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I memoriali di Lorlh. Urizen il mezzodemone
I memoriali di Lorlh. Urizen il mezzodemone
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E-book704 pagine10 ore

I memoriali di Lorlh. Urizen il mezzodemone

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Info su questo ebook

Il primo libro della collana, intitolato "Urizen il Mezzodemone", narra le vicende di un tormentato mezzosangue perennemente afflitto dalla lotta interiore tra la natura demoniaca e quella umana. Il percorso alla scoperta del proprio io lo condurrà alla ricerca di un tempio leggendario, mentre sullo sfondo l'intero continente è minacciato dalla brama di conquista da parte degli elfi oscuri di Kelven.
LinguaItaliano
Data di uscita26 set 2023
ISBN9791220365260
I memoriali di Lorlh. Urizen il mezzodemone

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    Anteprima del libro

    I memoriali di Lorlh. Urizen il mezzodemone - Filippo Samorè

    Il vecchio mendicante

    Anno 1798 dalla Caduta di Lorlh, paese di Dunval.

    Il sole era alto in cielo quando gli schiamazzi di Varn riecheggiarono nella piazza principale di Dunval. Era una fresca mattina, la luce si alternava a nuvole bianche che riversavano a più riprese sporadici acquazzoni. Il paese non contava più di cinquecento abitanti i cui affari quotidiani si dividevano tra allevamento, agricoltura e il commercio di spezie. Varn, un giovane di tredici anni dalla folta capigliatura scura, era l'unico figlio di Bamop, il proprietario dell’emporio di Dunval. La madre era morta durante il parto, pertanto gli amici di famiglia si prendevano cura del fanciullo quando il padre era assente per lavoro. Nonostante la mancanza di una figura materna Varn era cresciuto sano e allegro. Un giorno avrebbe ereditato la proprietà dell’emporio, perciò nel frattempo poteva sollazzarsi assieme ai suoi amici. Il gruppo era composto da alcuni rampolli appartenenti alla borghesia di Dunval. Le loro giornate trascorrevano tra giochi, inseguimenti e arrampicate sugli alberi. In particolare la passione che li accomunava era la rievocazione delle antiche leggende narrate dai bardi. Quegli ultimi solevano risiedere in una delle due locande del paese, il Boccale d’Oro. L’edificio si trovava a ridosso della piazza principale e la sera ospitava al pianterreno gli uomini più in vista di Dunval. Bamop ne era un assiduo frequentatore, giocava a carte, beveva e discuteva riguardo agli argomenti più interessanti del periodo. Per Varn e compagni non vi era posto migliore dove catturare la linfa vitale per le loro fantasie. Ogni qual volta la locanda ospitava un errante era sempre considerato un evento raro. A quanto pareva il continente era scarsamente popolato, molti ne attribuivano le cause ad un’oscura apocalisse avvenuta mille anni prima di allora. Nessuno sembrava conoscerne l’origine, neanche gli studiosi e i pochi archeologi ancora intenti nelle ricerche. Varn aveva udito i bardi riferirsi a quell’epoca con l’appellativo di Grande Buio, per via della mancanza di documenti storici in grado di far luce sull’accaduto. Quell’argomento teneva spesso banco tra i tavoli della locanda, tra boccali di birra e idromele. Bamop e gli altri commensali erano soliti lasciarsi andare in astruse congetture, mano a mano che l’ebbrezza si impadroniva delle loro menti. Per Varn e i suoi amici quelle erano ottime occasioni per dare vita ad avventure mirabolanti. Uno tra i loro giochi preferiti era quello di celarsi all’interno del pianterreno per sfuggire allo sguardo severo del locandiere.

    Di giorno Dunval si trasformava in un enorme teatro in cui le fantasie dei giovani prendevano vita. Le loro ambientazioni preferite erano la piazza principale, un laghetto in periferia e il fiume Lagrem che scorreva non lontano dal paese. All’interno del gruppo Varn era il più grande, perciò spettava a lui interpretare il ruolo degli avventurieri più famosi mai esistiti: il ranger Ferwee, Bolar Tras e tanti altri.

    Nel corso di quell’ultimo Ciclo di Torgarant il luogo migliore per divertirsi era il grande ciliegio nel bel mezzo della piazza di Dunval. A causa dei violenti schiamazzi però i mercanti delle bancherelle avevano costretto i molestatori a spostarsi altrove. Un giorno, nei pressi del fiume Lagrem, il gruppo stava rievocando le mitiche gesta di Naikel Der, eccezionale ranger dotato di misteriosi poteri. Varn si stava muovendo tra le rocce quando all’improvviso scorse un cumulo di stracci dietro un cespuglio di umida sterpaglia. Da tempo il giovane si vantava di essere il membro più avventuroso della loro cerchia, pertanto si avvicinò con l’intenzione di pervenire ad un’eventuale scoperta. Gli occhi color nocciola impiegarono qualche istante per riconoscere la figura di un uomo raggomitolato su sé stesso. Le ombre annidate in quell’angolo non permisero di evidenziare ulteriori dettagli. L’aspetto dell’individuo era lugubre. Il volto, lungo ed emaciato, denotava uno stato di denutrizione, gli occhi erano incavati e i capelli bianchi scendevano gretti fin sotto le spalle. Le dita, nere per la sporcizia, erano ossute, quasi scheletriche. Il corpo apparve ricoperto da una veste color sabbia, strappata in più punti. Un odore nauseabondo permeava l’aria intorno allo sconosciuto, quasi si trattasse di un meccanismo di difesa. Se non fosse stato per il respiro appena percettibile Varn lo avrebbe di certo dato per morto. Il vecchio sembrava assopito, al punto da non reagire alla rumorosa sorpresa del giovane. Benché non fosse la prima volta che vedeva un mendicante, Varn rilasciò una sonoro richiamo. La fierezza per la scoperta appena effettuata ebbe la meglio sulla prudenza, così i compagni vennero chiamati a raccolta. Tutti giunsero in evidente stato di eccitazione, osservarono in silenzio fino a quando Mirl, il più piccolo, notò la presenza di un medaglione. Varn si fece largo per osservare meglio, si rimproverò per non averlo visto lui per primo. Era un pendente incredibile, assicurato al collo dell’uomo per mezzo di una catenella dalle maglie molto fini. Raffigurava una goccia rossa contornata da due anelli d’oro concentrici. Varn rimase come ipnotizzato innanzi a tanto splendore. Il suo sguardo si perse nell’architettura dell’oggetto. Quella forma poteva essere ricondotta ad alcuni cimeli adocchiati tra i libri dell’unica biblioteca presente a Dunval. Poco più indietro Mirl e gli altri intimarono di allontanarsi, quel mendicante appariva poco raccomandabile ed incuteva un certo timore nell’animo di tutti. Varn tuttavia non voleva andarsene, non prima di aver dato un’occhiata al medaglione luccicante. In piccolo gli sembrava di vivere la sua avventura personale e quel pensiero ebbe la meglio su ogni esitazione. Il giovane si avvicinò con la mano protesa in avanti, mentre l'oggetto si rifletteva nei suoi occhi espressivi. Ad un tratto però si accorse di non poter proseguire per colpa del terreno accidentato. Senza pensarci due volte Varn si protese in avanti, reggendosi con una mano ad uno spuntone roccioso. Gli amici rimasero in trepidante attesa quando, di colpo, videro il compagno rovinare sul mendicante. Quell’ultimo si svegliò di soprassalto, allontanò il giovane con apparente facilità. Mirl, Jar e Lartik fuggirono via terrorizzati. Varn ruzzolò in prossimità del fiume, contro un macigno dalla liscia superficie rocciosa. Rimase fermo, impietrito, mentre lo sconosciuto fuoriusciva dalle ombre con la stessa movenza di un mostro sotterraneo. Il cappuccio dalla forma appuntita impediva alla luce del giorno di raggiungergli il volto. In principio il vecchio apparve contrariato poi, alla vista di colui che lo aveva destato, si calmò.

