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Jacopo Caneva’s Tim Burton
Jacopo Caneva’s Tim Burton
Jacopo Caneva’s Tim Burton
E-book270 pagine2 ore

Jacopo Caneva’s Tim Burton

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Info su questo ebook

Jacopo Caneva, l’autore di questo stupefacente libro, è un teenager di 14 anni. Come molti suoi coetanei, ha una passione sfrenata per i film e i personaggi di Tim Burton, un regista che da sempre racconta lo spazio sghembo dell’immaginazione, la labile soglia tra sogno e realtà; è un ragazzino – anche lui – nostalgico e geniale, che ha inventato figure surreali, mostri, fantasmi, ha più volte decomposto e ricomposto la realtà, colorandola di tinte insolite, cupe e scintillanti; un eterno fanciullo che teme la conformità, perché in essa si spengono i voli della fantasia, si generano inquietanti non luoghi, pietrificati, decolorati, popolati di adulti dai sentimenti agghiaccianti e bambini eversivi dalla fantasia “pericolosa”. Le favole cinematografiche di Burton possono anche essere lette come partiture d’orchestra, stregate e malinconiche, con un incedere lieve e stralunato; ed ecco allora che Jacopo, da brillante studente di arpa, armonia e composizione, si prodiga ad analizzare puntualmente anche le colonne sonore (opere, per lo più, di Danny Elfman) rileggendo la poetica di Burton in una chiave musicale inedita e originale.
LinguaItaliano
EditoregoWare
Data di uscita19 nov 2012
ISBN9788897324782
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    Anteprima del libro

    Jacopo Caneva’s Tim Burton - Jacopo Caneva

    Anno 2012

    ISBN 978-88-97324-78-2

    © goWare per l’edizione digitale

    Redazione: Monica Rocca

    Copertina: Lorenzo Puliti

    Sviluppo ePub: Elisa Baglioni

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    gentilezza e infinita passione

    Alla mia famiglia

    A Tim Burton, genio umile, creatore

    e difensore di sogni senza tempo

    Premessa

    There comes a point when any reasonable

    man will swallow his pride and admit

    he made a mistake. The truth is...

    I was never a reasonable man.

    da Big Fish

    Lo scopo di questo testo non è introdurre o iniziare il lettore all’opera cinematografica di Tim Burton, poiché l’unico modo per avvicinarsi alla sua arte e alla sua poetica è attraverso la visione dei suoi quindici lungometraggi; tutte pellicole che, ogni volta in un modo diverso, ci regalano un ritratto impietoso, tragico, emozionato, commovente o ironico del mondo in cui viviamo, attraverso la rappresentazione di un’umanità variopinta – dall’uomo-mito di Ed Wood e Big Fish ai due simboli incarnati del cinema di Burton, Edward mani di forbice e Sweeney Todd – che ruota sempre intorno all’emarginazione e alla diversità, così come appaiono agli occhi della società civilizzata.

    Il principale motivo per cui Tim Burton verrà ricordato dai cinefili di domani sarà proprio l’importanza attribuita alla rappresentazione e all’analisi, sempre più dettagliata e complessa, della figura dell’outsider, termine che ormai da venticinque anni si abbina ai film e alla figura stessa del Burton-creatore e del Burton-uomo.

    Il mondo di Tim Burton è frutto della rielaborazione, personale e innovativa, delle idee di molti numi ispiratori: da Murnau a Corman, da Fellini a Kubrick, da Vincent Price alla sottocultura gotica e punk. Burton ha creato un universo che potremmo definire classicamente postmoderno, non paragonabile all’aristocrazia di James Ivory (il porcellanato, come lo definisce il critico Gianni Canova), né alla crudele assurdità di Alejandro Jodorowsky, all’inspiegabilità di David Lynch o alla classicità epica e titanica di Steven Spielberg, né alle forme cinematografiche dei maggiori autori che si sono imposti negli anni ’80: Burton è stato il primo cineasta a porre l’attenzione sul concetto del meraviglioso introspettivo. L’ispirazione proviene anche dai miti dell’infanzia e della giovinezza: i film di Roger Corman con protagonista Vincent Price, tratti dai più famosi racconti di Edgar Allan Poe, e gli horror immortali di Mario Bava; l’ammirazione per il surreale mai troppo insistito di Fellini e l’amore per le forme dell’espressionismo cinematografico, da Murnau e Nosferatu a Wiene e Il gabinetto del dottor Caligari.

