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La donna del peccato: Una storia vera
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E-book331 pagine4 ore

La donna del peccato: Una storia vera

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Info su questo ebook

Stati Uniti, inizi del '900
La donna più potente d'America era la proprietaria di un bordello

Mary Deubler, la prostituta che divenne una delle donne più potenti d'America

L’incredibile storia dell’ascesa di Mary Deubler, una prostituta che iniziò la sua carriera, poverissima, nei vicoli di New Orleans, ma che fu capace di usare la sua bellezza e la sua intelligenza per trasformarsi in Josie Arlington, una delle donne più influenti e temute del suo tempo.
Fra le trame del suo racconto licenzioso si coglie quel particolare momento della storia americana che va dalla fine dell’Ottocento al primo decennio del Novecento e che fu animato da grandi protagonisti. Dietro le porte dei sontuosi bordelli di Storyville si siglavano le più importanti trattative legali e politiche e nascevano grandi talenti musicali. Immersi nella dissolutezza di quel quartiere in cui le persone – provenienti da Hollywood, New York o persino dall’Europa – accorrevano per folleggiare, i potenti del mondo affidavano all’amante di turno scottanti confidenze. E fra queste confidenti speciali c’era anche lei, Mary Deubler, proprietaria del bordello più sfarzoso e dalla clientela più selezionata. Mary, divenuta custode di segreti di ogni tipo – personali e politici – riuscì nel giro di poco tempo a sfruttare a suo vantaggio le confessioni strappate nell’intimità dell’alcova, arricchendosi e consolidando il suo potere, fino a diventare, talvolta, pedina decisiva in alcune delle più scottanti vicende americane.

Dai bassifondi di New Orleans la storia vera della donna che da prostituta divenne una delle figure più potenti dei primi del Novecento

Nella sua camera da letto i segreti più nascosti di un intero paese


Cari Lynn
È autrice e coautrice di quattro libri di docu-fiction, tra cui The Whistleblower: Sex Trafficking, Military Contractors and One Woman’s Fight for Justice, la vera storia di un’ufficiale di polizia, Kathryn Bolkovac, che denunciò il traffico di esseri umani all’interno della missione ONU in Bosnia, da cui è stato tratto il film The Whistleblower, di Larysa Kondracki, con Rachel Weisz, Monica Bellucci e Vanessa Redgrave, David Strathairn e David Hewlett.


Kellie Martin
È un’attrice televisiva americana, che ha ricevuto la nomination agli Emmy per il ruolo di Becca Thatcher nella serie americana Una famiglia come tante; ha inoltre interpretato il ruolo di protagonista nella serie della CBC Christy e quello della studentessa di medicina Lucy Knight in E.R.
LinguaItaliano
Data di uscita16 dic 2013
ISBN9788854159693
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    Anteprima del libro

    La donna del peccato - Cari Lynn

    collana

    205

    I personaggi e gli avvenimenti narrati in queste pagine sono basati su persone reali ed eventi reali. Dove possibile abbiamo inserito dialoghi realmente avvenuti e abbiamo cercato di conservare un accurato senso della storia all’interno del romanzo. Poiché la maggior parte dei documenti su Storyville sono stati intenzionalmente distrutti, ci siamo presi delle licenze drammaturgiche per colmare le lacune.

    Titolo originale: Madame

    © Cari Lynn and Kellie Martin 2014

    Traduzione dall’inglese di Guido Del Duca

    Prima edizione ebook: ottobre 2013

    © 2013 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-5969-3

    www.newtoncompton.com

    Edizione digitale a cura del Service editoriale il Quadrotto, Roma

    Cari Lynn e Kellie Martin

    La donna del peccato

    Newton Compton editori

    La donna del peccato

    Provengo da una lunga dinastia di puttane.

    Nei nove decenni passati su questa terra non ho mai pronunciato parole simili ad alta voce, le ho solo viste scritte dalla mia stessa mano, fissarmi in modo che non potrò mai dimenticare. Ma ora, mentre una tempesta estiva infuria e sospinge il lago Pontchartrain appena fuori dalla mia porta, sento una strana sensazione di pace e chiarezza. Il mio passato è qualcosa di più della mia storia. Anche se questa storia mi disonora in molti modi, è comunque la mia eredità. Devo accettare quella stessa verità che per tutta la vita ho cercato di negare.