    «Alfin sei giunto» cominciò con voce ferma, controllata.

    Varn non capì, ebbe come l’impressione di essere atteso. Rimase fermo a terra, appoggiato su di un gomito. L’unica cosa che udiva era il battito cardiaco risuonargli nel petto. L’uomo prese il medaglione con le dita ossute, lentamente lo portò alla luce del sole.

    «Non mi sorprende che tale oggetto abbia attratto il tuo sguardo, non hai la minima idea di quali segreti si celino tra le sue trame» fece un breve pausa, poi continuò «Tu devi essere Varn di Dunval, il figlio di Bamop, non è così?».

    Varn rimase senza fiato. Non solo lo sconosciuto aveva indovinato il motivo del suo interesse, sapeva anche il nome suo, di suo padre e del villaggio in cui era cresciuto. In principio giudicò surreale quella conversazione, ma dopo qualche attimo si tranquillizzò. Nei dintorni Bamop era conosciuto da tutti, non vi era un solo viaggiatore che non avesse messo piede tra gli scaffali impolverati del suo emporio. Qualsiasi individuo pertanto sarebbe stato in grado di reperire tali informazioni. Varn si convinse della bontà di quelle riflessioni, tuttavia, qualcos’altro continuava ad inquietarlo. Il modo in cui era stato spinto aveva dell’incredibile. Nonostante gli arti scheletrici, il forestiero aveva dato prova di possedere una forza disumana. Il giovane avrebbe voluto fuggire al pari degli amici, ma qualcosa lo trattenne. Una sensazione, un mero presagio, la certezza latente di non essere in pericolo. Alla fine, contro ogni sua stessa previsione, annuì alla domanda dell’anziano.

    «Come ti stavi dilettando prima di vedermi sonnecchiare all’ombra di quei cespugli?» domandò subito dopo il mendicante.

    «No…noi stavamo giocando a fare gli avventurieri» rispose Varn, raccogliendo un po’ di coraggio.

    L’anziano sorrise, constatò un’idea che già si era formata nella sua mente.

    «E dimmi, chi sono questi celebri avventurieri di cui parli? Quanti ne conosci?».

    Da quell’istante in poi Varn si sentì sollevato. Si alzò in piedi e prese fiducia nei confronti di chi sembrava condividere la sua stessa passione. Sfoderò tutto il suo repertorio, più alcune avventure che si era inventato per sembrare il più esperto del gruppo. La narrazione proseguì a lungo mentre il sole proiettava ombre mutevoli nell’umida sponda del fiume. Varn aveva sempre desiderato esibire i propri racconti in presenza di un adulto, suo padre purtroppo non aveva mai condiviso quella vena. Perciò per l’occasione cercò di essere il più preciso possibile, tentò addirittura di imitare la gestualità dei cantastorie incrociati alla locanda. Le vicende continuarono a fuoriuscirgli dalla bocca fino a sera, quando il sole si avviò verso il tramonto. A Varn parve un momento magico, tanto da indurlo a non preoccuparsi delle tenebre ormai prominenti. Per tutto il pomeriggio l’anziano aveva ascoltato senza mostrare il minimo segno di cedimento. Al crepuscolo però interruppe la narrazione con un cenno della mano.

    «La notte è alle porte mio giovane amico, ti suggerisco di fare ritorno tra le amorevoli pareti della tua dimora» lo esortò «Ad ogni modo la passione che arde in te per ciò che fu riscalda il mio cuore ammuffito. Sappi tuttavia che tra gli eroi del passato ignori il più grande di tutti. Colui le cui gesta si perdono tra i meandri insondabili del Grande Buio» terminò con un sospiro, come se quel preambolo gli causasse un velato dolore.

    Varn tenne lo sguardo fisso, impietrito, quella breve introduzione lo aveva stregato. Fin da quando aveva memoria non aveva mai incontrato nessuno capace di svelare la storia antecedente alla misteriosa apocalisse. Sarebbe stato lì ad ascoltare per tutta la notte se l’anziano non si fosse interrotto.

    «Ora va, che la magia della notte alimenti le tue fantasie. Ma se davvero hai premura di pervenire a ciò che è accaduto in un tempo dimenticato, allora raggiungimi qui al sole nascente. Sarò ben lieto di condividere con te la più grande delle avventure. Ti narrerò la storia di Urizen il mezzodemone!».

    Varn non rispose, si diresse verso casa quasi imbambolato. Non gli pareva vero che esistesse un'avventura ancora più avvincente di quelle che già conosceva, e per di più realmente accaduta. Urizen! Aveva udito quel nome una sola volta ma già se l’era scolpito nella mente.

    La via del ritorno si snodava tra alberi inclinati e sconnessioni del terreno. La luce del crepuscolo permise a Varn di non inciampare, la marcia da controllata divenne presto saltellante, spensierata. Una volta raggiunta la sua dimora il giovane si sarebbe coricato, affinché il tempo trascorresse il più in fretta possibile.

    Al calar della sera le strade del paese erano solite svuotarsi, solo il Boccale d’Oro manteneva viva l’atmosfera. L’abitazione di Bamop era situata al di sopra dell’emporio, uno dei pochi edifici costruiti in pietra. Al momento del suo arrivo Varn inquadrò il padre chiudere a chiave la porta in legno di quercia del negozio. I due salirono al piano superiore da un altro ingresso posto a poco più a destra, sotto un porticato in legno.

    Durante la cena Varn raccontò dell’incredibile incontro che aveva avuto quel giorno, ma notando nel volto del padre smorfie di noia, decise di ritirarsi. Purtroppo Bamop non provava alcun interesse per le avventure del passato, da qualche tempo ne sembrava addirittura infastidito. Più volte egli aveva espresso il desiderio di vedere Varn prendere ruolo attivo all’interno dell’emporio, ma a quella proposta era sempre seguito un secco rifiuto. Non era la prima volta che, in seguito ad una discussione, i due finissero per isolarsi nelle rispettive stanze. Varn soffriva in silenzio quella particolare situazione. Vedeva nel padre una figura autoritaria distante da ciò che lui amava di più. Il dialogo tra loro era quasi inesistente, gli incroci tra gli sguardi, sempre sfuggenti. Per fortuna il giovane aveva di che distrarsi all’interno della propria camera, considerata al pari di un laboratorio segreto. In essa era custodito il materiale più svariato, tra collezioni di disegni e oggetti raccattati alla locanda del Boccale d’Oro. Per lo più si trattava di chincaglierie, alle quali tuttavia Varn attribuiva un valore emotivo. Da tempo ormai il giovane era convinto nell’intraprendere la strada del cacciatore di reperti, con il compito di svelare una volta per tutte l’origine del Grande Buio. Si trattava di un percorso irto di ostacoli, distante dalla via che Bamop aveva scelto per lui. A Varn però tali difficoltà non interessavano, deciso nel seguire fino in fondo la propria passione. Se fosse riuscito a svelare le cause dell’antica apocalisse, il suo nome sarebbe divenuto più celebre persino di quello del padre. Ad ogni modo quella sera ogni oggetto all’interno della camera perse la sua attrattiva. Ciò che Varn aveva udito giù al fiume andava ben al di là di tutto quello a cui era pervenuto negli anni. Non si trattava di parole avvertite di sfuggita o nomi storpiati da viandanti smemorati, ma di un’intera avventura narrata da un misterioso mendicante. Varn si infilò sotto le coperte senza perdere tempo e, spente le candele, fantasticò nell’inutile tentativo di addormentarsi. Sull'onda della fantasia il sonno sopraggiunse in ritardo, regalando comunque una notte piena di fantastiche avventure.

