadagnò gli sguardi dei presenti.

    «Non si può certo dire che passiamo inosservati» commentò divertito Monar, ma l’occhiata gelida del mercenario lo indusse a cambiare discorso.

    Alek si guardava attorno. Vi era una fibrillazione palpabile. A quanto pareva un certo Balkur Kolar, Primo Paladino dell’ordine della Sacra Giustizia di Akabel, era stato ucciso in circostanze misteriose durante una missione. Altre voci invece paventavano l’arrivo al nord di una malattia pestilenziale, responsabile di innumerevoli morti nel sud del continente.

    «Cosa sappiamo di Kolligar?» domandò Urizen senza curarsi delle notizie del giorno.

    «Molti anni fa egli faceva parte dell’organizzazione di vampiri sotto il comando di Lozar. Dopo di lui era il membro più anziano e potente della gilda. Tuttavia, nonostante il rango elevato, la sua eccessiva spietatezza gli ha sempre impedito di agguantare il potere. Ora che vi è riuscito sta divenendo una minaccia infausta. Dev’essere fermato» raccontò il vampiro.

    Alek lo fissò con aria interrogativa.

    «Quanto sono vasti gli spazi sotterranei di cui dispone Kolligar?».

    «Molto vasti. Dobbiamo sapere con precisione in che punto entrare in modo da non dover rimanere a lungo all’interno» spiegò Monar, poi continuò «In base alle mie fonti stanotte dovrebbe avere luogo un avvenimento importante nelle sale che un tempo appartenevano a Lozar».

    «Come entriamo?» chiese Urizen.

    «Quella zona si raggiunge dalle fogne, tramite un vecchio passaggio segreto che utilizzai anni fa per fuggire da Golbas. Vi accederemo attraverso un tombino posto in un viottolo, in uno dei quartieri sud».

    «Quanti non morti troveremo all’interno?» domandò Jonat.

    Per la prima volta il vampiro udì il timbro della sua voce: era grave, cavernicolo, coerente con l’aspetto del guerriero.

    «In gran numero temo, ma la maggior parte di loro presenzierà all’evento».

    Poi Monar si volse verso Urizen.

    «Suppongo che i tuoi uomini non abbiano mai affrontato situazioni di questo tipo» parlò come se i due non fossero presenti.

    «Noi siamo equipaggiati per affrontare creature di qualsivoglia natura!» ribattè sprezzante Jonat prima che il mezzodemone aprisse bocca.

    «In realtà ciò non ha alcuna importanza» ironizzò Monar «Poiché la vostra presenza è comunque da escludersi».

    «Che cosa?» esplose il guerriero corazzato alzandosi in piedi «Ci state dando dei poppanti? Perché non venite fuori che vi mostro a che distanza vi scaglio con un pugno?».

    Tutti i presenti si girarono, terrorizzati.

    «Calmati, Jonat!». La mano di Urizen invitò il compagno a sedersi. «Monar ha ragione. Non è la vostra abilità ad essere messa in discussione, bensì la vostra stessa natura. In quanto umani, anche se camuffati, rimarreste comunque rilevabili da un vampiro».

    «Un mio simile può fiutare l’odore della vostra linfa vitale anche a duecento braccia di distanza» aggiunse Monar.

    Alek fissò l’espressione interdetta di Jonat che solo allora prese atto di chi aveva davanti. Quella rivelazione lo indusse a calmarsi.

    «Perché dunque richiedere la nostra presenza?» domandò infine rivolto ad Urizen.

    «Voi rappresentate il piano di riserva. Se qualcosa dovesse andare storto o se dovessero inseguirci, toccherebbe a voi darci man forte. In caso contrario aspetterete in superficie» concluse il mezzodemone con un tono che non lasciava spazio ad altre obiezioni.

    Monar rimase sorpreso dal breve scambio di battute. Considerava il compagno un individuo solitario, avvezzo al carisma come una lama arrugginita lo era al taglio. Quei quattro anni trascorsi con i suoi mercenari invece lo avevano reso un vero e proprio comandante.