    Non ci resta che iniziare il nostro viaggio alla scoperta del mondo di Tim Burton, prendendo le mosse dalla periferia, luogo simbolo del suo percorso filmico, nella quale – a Burbank, California – Burton è nato e cresciuto, e che ha trasferito nei suoi principali film, dove immaginazione e realtà, cinema e vita si eguagliano e si differenziano al tempo stesso.

    Parte Prima

    LA CREAZIONE DELL’UNIVERSO BURTONIANO

    La finta follia tra Corman e Murnau:

    VINCENT

    Storia

    Vincent, primo cortometraggio in stop motion del futuro maestro Tim Burton, è stato realizzato nel 1982, grazie a un finanziamento di ben 60.000 dollari – procurato da Julie Hickson, sceneggiatrice e produttrice, ma soprattutto allora compagna del regista – della Disney e della Touchstone, a essa affiliata e destinata ancora oggi alle produzioni Disney meno infantili (gli stessi Ed Wood e Nightmare Before Christmas sono stati prodotti da questa costola).

    Il ventiquattrenne Burton, disegnatore a suo dire incapace di realizzare volpi e cagnolini sorridenti (si riferisce al lavoro per Red & Toby – Nemiciamici) e spesso sottovalutato (nessuno prese in considerazione il suo lavoro per Taron e la pentola magica, film disneyano con lontane reminescenze di quello che sarà lo stile visivo del regista), ha chiamato con sé l’amico Rick Heinrichs, futuro scenografo geniale e collaboratore di Burton in film come Edward mani di forbice, Sleepy Hollow e Dark Shadows, per realizzare una piccola storia macabra a pupazzi, che ancora oggi si impone come primissima apoteosi della poetica del regista americano.

    Fondamentale è stato l’apporto dell’animatore Stephen Chiodo, ma soprattutto del grande – e ancora oggi indimenticato – Vincent Price, idolo di Burton fin dall’infanzia e incarnazione del gotico di serie B, ma raffinato e a volte fin troppo manierista.

    Il film fu proiettato in un solo cinema di Los Angeles e ricevette anche alcuni importanti riconoscimenti (Londra, Seattle, Chicago, Ottawa), ma la casa di produzione non lo riteneva un prodotto adatto al suo stile e, di conseguenza, non lo rilanciò più.

    Ora il film di Burton è recuperabile con estrema facilità su Internet.

    Il primo (finto) outsider

    Vincent Malloy, di anni sette, come ricorda la voce narrante, è il primo outsider della filmografia burtoniana, il primo personaggio che si sente, a ragione, escluso da una civiltà, da una società che non accetta il diverso e la fascinazione per lo strano e l’anormale, dove la salvezza sta nell’infanzia e nell’immaginazione e il mondo degli adulti equivale a noia, quasi a paura.

    Non a caso la madre, la zia, tutti gli adulti che compaiono sono ripresi a metà, dalle gambe in giù, come avviene in molti cartoni animati (di solito cortometraggi) della Disney con protagonisti animali: il mondo adulto è terribilmente monotono, programmato, schematizzato e, almeno nel nostro caso, borghesizzato, quasi a fare da prolessi alla folla stupidamente inferocita di Edward mani di forbice.

    Vincent si sente escluso, non capisce come mai nessuno comprenda il suo bisogno di orrore e la sua necessità di provare repulsione e paura nei confronti della normalità che, vuole sottolinea­re Burton, spesso è ancora peggio dell’irrealtà e del surreale, ma soprattutto del mondo dei sogni e degli incubi gentili tipici dei suoi outsider. Vincent ama leggere libri di Edgar Allan Poe e si immagina di seviziare, in modo ironicamente cormaniano, il suo cane che soprannomina Abercrombie, e di bruciare l’odiosa zia nell’olio bollente: ciò richiama alla passione per i film di serie B ispirati al Medioevo o alla mitologia classica, come per esempio Gli Argonauti. Proprio a questo film ha lavorato Ray Harryhausen, massimo esponente del mondo della stop motion artigianale e tra le figure di riferimento, almeno dal punto di vista tecnico, del cinema di Burton.