    La mattina successiva ripetuti schiamazzi provenienti dal mercato funsero da sveglia rintronante. Varn schizzò in piedi con i capelli ancora sconvolti, dopodiché lasciò l’abitazione in tutta fretta stando attento a non incrociare lo sguardo del padre.

    Il centro del paese era affollato, gli abitanti di Dunval colmavano le strade intenti nelle proprie faccende. Varn decise di procedere lungo i viottoli secondari per non incappare nei suoi amici. Preferiva ascoltare la storia da solo per poi stupire tutti una volta divulgata di nuovo in giro. Muovendosi di soppiatto superò le ultime abitazioni e si mosse in direzione del fiume Lagrem.

    Era una mattina uggiosa, avvolta da una tetra foschia. Così come la visibilità, anche le sicurezze di Varn diminuivano mano a mano che si allontanava dal paese. In particolare le raccomandazioni di Bamop gli risuonavano nelle orecchie. Gli era permesso raggiungere il fiume solo nelle giornate soleggiate, in caso di maltempo i confini di Dunval non dovevano essere oltrepassati. I passi di Varn divennero sempre più incerti, finché non si fermarono del tutto. Più avanti il sentiero ondulato si perdeva nella nebbia del mattino. L’atmosfera lugubre pareva un buon pretesto per fare ritorno tra le sicure vie del paese. Varn rimase fermo qualche istante, divorato dal dubbio, finché tra la foschia non individuò una sagoma sostare lungo il sentiero. Non fu che un momento, fugace quanto un battito di ciglia. Il giovane era certo di aver scorto l’immagine di un guerriero che lo fissava a distanza. A quel punto il nome udito il giorno prima tornò a rimbalzargli nella mente, funse da richiamo irresistibile per chi come lui era affamato di conoscenza. Varn ricominciò ad avanzare, se si fosse fatto scappare quell’occasione se ne sarebbe pentito per il resto della vita.

    Lo scrosciare dell’acqua preannunciò la presenza del fiume. Varn si guardò attorno con fare nervoso, in quel punto la nebbia gli impediva di scorgere eventuali minacce. Ad un tratto passi lenti lo indussero a voltarsi: il mendicante gli torreggiava accanto allo stesso modo in cui una montagna oscura una collina. Nonostante l’età l’uomo era terribilmente alto, più di Bamop e di tutti gli uomini che vivevano a Dunval. Varn ne fu disorientato e, indietreggiando, ricadde seduto sopra un grosso ceppo. Si guardò attorno con affanno, vide solo il vecchio e la nebbia che gli aleggiava attorno. La natura non era divenuta altro che una spettatrice ammantata nella foschia.

    «Noto con piacere che hai già preso posto, pronto per ascoltare la più epica tra le vicende» cominciò l’uomo con fare divertito «Non devi temermi figliolo, per quanto arduo da credere, non sarai mai tanto al sicuro quanto lo sei in mia presenza» concluse.

    Varn non rispose, incapace di stabilire se fidarsi o meno. Non aveva idea di chi avesse davvero innanzi, l’unica cosa certa era che non si trattasse di un comune mendicante. L’uomo rimase in piedi, cominciò a parlare con le braccia rivolte verso il cielo. I suoi gesti parevano ipnotizzanti.

    «Ebbene mio giovane amico quest’oggi ti narrerò di un tempo molto lontano, di un mondo diverso da quello odierno. La nostra storia prende vita secoli fa, ancor prima del Grande Buio, quando le terre erano densamente popolate e divise nei più grandi territori che fossero mai esistiti. Al nord si estendevano i due regni più gloriosi che gli umani avessero mai saputo fondare. Il Regno di Damar e il Regno di Karim. I loro rispettivi sovrani, anche se non legati dalla fiducia che nutrivano l’uno per l’altro, si potevano dire amici. A sud-ovest, oltre il Golfo di Dàmpalos, si affacciava il Principato di Feldrik, un potente territorio elfico governato da tre principi fratelli. Più a sud, nel centro del continente, vi erano le infinite Terre di Nessuno, brulicanti di creature spaventose, aggressive con chiunque si addentrasse nei loro territori. Nel profondo sud, nella regione delle montagne innevate, c’era il Regno dei Nani, abili minatori quanto architetti di fantastiche città. Infine, Varn, l’enorme impero degli elfi oscuri che più di tutti minacciava l’incolumità delle razze. Kelven!».

    Al termine di quell’introduzione Varn si sentiva teso come la corda di un violino. Le mani erano serrate sulle ginocchia, la gola, secca. La storia prometteva bene.

    «Tu sai che cos'è un mezzodemone, figliolo?» continuò l’anziano.

    Il giovane rilasciò un cenno di diniego con la testa.

    «Devi sapere che al tempo del nostro racconto, in un paese poco al di fuori dell'ormai scomparso Regno di Karim, viveva un fabbricante d’armi di nome Tuor. Egli aveva una moglie molto avvenente. Tutti parlavano di loro come di una coppia felice, ma ciò che la donna ignorava era che il marito facesse parte di un’oscura setta demoniaca, l’Ordine della Fiamma Suprema. I suoi membri veneravano Vodiak, signore ardente, tinto nel fuoco della violenza. Una sera, in seguito ad un oscuro rituale, Tuor vendette la propria anima all’essere maligno e come segno di totale sottomissione accettò di generare un figlio per la crudele divinità. Tale creatura sarebbe venuta al mondo sotto forma di demone sanguinario e avrebbe aiutato Vodiak a fuggire dalla prigione dove il dio era relegato, il Valgorn!».

    Il vecchio si fermò per osservare il volto di Varn, rapito al punto da dimenticarsi di sbattere le palpebre. In quel momento folate di vento irruppero nella narrazione, poi fuggirono via indisturbate.

    La nebbia si dissolse.

    «Devoto al volere dell’ardente Vodiak quella sera stessa Tuor fece ritorno nella propria dimora e piantò il seme che avrebbe dato vita al crudele abominio».

    Il ritmo con il quale il vecchio cadenzava le parole sapeva di canzone, di ballata, di sacra leggenda tramandata di generazione in generazione.

    «Ed è qui, mio caro Varn, che accadde l'incredibile! A causa di un errore commesso da Tuor durante il compimento del rituale, l’anima di suo figlio non venne totalmente assuefatta dalla corruzione demoniaca, rimanendo per metà mortale. Così, nell’anno 687 dalla Caduta di Lorlh, nacque il discendente che Tuor decise di chiamare Urizen. Poco dopo il sofferto parto però, l’uomo intuì che qualcosa non si era compiuto come previsto. Si aspettava che la moglie generasse un demonio, mentre il figlio presentava forma umana. Gli occhi di colore rosso acceso e uno ciuffo di capelli argentei erano gli unici segni di un’incompleta natura ultraterrena. Urizen il mezzodemone era nato! Il momento di perplessità si trasformò presto in sconforto in quanto Tuor realizzò di esser venuto meno al patto stipulato con il proprio signore. Il suo animo venne sconvolto a tal punto da ordire l’uccisione del primogenito. Durante la prima notte, tra le pareti della sua dimora, egli tentò di assassinare l’infante mentre dormiva nel suo giaciglio. Tuor tuttavia sottovalutò la propria moglie, la quale lo pugnalò alla schiena prima che avvenisse l’irreparabile. Ne nacque una colluttazione che vide l’indemoniato crollare a terra dissanguato e la madre in fin di vita consegnare Urizen nelle mani degli dei. La cesta venne assicurata alla sella di un cavallo, poi rilasciato affinché l’animale conducesse l’infante lontano da quel luogo di morte. Così trovò triste epilogo l’avvento del giovane eroe e così iniziò la sua difficile esistenza. Tra i tronchi degli alberi, solo ed infreddolito, Urizen venne soccorso da una coppia di boscaioli. Da quel giorno trascorsero ben ottantasei anni, ma non devi credere che il nostro eroe fosse vecchio e stanco, al contrario, aveva appena raggiunto l’apice della sua forza».