    Il piano di azione venne quindi stabilito. I mercenari annuirono con espressioni di evidente disappunto, tuttavia, compresero che la situazione non poteva essere gestita diversamente.

    Una notte frizzante svuotò le strade della capitale e indusse i cittadini a ritirarsi nelle proprie abitazioni. Tra i canaletti deserti diramò un’atmosfera piatta, priva di vita. Gli avventurieri procedevano celati da lunghi mantelli, si spostavano di angolo in angolo, superando ponti e addentrandosi in vicoli angusti. Durante la marcia incrociarono gruppi di soldati diretti verso i quartieri più malfamati. Monar conosceva la capitale a menadito, si mosse sfruttando il percorso più lugubre. Dopo alcuni giri di clessidra giunsero nel punto descritto alla locanda: un passaggio stretto, delimitato ai lati da alte pareti. Nessuno avrebbe potuto immaginare che quel luogo celasse uno degli ingressi alla gilda di Kolligar. I guerrieri rimasero guardinghi nel tentativo di sottrarsi ad occhi indiscreti. Gli spostamenti di Jonat erano rumorosi a causa dell’armatura che sfregava negli spazi limitati, pertanto, venne esortato ad attendere fuori dal vicolo assieme ad Alek.

    Urizen e Monar si fermarono davanti ad un tombino in metallo che conduceva alle fogne. Penetrarono nei sotterranei della città davanti agli sguardi ansiosi dei compagni, poco distanti.

    «Se non faremo ritorno prima dell’alba sapete come agire» si raccomandarono quasi del tutto fagocitati dalle tenebre più profonde.

    Le fogne di Golbas erano composte da freddi cunicoli in pietra dove un odore nauseabondo faceva di ogni angolo la propria dimora. Gli Eroi di Doral’Har erano immersi in una melma orripilante fino agli stivali, un vento fetido faceva ondeggiare loro i capelli. La luce di Talagrun filtrava a ritmi alterni dalle grate sul soffitto, creava coni di luce simili a colonne in neviana. Quel luogo avrebbe rievocato nella mente di chiunque i suoi incubi peggiori, ma per i guerrieri non si trattava altro che di una sudicia cloaca.

    «Il passaggio segreto non è distante» anticipò Monar.

    I due si spostarono tentando di respirare il meno possibile. Dopo una serie di svolte si fermarono innanzi ad un mattone scuro che sporgeva dalla parete liscia del cunicolo.

    «Bene, è ancora qui» sorrise il non morto, dopodiché spinse la protuberanza.

    Una porzione di muro alla loro destra si aprì in seguito ad un rumore sordo. Urizen e Monar si inoltrarono lasciando il passaggio aperto alle loro spalle. Le scale scendevano nel sottosuolo umido di Golbas, fino ad arrivare ad una scura porta in metallo. Fino ad allora non erano incappati in nessun imprevisto. Prima di partire Monar temeva che il bombardamento subito dagli elfi di Kelven avesse distrutto buona parte di quei tunnel, ma ciò non era avvenuto.

    «Oltre questa soglia dovrebbe esserci una sala dove i vampiri, al tempo di Lozar, gettavano i corpi degli umani che avevano dissanguato. Non sarà uno spettacolo piacevole» sussurrò dopo che ebbe aperto la porta con apparente facilità.

    La stanza, dalla forma rettangolare, era spaziosa, completamente occupata da casse in legno. Non vi era traccia di alcun cadavere. Il buio era interrotto da alcune torce, sebbene i vampiri non ne necessitassero.

    «Credo si tratti di un magazzino…» considerò Monar, sorpreso.

    Urizen si avvicinò all’unica parete rimasta libera dalle casse, una porta si confondeva con la roccia scura del muro.

    «Questo accesso è chiuso dall’esterno» riferì nell’impossibilità di scovare le maniglie.

