Citofonare Kowanski
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Anteprima del libro
Citofonare Kowanski - Andrea Ghizzani
VI
I
Fondamentalmente, il maresciallo Antonio Galina quel pomeriggio sarebbe tornato a casa volentieri e avrebbe evitato con piacere quella visita in quel bar tristissimo. Il Las Vegas non incontrava i gusti dell'ufficiale da nessun punto di vista: si trovava nella periferia industriale della città, vicino alla portineria dell'Acciaieria, le frequentazioni non erano certo quelle di un golf club della City e, con tutta probabilità, nemmeno il caffè doveva essere un granché.
Al maresciallo piacevano le trattorie sul mare, dove insegnava alla sua bambina come si comporta una signorina a tavola, oppure i caffè nel centro storico dove portava la signora dopo le passeggiate festive, ma in cima alla lista c'erano senza dubbio le pizzerie che organizzavano compleanni per bambini, dove non di rado riusciva ancora a cogliere lo sguardo interessato di qualche mammina di una compagna di scuola della sua Giulia. Il fascino della divisa. Anche in questi giorni debosciati continuava comunque ad avere un suo perché. Ad onor del vero bisogna riconoscere che il buon Antonio, ormai quarantasettenne ma sempre in forma, aveva sempre avuto il suo charme, e di questo aveva avuto prova varie volte in giro per la penisola. Fino a che l'Arma non l’aveva sistemato definitivamente qui.
Quel sopralluogo, dopo i fatti che l’avevano buttato giù dal letto in piena notte, non che fosse prematuro o evitabile, anzi era un atto dovuto verso la divisa ma, a confronto con il letto caldo che l’aspettava a casa, appariva come l’epico gesto di abnegazione dell'intrepido eroe che pone da mette il personale e persegue il suo dovere. Così, alle tre e mezza di quella domenica pomeriggio, il maresciallo si trovava a misurare con passi uguali e cadenzati il Las Vegas. In suffragio tacitamente esclusivo dell'anima e coscienza sua.
Avevano parcheggiato l'Alfa subito dopo il benzinaio di fianco al bar: in macchina era rimasto solo il brigadier Romanino mentre il giovane Cantini, con le movenze marziali e impostate del carabiniere che sfoggia calzoni zeppati dentro gli stivali di pelle nera lucidissima, si era appostato in piedi all'ingresso del bar, lasciando strada all'entrata furtiva e sorniona di Galina.
L'ingresso del Las Vegas era una pedana montata sul marciapiede, recintata da uno steccato prefabbricato di plastica verde, e sulla pedana erano disposti quattro tavolini della medesima plastica scolorita dalle intemperie, spartiti dal passaggio di ingresso. Entrati, subito sulla destra si trovava il bancone mentre sulla parete opposta campeggiava una fila di slot machine che proseguiva regolare lungo il muro frontale formando una elle.
Davanti ad ogni macchina era piazzato uno sgabello e al centro della stanza c'erano tavolini tondi e bianchi con tre sedie ciascuno. Le pareti erano affrescate con una rappresentazione stilizzata di questa cittadina, con tanto di porto storico e belvedere da cartolina, e di quella di una cittadina medievale con torri gotiche e ponti medievali che nell'intenzione dell'artista doveva essere Praga.
L'idea era nata dalla mente di Pietro, il proprietario, al momento dell'inizio dell'attività, ormai una quindicina di anni prima, prima che la sua dolce metà cecoslovacca Magda decidesse che le promesse a cui aveva ceduto male si sposavano con l'aspetto non proprio invitante di quel nido d’amore, ed era ritornata dalla madre senza farsi più viva. Al tempo record di una settimana. Gli avvinazzati storici del Las Vegas ricordavano lo sguardo perduto di Pietro su quella parete subito dopo l'abbandono e ormai utilizzavano quella cornice artistica per sancire la loro autorevole e solida presenza con i neofiti della situazione.
Il maresciallo Galina si era fatto strada nel silenzio, la macchina era stata avvertita fin quasi dal rombo del motore e tutti si erano zittiti, intenti a fingere di avere da fare chissà che: l'immagine convincente del più opportuno raduno di gentiluomini. Nella sua irrinunciabile cavalleria, togliendosi il cappello aveva rivolto un cordiale saluto ad Anna Rosa che, in piedi dietro il bancone, asciugava le tazzine appena uscite dalla lavastoviglie mentre sfogliava tutta assorta Vanity Fair. Ormai Pietro passava dal bar solo un paio di volte a settimana, per prendere e controllare gli incassi non tanto delle bevute quanto delle slot machine, e aveva delegato tutto il resto alla ragazza, certamente aiutata dalla clientela affezionata.
«Buongiorno a tutti, signori. La mia visita è dovuta a un episodio che spero di poter chiarire al più presto, anche grazie a quello che voi avrete da dirmi in merito» aveva iniziato Galina, passando sotto le lenti dei propri occhiali la fauna ammutolita che l’aveva accolto.
Nella stanza, oltre al carabiniere e a un’incuriosita