    Il vecchio fece una pausa mentre osservava il cielo aprirsi sempre più. Il vento aveva terminato il suo intento, un caldo raggio di sole affiorò attraverso uno squarcio tra le nubi. Per Varn il tempo si era fermato, nei brevi momenti di pausa aveva avuto l’impressione di soffocare, come se le parole del narratore fossero ossigeno per lui.

    «Anno 773 dalla grande battaglia tra nani ed elfi che segnò la caduta di Lorlh. Il Regno di Karim era fondato su stampo cavalleresco. Le sue terre erano divise tra ricchi feudi e grandi castelli. Ed è proprio in queste lande che ha inizio la nostra storia...».

    Urizen il mezzodemone

    Anno 773 dalla Caduta di Lorlh, contea di Bramur Toe, Regno di Karim.

    «Mio signore» cominciò il ranger Yoll Pelavin, capo guardia delle truppe del conte «Qualcuno ha assaltato la carrozza proveniente da Daren. Madamigella Kleyla è stata derubata dei suoi averi».

    «Ci sono state delle vittime?» domandò il conte.

    Bramur Toe era famoso in tutta Karim per la sua intolleranza verso i fuorilegge. Era un uomo cinico quanto scaltro, con un ottimo fiuto per gli affari. Una barba color marrone contornava gli occhi chiari e sottili, affilati come pugnali. La contea era situata a sud di Daren ed era una delle più grandi di tutto il regno, nonché la più meridionale. Il territorio era composto da prati e zone boschive, tenute sotto controllo dalle guardie di Yoll.

    In quel momento Bramur stava ricevendo il ranger nel salone delle feste e sedeva su di uno scranno in legno riccamente rifinito. La luce, che filtrava gravida di polvere dalle finestre ai lati della sala, illuminava gli indumenti del nobile quasi fosse una divinità. Tutto era stato studiato per esaltarne la figura e sorprendere i visitatori. Il castello della contea era stato edificato quasi un secolo prima dal bisnonno, Breud Toe, il quale aveva utilizzato la pietra scura di una cava a ridosso delle colline per ricavare i mattoni della struttura. Bramur andava fiero del suo rango di nobile, non finiva mai di esaltarlo agli occhi dei servi che si affaccendavano nelle sfarzose stanze del palazzo.

    Yoll era un sanguemisto, se così si poteva definire. La madre di suo padre proveniva da Feldrik, il resto della famiglia era umana, di Karim. Un tempo i Pelavin godevano di un titolo nobiliare, ma quei fasti ormai erano un lontano ricordo. Il defunto re Raianel Bash provvedette a confiscare i beni della famiglia non appena l’esistenza di un figlio sanguemisto divenne di dominio pubblico. Da allora la vita dei Pelavin si tinse di umiltà e rigoroso anonimato. Yoll in particolare fu l’unico a non patire il declassamento sociale, affascinato della vita immersa nella natura fin dalla tenera età. Era divenuto un ranger e aveva fatto dei boschi del nord la propria dimora. I capelli scuri corti gli conferivano un aspetto piuttosto innocuo, ma lo sguardo freddo non lasciava dubbi circa le sue reali capacità. Aveva incontrato il conte durante un torneo di tiro con l’arco e dopo essersi aggiudicato il primo premio era stato reclutato dal nobile come capo delle sue guardie. Per anni Yoll aveva vagato per i boschi della contea, alla costante ricerca di criminali illusi di poterne varcare i confini.

    Quel giorno l’assalto alla carrozza era avvenuto alla luce del sole, per di più in una zona che Yoll avrebbe dovuto pattugliare personalmente. Una tale mancanza rappresentava un errore imperdonabile e alla domanda del conte il mezzelfo rispose con fare costernato.

    «Nessuno ha pagato con la vita mio signore, tuttavia, due delle quattro guardie presenti hanno reagito. Lo sconosciuto ha rotto loro l’arto con cui brandivano l'arma».

    «Interessante!» rise il nobile giocherellando con la barba.

    «Immagino che madamigella Kleyla sia stata testimone dell'accaduto, come ha descritto l'aggressore?».

    «Temo che l’angoscia abbia guidato le sue parole. Ella ha riferito di aver scorto una figura imponente, di quasi quattro braccia d'altezza. Corpo e volto erano in parte celati da un mantello rosso. Costui pare abbia fatto uso della sola forza bruta per sopraffare le guardie. L’unico dettaglio degno di nota è stata una ciocca di capelli privi di alcuna tinta fuoriuscire dalle ombre del cappuccio» terminò il valente Yoll Pelavin.

    A quelle parole la reazione del conte fu rabbiosa: si alzò di scatto e scagliò a terra un boccale di buon vino rosso. Sapeva di chi si trattava, quel dettaglio era già giunto alle sue orecchie in passato, come tratto distintivo di un efferato criminale.

    «Occhi di Brace!» sussurrò digrignando i denti.

    Quel nome evocava terribili devastazioni nelle menti di chi lo conosceva. Si diceva fosse un uomo enorme, dalla forza sovrumana, capace di scagliare un cinghiale a distanza. I suoi occhi ardevano quanto le braci di un camino appena acceso e la capigliatura rifletteva la luce ambrata di Talagrun. Erano diversi anni che il criminale infestava le terre dei nobili e del re, nessuno era mai riuscito a catturarlo a causa della sua furtività. La perfidia che lo contraddistingueva lo aveva addirittura spinto a profanare una chiesa consacrata al divino Torgaras, per rubarne gli oggetti di valore contenuti all’interno. I morti per mano sua non facevano che aumentare, tanto che i funzionari del regno avevano stabilito una taglia di cinquemila monete d’oro sulla sua testa. Bramur serrò i pugni, convinto nel porre finalmente fine a quelle scorribande. Avrebbe visto il criminale in ceppi e lo avrebbe esibito alla corte reale come trofeo. Era deciso nel risolvere la questione prima che la voce si spargesse tra i territori nobiliari vicini. Tutto desiderava meno che altri leccapiedi si spartissero i meriti di quella vittoria. Con un grido rimbombante Bramur si rivolse a Yoll.

    «Nessuno che non sia il divino Torgaras, oppure il re in persona può avere l’ardire di compiere una simile scelleratezza all'interno del mio territorio. È un affronto che costui pagherà caro, parola di Bramur Toe! Yoll! Vi affido il delicato incarico di assicurare questo individuo alla giustizia. A voi è stata affidata la sicurezza della contea, andate e conducete Occhi di Brace al mio cospetto. Tingerò i suoi capelli col suo stesso sangue». Seguì una risata morbosa.