    Il compagno si avvicinò, appoggiò un orecchio sulle fredda superficie, poi scosse la testa.

    «Sfondarla aumenterebbe il rischio di essere scoperti, dobbiamo individuare un’altra via». Subito dopo indicò un’apertura sul soffitto grande abbastanza da permettere il passaggio ad un individuo per volta.

    «Lozar e gli altri si servivano di quel cunicolo per gettare i cadaveri degli umani utilizzati come fonte di sostentamento».

    «Dove conduce?» domandò il mezzodemone.

    «Ad una sala adibita al nutrimento, ma non è detto che sia ancora così».

    Urizen e Monar movimentarono alcune casse per diminuire la distanza dal soffitto. Ad operazione avvenuta salirono sulla pila e con un salto si introdussero nell’angusto cunicolo. In principio fu arduo superare il primo tratto in pendenza. Se il grasso presente non si fosse ormai essiccato la risalita sarebbe stata impossibile. Successivamente il percorso divenne più agevole. L’interno era stretto, lo spallaccio appuntito di Urizen sfregava nelle pareti producendo pericolosi stridii. Benché fosse trascorso molto tempo dall’ultimo utilizzo, l’odore di sangue non aveva del tutto abbandonato quel passaggio. Monar notò come le superfici presentassero ancora i segni dei cadaveri che vi erano passati.

    Compiute alcune decine di braccia sulla nuda pietra i gomiti dei guerrieri poggiarono su assi di legno, aggiunte probabilmente in seguito ad un crollo della roccia. Urizen era il primo, sentiva la struttura scricchiolare sotto al suo peso. Sfruttando una fessura tra le assi si accorse di essere ad una notevole altezza, rasente al soffitto di una qualche sala della gilda. Informò il vampiro alle sue spalle il quale lo esortò a distribuire il peso in modo più uniforme possibile. Quell’ultimo accorgimento permise ai due di superare indenni il fragile tratto.

    Poco oltre una luce fioca quanto quella di una candela comparve davanti agli occhi del mezzodemone: avevano raggiunto la fine del cunicolo. Una grata di ferro arrugginito si affacciava su di un ambiente dal quale proveniva un costante brusio. In quel punto vi era più spazio, ciò permise agli intrusi di affiancarsi per osservare la situazione dall’alto. Ai loro occhi si presentò una stanza dalla forma ovale, colonne e soppalchi in legno reggevano la volta rocciosa, senza tuttavia disturbare la visuale. Più in basso una ventina di torce poste sulle pareti illuminavano un centinaio di vampiri, alcuni dei quali celavano il viso dietro maschere abominevoli. Il centro della sala era occupato da un tavolo rettangolare, presieduto da una coppia di loschi personaggi. Tutti i presenti vennero zittiti non appena la conversazione ebbe inizio.

    «Kolligar!» sussultò Monar indicando il non morto dai lunghi capelli bianchi che sedeva ad un’estremità del tavolo.

    «Ma l’altro chi è?» sussurrò il mezzodemone.

    L’ospite non aveva le sembianze di un vampiro. Da ciò che si poteva scorgere era magro, i capelli e il pizzetto erano color nocciola, mentre gli occhi azzurri riflettevano i bagliori delle torce. Le dita affusolate giochicchiavano con alcune monete d’oro, oltre ad un mantello scuro non era possibile distinguere altro. Lo sguardo dell’uomo pareva scaltro, puntava il signore della gilda con fare quasi beffardo. La conversazione era alle prime battute, gli avventurieri smisero di respirare nel tentativo di udire le parole che rimbalzavano di colonna in colonna.

    «La vostra accoglienza in grande stile mi onora, Kolligar» cominciò l’ospite sconosciuto.

    Le monete tra le sue dita proiettavano riflessi dorati sulle pareti ad ogni volteggio. Nel parlare dava l’impressione di essere a suo agio, sebbene circondato da decine di non morti. Il vampiro, compiaciuto da quella cordialità, si accarezzò le ciocche bianche, poi rispose con voce sibilante.