    Provengo da una lunga dinastia di puttane.

    Chiamatele prostitute, chiamatele donne di facili costumi, chiamatele madame, non serve trovare un eufemismo per spiegare come si guadagnavano da vivere. Ma loro si guadagnavano da vivere, e lo facevano in tempi in cui persino le donne di grandi mezzi e alto lignaggio avevano ben poche speranze di lavorare.

    Oh Santa Teresa, che ingrata sono stata. Tutto ciò che ho, tutto ciò che sono, lo devo a loro – a lei. Ha cominciato la sua vita da bastarda, con un nome che non valeva niente e un albero genealogico che era un tronco reciso. Eppure, mi ha colmata di ricchezze: la mia educazione, la mia dote… questa vecchia casa vittoriana, che resiste a tutto. Quanto si lamentano le mura sotto l’assalto del vento! Questa casa, nella sua eleganza sbiadita, è tutto ciò che resta. L’ho odiata profondamente perché un tempo era un bordello – hot jazz, voodoo e peccati indicibili trasudavano da ogni fessura.

    La casa l’ha costruita mia zia, ma sono stata io a salvarla. I fantasmi venivano a trovarmi di notte, sussurrandomi che non potevo perderla. Mentre New Orleans si affannava a distruggere ogni traccia dell’esistenza del quartiere a luci rosse, io restavo di guardia a questa porta. Di notte, il municipio cancellava tutti gli archivi delle donne che vivevano e lavoravano qui. Cambiarono persino i nomi delle strade. Ci volle la firma del giudice più importante per risparmiare la casa dalla folla armata di torce che saccheggiava e dava alle fiamme gli altri bordelli. Ma come posso biasimare la mia amata città? Io stessa avrei voluto cancellare questa vergogna, questa piaga nella nostra storia.

    Ma è esistita. Storyville era reale. E così le madame. Attorno a loro c’è un alone di leggenda, è vero, ma erano fatte di carne e sangue, con i loro sentimenti e persino la loro intelligenza – erano più abili in affari della maggior parte dei commercianti della città. Ciononostante, restavano semplici donne, prive di ogni diritto e trattate come esseri vulnerabili e inutili. Donne che possono aver riso e bevuto e folleggiato più delle altre, ma soffrivano e amavano, piangevano e pregavano, e, nei momenti più difficili, chiedevano perdono.

    Ora la casa, la mia casa, è tutto ciò che rimane come testamento di un’epoca. Se è questa la tempesta che la porterà via, io me ne andrò con lei. Spero solo che la lettera e le fotografie sopravvivano.

    Mia adorata Josie, con la grazia di Dio, ti prego di perdonarmi.

    Anna Deubler Brady

    225 Basin Street, New Orleans

    14 agosto 1997

    New Orleans, 1907

    Prologo

    «Signorina Arlington».

    Josie udì la voce impaziente che la chiamava, ma non se la sentì di voltarsi.

    «Signorina Arlington», insistette l’uomo. «Signorina, giusto?».

    Continuando a ignorarlo, Josie fece un respiro profondo e si avvicinò a un imponente pianoforte, un Bösendorfer arrivato da Vienna – non che per lei significasse granché, ma doveva essere il migliore, e di sicuro era un oggetto importante per qualcun altro. Se si fosse fermata a pensarci, lo avrebbe regalato al maestro di piano della casa, Ferdinand, ma ormai da tempo aveva dimenticato come fare per compiere gesti altruisti e importanti, persino verso una persona che significava tanto per lei. In quei giorni, tutto girava attorno agli affari. E comunque a Ferdinand non piacevano gli strumenti nuovi, amava quel pianoforte segnato dalla traccia delle sue dita, lo stesso che, con suo grande sgomento, era stato improvvisamente portato chissà dove.

    «Tutti la cercano, signorina Arlington», disse Ferdinand, accennando un mezzo sorriso d’intesa.

    Josie sussultò, contraendo le labbra truccate. I loro sguardi si intrecciarono.

    «No, Ferdinand, non tutti».

    Lui fece scorrere le lunghe dita sui tasti – la passerella, come la chiamava lui.

    «Mi pare di ricordare che un anno fa, proprio in questo stesso giorno, era scorbutica come oggi».