    Yoll annuì, dopodiché si avviò verso la porta seguito dagli sguardi di ammirazione delle guardie presenti. Fin da quando era giunto alle dipendenze del conte, il ranger era considerato da tutti il soldato più valente in circolazione. Fisicamente magro e poco potente, la sua forza consisteva in strategia, furbizia e precisione dei colpi. Con l'arco nessuno aveva ragione di lui, era in grado di centrare l’occhio di un cervo a duecento braccia di distanza. Yoll conosceva a menadito la contea, era solito passeggiare per i boschi senza emettere alcun rumore. In quei luoghi aveva allenato i sensi e la memoria, al fine di scovare la via più rapida per fare ritorno al castello. Da un po’ di tempo a quella parte riteneva addirittura che la sua superiorità sul territorio fosse schiacciante al punto da non avere avversari. Quel risvolto pertanto non poté che generare entusiasmo nell’animo del mezzelfo. Per la prima volta aveva occasione di mettersi alla prova contro un avversario ritenuto inarrestabile. Le gesta criminali di Occhi di Brace erano celebri, l’intera nobiltà di Karim era in subbuglio a causa sua. I pochi che lo avevano visto ne parlavano come di un demonio disceso in terra, contro cui frecce e spade non avevano alcun effetto. A quanto pareva egli aveva preso di mira le proprietà dei Toe, perciò non poteva che spettargli una morte lenta e agonizzante.

    Yoll uscì dal castello, la mente era indaffarata nel tentativo di formulare la migliore strategia possibile. Avrebbe potuto costruire delle trappole e spargerle nel bosco, oppure organizzare delle battute di caccia con soldati e segugi. In seguito però troncò ogni ragionamento in quel senso. A placare la sua foga intervennero gli insegnamenti ricevuti in passato dal proprio mentore: l’ignoranza rendeva vane le azioni di chi se ne armava, il primo passo dunque era conoscere la propria preda. Il ranger decise quindi di appostarsi in un punto strategico della contea, in modo da osservare il criminale in questione.

    Ogni albero che popolava i boschi attorno al castello rappresentava un ottimo punto di controllo. Si trattava nella maggioranza dei casi di alberi ad alto fusto, ideali per garantire un’osservazione discreta e invisibile alle prede. L’unico difetto di quel piano era la quantità di tempo che la ricerca avrebbe richiesto. I territori di Bramur Toe erano vasti e nel frattempo Occhi di Brace avrebbe potuto colpire di nuovo. Non era una situazione semplice, ma più di tutto Yoll temeva il fallimento. Decise comunque di agire in quel modo, sperando nella benevolenza del divino Akaras.

    Era una giornata ventosa.

    Il mezzelfo si recò non troppo distante da dove era avvenuto l’assalto alla carrozza. Durante il tragitto fece attenzione a non lasciare tracce, poi si fermò al di sotto di un pino dal tronco pendente. Con una tecnica acrobatica risalì il fusto dell’albero e ne raggiunse un ramo ad un’altezza di venti braccia circa. Lì si accovacciò, in attesa. Per tutta la giornata l’appostamento non diede i frutti sperati. Purtroppo le correnti d’aria causavano fruscii tra le fronde degli alberi. Ciò limitava l’udito del ranger, più umano che elfico. Non vi fu alcun tipo di avvistamento, a parte un orso bruno e altri piccoli animali. Yoll formulò l’ipotesi di schierare altri uomini in punti prefissati della contea, in modo da disporre di un maggiore numero di occhi. Tuttavia le guardie del castello non erano addestrate per tali compiti, avrebbero finito per vanificare i suoi sforzi.

    Il sole era da poco scomparso oltre le montagne ad ovest quando Yoll decise di fare ritorno al castello. Lungo il percorso però, mentre era impegnato a formulare strategie alternative, il mezzelfo si fermò. Aveva come l’impressione di essere sotto osservazione, benché alle sue spalle non figurassero altro che tronchi e cespugli. Possibile che qualcuno lo pedinasse senza che lui se ne accorgesse? Yoll scosse il capo, la reputava una possibilità del tutto remota. Giunto al castello il ranger diede l’ordine di accendere le fiaccole disposte sulle mura perimetrali, segno inequivocabile dell’arrivo della notte. Al calar delle tenebre la pietra scura che formava le pareti difensive diveniva di un nero profondo, colore che avrebbe intimorito chiunque fosse giunto all’ingresso principale. Oltre la soglia Yoll si guardò bene dall’incrociare i locali frequentati dal conte. Non aveva alcuna intenzione si sottoporsi al suo sguardo inquisitore, che aveva come unico scopo quello di forzare i sottoposti a rilasciare buone notizie. Un giorno era un lasso di tempo ridotto per catturare un criminale, la cui fama ne precedeva i passi. Il ranger perciò infilò il corridoio della servitù poi, seguendo un percorso contorto, raggiunse le proprie stanze, dove si ritirò per riposare e riflettere sul da farsi.

    Il giorno successivo Yoll reclutò cinque guardie e le fece accomodare sulla carrozza nobiliare. Quattro uomini si nascosero all'interno mentre uno rimase alla guida dei cavalli travestito da cocchiere. Yoll andava fiero di quel piano. Come già aveva sperimentato in passato la notte portava consiglio e quella strategia ne era il frutto. Era certo che Occhi di Brace non avrebbe resistito alla tentazione di depredare un’altra carrozza. Per buona parte della mattina il ranger rilasciò disposizioni ai suoi uomini, li istruì su quali direzioni seguire all’interno della contea. Lui avrebbe seguito il loro percorso celato tra la vegetazione, senza mai perderli di vista.

    La carrozza venne condotta oltre il ponte levatoio che separava il castello da un paludoso fossato. Tutto il perimetro era protetto da alte mura sui cui angoli erano state edificate delle torrette di guardia. Yoll aveva dato disposizione che ogni sentinella disponesse di una balestra pesante, ritenuta meno ingombrante rispetto ad un arco. L’ordine era quello di scoccare contro chiunque si fosse mosso tra le ombre create dagli alberi.

    In prossimità dell’ingresso al castello le guardie assistettero alla partenza della carrozza. Yoll la seguiva a breve distanza, invisibile agli occhi dei suoi stessi uomini. Il piano gli sembrava ben studiato, ma dopo un’intera giornata di tentativi quella strategia non diede i risultati sperati. La carrozza transitò avanti e indietro lungo tutto il territorio boscoso, simulò partenze e arrivi di ricche personalità provenienti dal centro del regno. Di Occhi di Brace però non si scorse neanche l’ombra. Nonostante il ranger ritenesse che il criminale si trovasse ancora in quei boschi, cominciò a pensare di essersi messo alla ricerca di un fantasma. Un’espressione corrucciata si impadronì del ranger il quale scese dall'albero riferendo alle guardie di fare ritorno al castello, lui avrebbe fatto altrettanto.

    Il sole ormai si avviava al tramonto dietro la collina più alta che torreggiava a ovest del castello, ai confini della contea. Una luce calda avvolse i sentieri che serpeggiavano tra i tronchi delle numerose betulle. Yoll camminava assorto, non mostrava la minima perplessità davanti ai bivi che gli si presentavano innanzi. Non capiva dove avesse sbagliato o come il criminale avesse eluso l’inganno. Forse aveva scorto lui e i suoi uomini tramare nel castello, ma ciò avrebbe significato una sua presenza all’interno delle mura. Non poteva essere, non con il livello di guardia disposto negli ultimi due giorni. Yoll si convinse pertanto che l’individuo avesse ormai lasciato quelle terre, non vedeva altra spiegazione. Passi incerti condussero il ranger lungo uno dei tanti sentieri, quando le orecchie vagamente appuntite percepirono un rumore sospetto. Qualcosa si stava avvicinando a gran velocità. Guidato da un infallibile istinto Yoll fece un balzo di lato, evitando così di essere trafitto da un pugnale che si conficcò in un tronco alle sue spalle. Il mezzelfo si volse, notò che la lama era penetrata nel legno per più di tre dita. Quel dettaglio constatava la potenza del lancio, inoltre l’attacco era avvenuto senza che lui si accorgesse di essere seguito. Pochi attimi dopo una figura sbucò dalla vegetazione con la stessa leggiadria di un felino. La corporatura imponente e le braccia muscolose lo rendevano un avversario temibile. Lo sconosciuto era celato da un mantello rosso, al di sotto di esso si intravedevano le forme di una corazza metallica che proteggeva solo una metà del corpo. Del volto ammantato dalle ombre erano visibili ciuffi di capelli color argento e occhi rosso brillante.