    «Siete il benvenuto mio caro Morden Kastins. Voi e la vostra organizzazione vi siete guadagnati le informazioni che cercavate, svolgendo il vostro compito egregiamente».

    Urizen osservò il compagno con espressione persa. Non aveva mai sentito parlare di quell’uomo, tuttavia, qualcosa nel suo aspetto lo riconduceva ad un avversario già incontrato in passato: Brill Megren. Monar appariva a sua volta disorientato. Di rado i membri della sua razza si mettevano in affari con gli umani. Si rese conto che i tempi erano cambiati e che Kolligar era pronto a tutto pur di portare a termine i suoi piani.

    «L’assassinio di Karn Stobergal non è stato esente da rischi, ma alla fine il vecchio ha tirato le cuoia, con buona pace della divina Akabel» rispose spavaldo Morden sprofondando nella sedia. Le monete continuavano a percorrere le dita protette da guanti color carbone.

    Monar e Urizen si fissarono a lungo, ognuno formulò pensieri contrastanti. In seguito alla morte del sovrano di Damar erano giunte notizie poco chiare. C’era chi parlava di cause naturali, altri sostenevano motivi accidentali, alcuni addirittura paventavano un’uccisione programmata. Evidentemente quegli ultimi erano gli unici ad avere ragione. Il vampiro assottigliò lo sguardo nel vano tentativo di scorgere maggiori dettagli dell’assassino. Trovava impensabile che qualcuno arrivasse a tanto. Karn Stobergal trascorreva le sue giornate rinchiuso nel palazzo reale, una vera e propria fortezza. Schiere di soldati e guardie personali lo proteggevano giorno e notte. Ma allora come aveva fatto quell’individuo a compiere l’uccisione? Una sola cosa a quel punto era certa: Morden Kastins non era un criminale qualunque. Urizen venne messo in allarme dal suo sesto senso. Qualcosa gli diceva che la presenza di quell’uomo non sarebbe stata effimera.

    Nel frattempo la conversazione continuava.

    «Ora che è salito al trono il giovane e ingenuo Lintor Stobergal nessuno sarà più in grado di fermarmi. Il controllo della città presto sarà mio» commentò Kolligar la cui risata forzata era più simile al verso di uno strano animale.

    «Non intendo indugiare oltre sulle vostre brame di conquista, è tempo che facciate la vostra parte. Rivelatemi tutto quello che sapete riguardo alla Chiave di Pancor!». Lo interruppe bruscamente Morden, ma non fece in tempo a terminare la frase che i vampiri attorno reagirono, minacciosi. Occorse un gesto del loro signore per riportare la calma all’interno della stanza.

    «Mio caro Morden, io sono un vampiro di parola e vi rivelerò ciò che so, come pattuito. Si dice che la Chiave di Pancor abbia le sembianze di un cubo al cui interno arda una forma di magia...dimensionale» fece una pausa.

    Urizen e Monar si scambiarono ancora espressioni vuote. Quella situazione stava regalando loro una gran quantità di informazioni. Nelle menti di entrambi crebbe il sospetto che l’uccisione del re di Damar fosse parte di un piano ben più articolato.

    «L’artefatto si trova a nord dell’isola di Zaren. C’è un villaggio all’interno del quale un tempio consacrato al Culto di Miria, la Dea dai Cinque Occhi, custodisce l’oggetto che vai cercando».

    «Abbiamo udito anche troppo». Monar decise di fare ritorno al palazzo reale. L’entità di quella scoperta lo costrinse a rivedere le priorità della missione. La prima cosa da fare era informare Berzac Mei, alla luce di quanto appreso Kolligar era divenuto di secondaria importanza. Di fronte all’improvvisa ritirata Urizen protestò. Non aveva aderito alla causa per fuggire davanti ad avversari degni di loro. Con sussurri strozzati tentò di trattenere il vampiro, il quale si mostrò irremovibile. L’unico pensiero di Monar era quello di fare rapporto e successivamente decidere il da farsi. Solo così poteva sperare di proteggere la sua patria.