    Ma va sottolineato che il mondo creato da Vincent è tutt’altro che tragicamente reale: è una sua visione, una proiezione di un bambino molto fantasioso che vorrebbe impazzire, come succede a Vincent Price nei film di Roger Corman. In realtà la sua vita normale è perfettamente identica a quella di qualsiasi altro bambino: la mamma lo lascia giocare fuori, purché non rovini l’aiuola; la pericolosa zia è soltanto troppo affettuosa. La propensione per il mostruoso è data unicamente dalla visione dei film summenzionati e dalla lettura di Poe, che il ragazzino cita nell’ultima, meravigliosa scena dell’opera della durata di 6 minuti scarsi. Declama, con atteggiamento teatrale: L’anima mia da quell’ombra laggiù non si risveglierà mai più. Mai più. Mai più, a sottolineare la profonda tragicità della disperazione di Vincent, poiché non è pazzo, non ha seppellito la moglie viva e non ha mai dato fuoco alla zia. Per lui l’unico mondo interessante e, nel suo essere macabro e sadico, tranquillizzante e non ambiguo è quello dell’horror di serie B, anche se va ricordato che nel film molte sono le citazioni dell’espressionismo cinematografico. Vincent è una persona pura, attratta dall’oscuro, ma in modo infantile e per niente interessato, dal punto di vista morale, ad atti come omicidi o torture: si tratta di una fascinazione puramente cinematografica e letteraria, come anche avviene con Burton.

    Molti hanno notato, ironicamente e non a torto, come la pettinatura di Vincent ricordi molto quella del suo creatore, quasi che il regista abbia voluto immedesimarsi anche fisicamente nel suo personaggio, sicuramente tra le più originali raffigurazioni dell’infanzia, ben lontana dalla filosofia della Walt Disney Production.

    Corman vs. Murnau: serie B vs. Espressionismo

    Visivamente, come anticipato, questo primo film si conferma come uno dei classici mix di suggestioni, trasformate e fatte proprie, che accompagneranno Burton per tutta la carriera. Qui si scontrano, fondendosi senza perdere gli elementi centrali, la raffigurazione dell’immagine tipica del prodotto di serie B (o comunque commerciale) e la classica estetica dell’espressionismo, artistico e cinematografico. È chiara l’ispirazione di film immortali come Nosferatu di Murnau o Il gabinetto del dottor Caligari di Robert Wiene, entrambi uniti, appunto, dal gusto espressionistico per le forme spigolose e per la malformazione delle figure, ma diversi, in quanto il primo punta all’horror poetico (ma non per questo meno inquietante), il secondo a cercare di analizzare la mente malata dell’essere umano, diventando così il capostipite di una lunga serie di film poeticamente allucinati.

    In Vincent Burton fa coabitare pacificamente queste due facce dell’Espressionismo cinematografico, in modo che neppure si noti la presenza di un rimescolamento: il nuovo stile espressionista, dopo Murnau e Wiene, è quello di Burton, nato dalla fusione dei due stili precedenti con la mente e lo sguardo visivo di un regista abituato a uno sfrenato consumismo e che associava, almeno in giovane età, la parola arte a Andy Warhol, artista che tornerà in buona parte della filmografia: da Batman a Dark Shadows a Mars Attacks!.

    In ciò, nell’uso visionario dell’Espressionismo, Burton si dimostra già padrone di se stesso e creatore di uno stile personale, senza però evidenziarlo: mai il cortometraggio in questione si propone come una presa in giro artigianale del gotico o dei B-movie; mai Burton schiaccia il pedale sull’innovazione visiva. Ricordiamo l’ultimo minuto del film, con la scena spigolosa, ormai entrata a pieno titolo tra le scene simbolo del Burton tragico e orrorifico, ovvero il momento nel quale Vincent Malloy sale le scale. Si tratta di una scena breve, ma emozionante nella sua (ironica, come abbiamo detto) tragicità, che dimostra l’amore di Burton (e del suo alter ego di turno, il protagonista) per il diverso e per l’orrorifico, tutto in modo allo stesso tempo espressionista e influenzato dalla serie B di Corman e Harryhausen. È caratterizzata soprattutto dalla voce narrante di Vincent Price, sempre affascinante e ammaliante, quasi ipnotico nel descrivere la giornata tipica di Vincent, tra l’amicizia con il gatto che preannuncia Frankenweenie e il suono del flauto, che esegue una bella melodia tradizionale russa. Classicamente di serie B è anche la colonna sonora di Ken Hilton: sebbene troppo manierista, si adatta all’opera burtoniana, grazie all’ottimo uso del theremin, strumento che verrà utilizzato in film come Ed Wood, La fabbrica di cioccolato o Dark Shadows. La musica di Hilton è sentita e partecipa alle vicende di Vincent e, anche se, non è particolarmente burtoniana, anticipa l’importanza che avrà la colonna sonora all’interno dei film del regista.