    Yoll non ebbe alcun dubbio, era Occhi di Brace.

    «La vostra prontezza onora la debole razza a cui appartenete» esordì il criminale. La sua voce era pacata, leggermente roca, priva di emozioni.

    «Con me non perverrete ad una facile vittoria come è avvenuto con le mie guardie!» minacciò Yoll.

    A quelle parole l’individuo annusò l’aria al pari di chi rilevava una presenza maleodorante nelle vicinanze.

    «Percepisco il fetore di chi sta ingannando sé stesso» sussurrò.

    Yoll assottigliò lo sguardo, in effetti la sua sicurezza era solo ostentata. Con un balzo riguadagnò il sentiero a poca distanza dall’avversario al quale arrivava a stento alla spalla. La sua presenza era imponente, forse la più massiccia che avesse mai visto. Approfittando del momento di silenzio l'aggressore si tolse il cappuccio. Aveva un viso candido, anche se rude nei lineamenti. Gli occhi rosso fuoco vennero in parte coperti da ciocche di capelli di un fulgido argento. Yoll si sentì palpitare il cuore, il suo orgoglio gli impose di fronteggiare con coraggio il pericoloso avversario. Si accorse di non essere abituato a scontri così ravvicinati. In passato aveva sempre sorpreso il nemico, ma in quel caso la situazione era invertita. Il sentiero dove si trovavano era stretto, soffocato dai cespugli e dalle sterpaglie che popolavano il sottobosco. Yoll era consapevole di non poter utilizzare il suo pregiato arco di frassino, non sarebbe riuscito a guadagnare una distanza sufficiente prima di subire un attacco. Di conseguenza sfoderò la spada corta, nonostante non fosse il tipo di arma a lui più congeniale. Occhi di Brace infilò una mano sotto il mantello ed impugnò un’elsa particolare, dalla quale si liberò una lingua di fuoco simile ad una spessa lama. Un sorriso beffardo comparve sul suo volto, poi si lanciò all’attacco sfoderando un’agilità superiore alla norma. La prima sferzata fu furiosa. Il ranger non si fece sorprendere, parò i primi colpi con maestria mentre lingue di fuoco si liberavano ad ogni contatto tra le armi. Sebbene riuscisse a difendersi, Occhi di Brace era troppo potente per lui e lo costrinse ad indietreggiare. Come se non bastasse la spada che brandiva si surriscaldò in fretta. Il calore magico sprigionato dal nemico pareva troppo intenso perché il comune metallo potesse resistervi. Yoll si sentì in balia dell’aggressore, comprese quanto ingiustificata fosse la sicurezza vantata nel corso del tempo. Aveva sempre condotto gli scontri da posizioni ben più vantaggiose, non era mai giunto ad un vero corpo a corpo. Urgeva un cambio di strategia nonostante tutta la concentrazione fosse rivolta alla difesa. Infine Yoll venne tradito dallo stesso bosco che in passato gli aveva regalato facili vittorie. Una radice che affiorava dal terreno alle sue spalle lo fece inciampare. Il ranger cadde all’indietro in maniera scomposta, all’impatto contro il tronco di una betulla perse la presa sulla spada divenuta incandescente. Occhi di Brace osservò quasi divertito, poi vibrò il colpo di grazia ma Yoll si divincolò con un balzo laterale.

    «Non potete fuggire in eterno» ruggì il guerriero.

    Yoll era in affanno, parti del mantello rilasciavano sottili colonne di fumo. L’arma giaceva dalla parte opposta, ormai irrecuperabile.

    «Lo ammetto, mi superate in forza bruta, ma non in velocità» ribatté. Si tastò la cintura, oltre all’arco e alla faretra non trovò altre armi se non un inutile punteruolo.

    Quando il nemico lo incalzò il mezzelfo tentò un'audace contromossa. Corse di scatto verso un albero e, con l’agilità di uno scoiattolo, vi si arrampicò fermandosi a media altezza. A quel punto incoccò una freccia. La situazione si era capovolta: Yoll si trovava in una posizione irraggiungibile, ciò però non sembrò preoccupare Occhi di Brace.

    «Questa azione vi avrebbe garantito la vittoria contro un normale essere umano, purtroppo per voi io non lo sono...». Detto ciò il guerriero si apprestò a prendere la rincorsa.

    Il ranger si riteneva al sicuro nella sua posizione, perciò attese l'evoluzione della scena prima di agire. Fu il suo più grande errore. Spiccato un balzo in aria, dalla schiena del nemico comparvero due ali infuocate che andarono a bruciare le fronde degli alberi circostanti. Yoll rimase paralizzato per lo stupore. Quando stette per essere raggiunto scoccò il dardo che andò miseramente a vuoto. Occhi di Brace era in pieno slancio, con una sferzata tagliò in due l’arco, utilizzato di istinto come scudo. In seguito si appoggiò sul ramo mentre le ali ardevano la folta vegetazione. Il ranger non poté fare altro che gettarsi a terra. La sua agilità gli permise di cadere in piedi, ma fu costretto a fuggire, contuso e bruciacchiato.

    Solo fuoco e fiamme Yoll lasciò dietro di sé. Il suo incedere era alimentato dal puro terrore, un terrore che non aveva mai conosciuto prima. Mentre correva una parte di lui disapprovava quella fuga ignobile, un’altra ammetteva di aver affrontato un avversario al di sopra delle sue possibilità. La terribile fama che avvolgeva la figura di quell’essere si rivelò fondata in tutta la sua crudeltà. Yoll si chiese da quale mondo giungesse quell’individuo, forse frutto di un qualche giudizio divino contro i regni del nord. Mentre le foglie dei cespugli sferzavano il volto del mezzelfo al pari di schiaffi morali, le sue domande vennero eclissate dal pensiero che potesse essere inseguito. Yoll si volse indietro con espressione divorata dal panico. Per fortuna l’incendio alle sue spalle si allontanava sempre più. Il ranger si rese conto che il nemico non lo stava inseguendo, nonostante ciò il vento pareva sospingerlo come per sottrarlo ad un amaro destino.

    Per fare ritorno al castello Yoll scelse un percorso alternativo, lontano dai sentieri principali. Non voleva che qualche guardia di pattuglia lo vedesse ridotto in quello stato. Quando si trovò in prossimità della salvezza le nuvole sospinte dal vento riversarono sulla contea gocce di pioggia grandi quanto ciliegie. Ognuna di quelle che picchiava sul capo del fuggitivo pesava quanto un incudine di ferro per il suo morale.

    Yoll raggiunse il ponte levatoio, si lasciò alle spalle un temporale ricco di fulmini che strappò la vegetazione all’inesorabile logorio delle fiamme. Perlomeno la pioggia aveva reso deserto il cortile principale del castello, ciò significava che nessuno si sarebbe avventurato all’esterno. La terra divenne presto fango, gli stivali del ranger si ritrovarono immersi in una poltiglia viscosa capace di fagocitarne la suola. L’acqua gli aveva inzuppato le vesti, l’armatura di cuoio non era mai parsa tanto pesante. Il corpo di Yoll presentava bruciature un po’ dappertutto, ma la vera sofferenza proveniva dall’orgoglio e dalla realizzazione del proprio fallimento. Come lo avrebbe spiegato al conte? Egli non avrebbe accettato la disfatta, specie se abituato ad una lunga lista di successi.