    I guerrieri seguirono il percorso a ritroso, quando si ritrovarono a percorrere le assi di legno però un cedimento li colse impreparati. La foga dei loro movimenti aveva causato la rottura della porzione ricostruita del cunicolo. Urizen si sentì cadere nel vuoto finché non impattò sul pavimento sottostante. Monar fece altrettanto, non ebbe neanche il tempo di tramutarsi in pipistrello. Entrambi ripresero conoscenza mentre rivoli di polvere si addensavano sui loro volti. I due si ritrovarono all’interno di un antico teatro malridotto. Attorno vi erano file scomposte di seggiole, sulle pareti semi circolari si affacciavano decine di loculi tappezzati da chiazze di sangue. L’ambiente era in parte illuminato da alcune torce, ormai in fin di vita. Gli Eroi di Doral'Har erano precipitati al centro della stanza, sopra di loro era visibile la rottura che li aveva traditi. Sul fondo dello spazio un palco si reggeva in piedi a fatica. Monar scosse la testa per liberare la capigliatura dalla polvere che vi si era accumulata sopra. Non aveva mai visto un ambiente simile all’interno di una gilda di vampiri. Si chiese che utilizzo avesse, ma una volta in piedi rilevò presenze in avvicinamento. I guerrieri si guardarono attorno, in silenzio. Nonostante ad occhio nudo non fosse visibile né udibile alcun pericolo, sapevano che più figure li stavano osservando. All’improvviso una ventina di ombre fuoriuscì dall’oscurità, parte dei vampiri della gilda si presentò ben presto alla luce delle torce. Urizen li osservò: erano allampanati, la vita aveva abbandonato le loro espressioni lasciando fattezze da incubo a caratterizzarne i tratti. Vestivano di stracci, gli sguardi assetati di sangue erano tanto inquietanti quanto i canini ben in vista. Al mezzodemone parve incredibile quanto il loro aspetto differisse da quello di Monar. Solo allora capì il motivo per il quale i vampiri incutessero tanto timore agli umani. Senza perdere altro tempo Urizen mise mano all’elsa magica, intenzionato ad eliminare quegli esseri più simili a cani rabbiosi che a potenti non morti. Anche l’espressione di Monar brillò di determinazione, non temeva l’idea di uccidere altri membri della sua stessa razza.

    In pochi istanti l’aria piatta della stanza venne sconvolta dai sibili spettrali dei nemici. Gli Eroi di Doral'Har si trovavano spalla a spalla, fissavano i volti indemoniati di chi sbarrava loro ogni via di fuga. Lo scontro apparve inevitabile ma, a dispetto di una schiacciante superiorità numerica, nessuno prese l’iniziativa.

    Poco dopo Kolligar fece la sua comparsa dall’ingresso in fondo al teatro, scortato da tre figure mascherate. Il cerchio che cingeva la posizione degli intrusi si aprì, permettendo il passaggio al signore della gilda.

    «Mio caro Monar, davvero credevi di poterti celare a me?».

    Monar digrignò i denti con la Lama dei Dannati stretta nella mano destra.

    «Osservate un vampiro reso schiavo dagli umani, il nostro cibo. Egli veste, parla, persino respira come loro. Non mi sorprenderebbe se venerasse anche i loro stessi dei. Non vedo alcun limite nel baratro all’interno del quale sei caduto! Se ti fossi unito a me, se avessi rinunciato a sfidare Lozar e se mi avessi aiutato a salire al potere saresti il mio discepolo prediletto».

    Monar fissò il capo della gilda con occhi di sfida.

    «Qui, ora!» tuonò facendo sussultare i presenti «Compirò

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