    Uno stile tridimensionale

    La prima inquadratura che ci mostra il protagonista del film è di una profondità straordinaria, probabilmente molto più efficace ed evidente che in molti film in 3D, come Avatar di James Cameron o lo stesso Alice in Wonderland. I movimenti effettuati dai pupazzi grazie al ristretto staff capitanato da Burton e Heinrichs sono straordinariamente naturalistici. La profondità ottenuta è già paragonabile a quella di La sposa cadavere, massimo risultato tecnico nel genere stop motion, e Vincent si muove sullo schermo, accompagnato da Vincent Price che si autocita più volte, direttamente o indirettamente, come se camminasse davanti allo spettatore. Ciò ha anche un significato metaforico: Burton, attraverso questa profondità, ha voluto omaggiare – pur ampiamente migliorandoli – i classici film in 3D degli anni ’50 (ricordiamo per esempio L’uomo nell’ombra, La maschera di cera con Vincent Price, precursore della serie di Poe, Destinazione Terra e il famoso Il delitto perfetto di Alfred Hitchcock). In questi film l’illusione della tridimensionalità era ottenuta grazie agli antenati dei moderni occhialini, quelli con una lente rossastra e l’altra bluastra, oggi veri e propri oggetti vintage.

    Inoltre, al minuto 2.25 circa, Burton cita un particolare stile gotico, ricordato anche dal commento di Price che recita London Fog, che lo interesserà particolarmente negli anni successivi, specie nella prima apoteosi del gotico, Sleepy Hollow. L’immagine di Vincent e dell’ombra del suo cane Abercrombie è il risultato di una grande padronanza dei pur miseri mezzi tecnici a disposizione, che evidenzia già da ora la passione di Burton per atmosfere cariche di nebbia e che mai diventano alla maniera di se stesse. Allo stesso tipo di film rimanda la scarna illuminazione del set, con ombre naturalmente espressioniste e altamente melodrammatiche, specie nelle scene al buio, o quando Vincent contempla il ritratto della moglie che crede di aver seppellito viva.

    Vincent si può, alla luce delle nostre riflessioni, considerare un film di Tim Burton completamente personale e a tutto tondo, in cui i più oscuri meandri dell’horror sono raccontati ironicamente, ma attraverso uno stile inquietante, a metà tra la raffinatezza e la crudezza barocca della serie B.

    Prologo a Edward, l’amicizia e il diverso: FRANKENWEENIE

    Storia

    Il film Frankenweenie fu girato in poco tempo nel 1984 e sarebbe potuto diventare un lungometraggio se la casa produttrice Disney avesse lasciato a Burton, alla troupe e al cast solo qualche giorno in più di riprese. Altro elemento fondamentale che impedì il successo dell’operazione fu la valutazione, da parte dell’MPAA, di PG (Parental Guidance), limitando la visione dell’opera ai bambini accompagnati dagli adulti. Burton, molto rammaricato per la valutazione di censura, chiese spiegazioni e gli venne risposto che il problema principale era il tono della storia: macabro e poco adatto a un pubblico di bambini. Con un budget di un milione di dollari, il film fu nuovamente prodotto da Julie Hickson e dal fido Rick Heinrichs.

    Frankenweenie doveva essere distribuito insieme all’edizione speciale del Pinocchio della Disney, invece, nonostante una nomination all’Oscar, dovette attendere l’uscita, nel 1993, di Nightmare Before Christmas per arrivare in home video, insieme al suo minuscolo predecessore Vincent.

    Toccante parodia-omaggio all’horror

    Il mediometraggio dell’allora ventiseienne Burton è un omaggio ai classici dell’horror di serie B e delle leggende cinematografiche come Frankenstein e La moglie di Frankenstein di James Whale, ma anche alle pellicole più famose della mitica

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