    Per alcuni istanti il mezzelfo rimase all’ombra dell’androne di ingresso, al riparo dalla pioggia che cadeva copiosa. Il cielo era cupo, la notte incalzava. Yoll si sfilò il mantello ridotto in brandelli, lo arrotolò attorno al braccio che aveva riportato le ustioni più gravi, poi si ritirò.

    Il giorno successivo il temporale aveva lasciato spazio ad una giornata fredda e uggiosa. Il ranger si assicurò che le fasciature non fossero visibili attraverso l’equipaggiamento, dopodiché chiese udienza al conte. Ammettere di essere stato sconfitto in battaglia rappresentava forse la più grande umiliazione che avesse mai subito. Soltanto la prospettiva che la sicurezza del castello fosse in pericolo gli permise di mettere da parte l’orgoglio e assumersi ogni responsabilità.

    Yoll si incamminò verso la biblioteca, luogo dove il conte era solito trascorrere gran parte delle mattine. Venne ricevuto poco dopo nella stanza illuminata da una parete di vetro. La biblioteca di Bramur Toe era conosciuta in tutto il regno per la sua vastità e per il numero di volumi appartenenti ad ogni genere immaginabile. Grazie ad una simile fonte di conoscenza il nobile vantava una cultura invidiabile, sfoggiata durante le feste nel salone principale del castello. Yoll si diresse verso la vetrata posta sul fondo della stanza, sfilò innanzi ai soldati posti di guardia e si fermò su di un tappeto variopinto. Bramur sedeva dietro una lussuosa scrivania posizionata davanti alla fonte di luce. Il conte dava le spalle al nuovo entrato, celato dietro lo schienale della seduta. Non poteva leggere l’espressione del mezzelfo, non ne aveva bisogno. Dal passo incerto intuì che il suo rapporto non gli sarebbe piaciuto. Yoll rimase immobile, si volse a destra, poi a sinistra. Voleva sincerarsi che i servi fossero usciti dalla stanza.

    «Mio signore, chiedo il permesso di conferire con voi in privato». Fu la richiesta.

    Sebbene le guardie personali di Bramur fossero più che discrete, Yoll non voleva che venissero a conoscenza del suo fallimento. Dallo schienale della poltrona un braccio avvolto da una vestaglia color vinaccia fece cenno ai soldati di lasciarli da soli. Quelli obbedirono, in direzione dell’ingresso si udirono clangori metallici, la successiva chiusura della porta diede inizio a quella che per Yoll sarebbe stata un’amara ammissione.

    «Mio signore, ho scovato l’intruso» cominciò il mezzelfo mentre il volto si lasciava andare in espressioni di dolore per via delle ustioni «Tuttavia le mie abilità di guerriero si sono rivelate vane e nello scontro sono stato sconfitto». Il ranger teneva la testa bassa, conscio di aver tradito la fiducia riposta in lui.

    A quelle parole il suono della penna che scorreva su di un foglio di pergamena si interruppe. Il nobile si alzò, si volse e puntò il ranger con espressione dura. Era quello il momento che Yoll temeva di più, l’attimo in cui Bramur realizzava di averlo sopravvalutato.

    «E così egli merita davvero la fama che gli è stata attribuita?» domandò.

    Yoll annuì, mestamente.

    «Quell’individuo non appartiene al nostro mondo, è un demonio forgiato nel fuoco e assetato di sangue».

    Lo sguardo del conte si assottigliò.

    «Per quanto un singolo soldato possa rivelarsi valente, ciò che premia in battaglia è il numero di unità che si è in grado di schierare. Il vostro fallimento ci ha comunque fornito l’opportunità di capire che Occhi di Brace sta agendo da solo. Quel bieco individuo non potrà mai avere ragione di un nutrito gruppo di guardie ben equipaggiate».

    Detto ciò rilasciò un rapido gesto.

    Un soldato comparve oltre uno scaffale di legno segno che, nonostante la richiesta di Yoll, il conte non aveva accettato di rimanere solo con lui. Alla luce della vetrata giunse il secondo in comando del ranger, un uomo devoto più al proprio signore, che al diretto superiore. «Sottotenente Mork, radunate tutti gli uomini necessari e perlustrate le mie terre da cima a fondo. Voglio la testa di quel lestofante su di un piatto d’argento!».

    Yoll però si intromise nella conversazione.

    «Non credo sia una buona idea, mio signore» azzardò guadagnandosi un’occhiata contrariata, poi continuò «Mio signore, nessuno presente nelle vostre terre è in grado di fermare quell'essere. Io l'ho visto, le sue membra sono percorse da un arcano potere, un’energia oscura in grado di generare fuoco e contorcerne le forme. È un avversario al di fuori delle nostre possibilità L’unica soluzione possibile è di catturarlo con l’inganno, oppure trattare».

    «Trattare?» esplose letteralmente il conte facendo quasi tremare gli scaffali ricolmi di libri «Che il divino Torgaras possa spazzarmi via in questo stesso istante. Io non tratterò mai con un usurpatore di tal genere! Lo farò marcire nelle segrete del mio castello, assieme a tutti coloro che hanno illegalmente profanato i confini della contea! Mork, fate come ho detto e lanciatevi alla ricerca di questo individuo. Non mi importa quali trucchi da stregone annoveri nel suo repertorio. Lo voglio morto entro il calar del sole!».

    Il sottotenente era un uomo ambizioso e caparbio, ma Yoll era certo che neanche l’intera squadra di guardie addestrate avrebbe risolto il problema. In quel preciso momento la biblioteca venne turbata dalle grida di un funzionario. La quiete che si era generata dopo la sfuriata di Bramur andò nuovamente in frantumi. L'uomo si inginocchiò a fianco del ranger, chiese di poter parlare con voce trafelata.

    Il permesso gli venne accordato.

    «Mio signore, ero nel lato sud est delle vostre proprietà, presso il villaggio di contadini. Stavo riscuotendo le tasse da voi imposte quando mi hanno comunicato di non avere niente da elargire. Ho chiesto il motivo e mi hanno riferito che qualcuno ha rubato loro tutte le galline, i maiali e buona parte del raccolto nei campi».

    La reazione del conte fu esplosiva. Con un calcio colpì un braciere mandandolo a terra in una nuvola di fuoco.

    «Chi è stato? Chi si è permesso di depredare un villaggio di contadini della contea. È sempre opera di quello scellerato?».

    Il funzionario e il mezzelfo si trovarono d’accordo nel replicare. «Non credo che a compiere un atto del genere sia stato Occhi di Brace, mio signore» rispose l’uomo con la voce tremante «Un furto simile, con la sottrazione di così tanto cibo, mai sarebbe atto di un singolo. È stata un’opera di gruppo, lo testimoniano le impronte non più grandi di quelle di un fanciullo».

    Per tutti divenne chiaro come i responsabili fossero i goblin. Non era la prima volta che gruppi di piccoli umanoidi penetrassero oltre i confini meridionali del Regno di Karim. La difesa di quei territori, specialmente al confine con le Terre di Nessuno, era sempre parsa una mancanza nella reggenza di Milanor Bash, sovrano di Karim. Bramur Toe digrignò i denti dalla rabbia, non accennò a placare la propria escandescenza.

    «Non bastava un maledetto criminale che si aggira per i miei boschi, no! Adesso ci si mettono anche i goblin giunti dalle Terre di Nessuno ad inacidirmi le giornate».

    «E se lasciassimo a Occhi di Brace questa incombenza?» suggerì il ranger imbarazzato, come se il pensiero gli fosse uscito involontariamente dalla bocca.

    Il conte si calmò. Si avvicinò alla poltrona ma non si sedette, la mente era all’opera per ottenere il massimo risultato con la minima spesa.

    «Ci pensi, mio signore» continuò il ranger, accortosi della bontà dell’idea «Se è l’oro ciò che brama costui lo si potrebbe pagare per eliminare i goblin che hanno depredato il villaggio di contadini. Lei non perderebbe neanche un uomo nella spedizione e potrebbe accadere che i nostri nemici si annullino a vicenda. In quel caso recupererebbe anche la somma spesa».

    Il ragionamento sembrava aver fatto presa, Bramur rimase scettico solo riguardo ad alcuni particolari.

    «A nord della contea spargeremo la voce che ho istituito una taglia sulla testa dei goblin, una cifra a cui Occhi di Brace non saprà resistere. A sud invece diffonderemo la diceria che un errante caccerà quelle piccole bestie come ritorsione per la razzia commessa. In tal modo è probabile che via sia un scontro diretto tra i nostri nemici. Anche se non dovessero annullarsi a vicenda, sarà facile per le nostre guardie terminare il lavoro».

    Al termine di quel ragionamento Bramur si rilassò, si sedette sulla poltrona rilasciando una risata di soddisfazione. Adorava quei piani, che gli permettevano di prendere due piccioni con una fava. Con un po' di fortuna avrebbe eliminato entrambe le minacce senza perdite umane e, soprattutto, senza scialacqui economici. Il piano era ben congegnato, occorreva solamente metterlo in pratica e sperare nel favore del divino Torgaras. Quel successo sarebbe stato suo motivo di vanto durante le cene di corte con gli altri nobili di Karim. Infine Bramur congedò tutti i presenti, per tornare a crogiolarsi nella sua poltrona.

    La sera stessa un vento gelido proveniente da nord invitò gli abitanti del castello a non percorrere i cortili interni. Il conte aveva lavorato tutto il pomeriggio per risolvere alcuni nodi economici e, dopo una rapida cena, si ritirò. Su di un lato del castello svettava il mastio centrale. La struttura dalla forma tozza era occupata dalle stanze del nobile. La camera da letto si trovava all’ultimo piano, diretta a levante in modo che i raggi del mattino inducessero Bramur ad un placido risveglio. Il padre di suo padre aveva fatto costruire quel bastione con mura spesse il doppio del normale. La disposizione degli ambienti era stata studiata con maestria, in maniera tale da potervi accedere da un singolo punto. Nei propri ambienti Bramur si sentiva al sicuro, non aveva mai voluto che uomini armati ne turbassero l’intimità. Come ogni sera venne accompagnato da una coppia di serve, insieme superarono i soldati posti a difesa dell’unica entrata del torrione. Le fanciulle erano le uniche che potevano seguirlo in quello che per molti era solamente un mondo immaginario. In seguito il conte rimase da solo a riflettere sui passi che aveva compiuto durante la giornata appena trascorsa. Quella sera si recò nella propria camera da letto riccamente arredata, dove lo attendeva un meritato riposo. La stanza presentava una forma rettangolare ed era quasi del tutto occupata da un letto a baldacchino. Lo spazio era illuminato da una porta finestra che si affacciava sul bosco. Un terrazzo poco sporgente era stato costruito solo di recente, in modo da permettere al conte di ammirare la vegetazione sottostante. Come ogni sera Bramur uscì all’esterno, appoggiò le mani sulla ringhiera e lasciò che la luce ambrata di Talagrun allietasse la sua vista, affaticata per le prolungate letture. Una distesa di alberi avvolti dall’oscurità si allargava fino alle colline di confine. L’intera contea era sprofondata in un dolce silenzio, nessun rumore ne turbava il riposo. Bramur amava i momenti in cui poteva ammirare le sue proprietà alla calda luce notturna. I Denti Aguzzi torreggiavano ad ovest, ad un giorno di viaggio di distanza. Il loro versante orientale rimaneva avvolto nelle tenebre, l’intero rilievo pareva quasi un’onda anomala di immani proporzioni scagliata dal divino Torgaras in persona.

    Poco dopo Bramur si ritirò. L’aria notturna gli intorpidiva gli arti, ma decise comunque di lasciare le finestre aperte. Giunto sul tappeto centrale però notò che le candele della sua camera si erano spente. Il vento ne aveva approfittato per appropriarsi delle deboli fiammelle. Il conte si fece strada per raggiungere il letto, la luce proveniente dalla volta notturna gli permise di avanzare senza inciampare. All’altezza del cuscino impugnò una candela, proprio in quel momento venne colto da un fremito. Nella stanza vi era un silenzio sepolcrale. A parte i lembi delle tende che ondeggiavano ad ogni alito di vento tutto era immobile, semi avvolto dall’oscurità. Bramur si irrigidì, il suo sesto senso lo aveva messo in allarme. Sebbene non disponesse di elementi sufficienti per confutare tale sensazione, il presentimento si trasformò presto in certezza. Un’ombra dalla forma allungata si materializzò sul tappeto al centro della stanza. Qualcosa o qualcuno era atterrato sul terrazzo, ma da quell’angolazione non era possibile scorgerlo. Il conte avanzò con timore, in mano stringeva il sostegno metallico che ospitava la candela ormai priva di vita. L’ombra era immobile, di forma indefinita, dal corpo centrale si protendeva una serie di protuberanze appuntite. Passi avvolti dal dubbio condussero il nobile in direzione della finestra. Mentre l’angolo visivo si apriva sempre più, Bramur tremò senza controllo. Raggiunta una chiara visuale sull’intruso il signore del castello ne distinse sagoma e i contorni, rabbrividì davanti ai brillanti occhi rossi che lo fissavano in silenzio. Fece per gridare, ma i versi gli morirono in gola. Quella visione aveva un qualcosa di demoniaco, di ultraterreno. Bramur temette per un istante che Torgaras avesse inviato il proprio flagello per annientare la contea. Fece qualche passo indietro finché la schiena non urtò contro la parete, dall’altro lato della stanza. Il cuore dell’uomo continuava ad accelerare, le mani vennero colte da un improvviso sudore. Bramur fece di tutto per non farsi prendere dal panico, di certo si trattava di un’entrata ad effetto che non aveva mai visto prima di allora. L’istinto gli suggerì di provare a gridare di nuovo, nel tentativo di attirare l’attenzione delle guardie non lontane. Il cervello tuttavia gli impedì di commettere quello che sarebbe stato un grave errore: l’intruso era troppo vicino. Le sue fattezze non avevano niente da invidiare alle raffigurazioni dei demoni nei tomi all’interno della biblioteca. Ad un esame più approfondito però Bramur notò come quella creatura non possedesse i tratti distintivi del culto di Torgaras. Il Signore delle Tempeste era fiero nell’animo e battagliero nei modi. I colori predominanti nella cultura religiosa a lui devota erano l’azzurro e il verde, mentre gli elementi erano l’aria e l’acqua. Benché l’essere misterioso disponesse di un’aurea ultraterrena, sembrava estraneo a tutto ciò. Forse il suo avvento era legato alla volontà di qualche altra divinità, molto più oscura. Come egli avesse raggiunto il suo terrazzo dall’esterno era la domanda che in quel momento teneva banco nella mente del conte. Una rabbia travolgente nacque nei confronti di Yoll, reo di non aver saputo provvedere alle difese del castello.

    Gli attimi trascorsero senza che nessuno parlasse, tanto che Bramur dubitò persino che l’intruso ne fosse capace. Certo era che se egli avesse voluto nuocergli lo avrebbe già fatto, quindi forse una trattativa era possibile. L’uomo si ricompose, cercò di comunicare con la

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