    Non riusciva a credere che Ferdinand se lo ricordasse. Era un piccolo cenno di gentilezza che le toccò il cuore, una di quelle cose che solo Ferd sapeva fare. Era passato del tempo da quando aveva avuto un moto simile, ma sapeva che non doveva pensarci adesso. Quel giorno era già una punizione per conto suo, senza bisogno di peggiorare le cose diventando sentimentali o – Dio non voglia! – piagnucolosi. Cambiò posizione, incrociò le braccia strette sul petto, con i nastri di pizzo (provenienti dal Belgio, ovviamente) che le pendevano dai polsi e dai gomiti.

    L’improvviso cambio di atteggiamento non passò inosservato agli occhi di Ferdinand. Sapeva com’era fatta – sua nonna l’avrebbe definita un melograno, dura e ruvida fuori, ma all’interno di una dolcezza struggente.

    La sala venne attraversata da un altro richiamo, stavolta era una voce roca e farfugliante per il troppo alcol.

    «Chiediamo l’onore della sua presenza, signorina Arlington».

    «Farà meglio a prendersi cura dei suoi ospiti, Ma’am», suggerì delicatamente Ferdinand, facendo un piccolo cenno, come se stesse convincendo un bambino. Josie rimase a fissarlo, colpita. Già, gli ospiti. Tutti quegli uomini dalle mani avide, instancabili, e dai palmi sudati. Tutti quegli occhi impazienti e il loro alito dall’odore stantio di sigari. E quei portafogli pieni di soldi.

    Si risistemò, lisciando l’abito svolazzante a petto di piccione.

    «Neanche un filo fuori posto», la rassicurò Ferdinand.

    «Certo che no», replicò Josie, la cui voce si era già fatta distante, «viene dal migliore negozio di Parigi».

    Nel tempo che impiegò per voltare le spalle a Ferdinand e rivolgersi al resto dell’affollato salotto, si trasformò completamente – una trasformazione che aveva impiegato anni a perfezionare. Tutta la malizia era sparita. La sua era una perfetta postura vittoriana, con il seno proteso in avanti, le spalle all’indietro, il naso dritto, l’espressione al tempo stesso dura e sensuale. Non era più la ragazza scoraggiata che Ferdinand aveva visto poco prima; adesso era la leggendaria madame Josie Arlington. Una leggenda che si era costruita da sola.

    Josie scivolò sui tappeti persiani, superò i mobili rococò, i lampadari di cristallo, i candelieri, e le opere d’arte acquistate dai più rinomati mercanti di New Orleans. E tuttavia erano tutte cose a cui lei non faceva più caso, non che quegli oggetti le avessero mai dato particolare piacere. Li aveva comprati, in un certo senso, solo perché amava la sensazione di poter possedere cose tanto lussuose e di valore. Ma non sapeva nulla di arte ed eleganza, e non aveva mai trovato una vera bellezza o un significato speciale in quelle opere che le venivano descritte come le migliori al mondo. Faticava a capire cosa ci fosse di così prezioso in quegli oggetti costosi per cui le persone si eccitavano e sospiravano – a parte il prestigio, ovviamente. Quello sì che era importante per lei.

    La folla si aprì mentre Josie percorreva la sala in tutta la sua lunghezza. Gli uomini rispettosamente chinavano la testa e si toccavano il cappello. Le ragazze facevano un inchino o, se erano state imperdonabilmente sorprese a parlare tra loro, si sparpagliavano come scarafaggi sorpresi dalla luce del giorno, ben sapendo che non era concesso loro di conversare – l’attenzione doveva essere rivolta esclusivamente agli uomini. Inoltre, Josie non si fidava delle ragazze che si parlavano all’orecchio, Dio solo sapeva se stavano cospirando contro di lei.

    Si avvicinò al bar, dove c’era una fila di bottiglie di champagne allineate come soldatini; una dopo l’altra sarebbero state stappate e, a mezzanotte, le bollicine sarebbero scese da una piramide di bicchieri di cristallo. Nessuno si sarebbe preoccupato se lo champagne fosse finito sui tappeti, o se fosse schizzato sui muri, o se gli ubriachi avessero rovinato i sofà di velluto. Le macchie facevano parte degli affari. In ogni caso la mattina sarebbero arrivate le cameriere a pulire e, per l’ora di pranzo, quando tutti si sarebbero svegliati, la villa sarebbe stata splendente, pronta a ricominciare da capo, notte dopo notte dopo notte.

    «Era ora, signorina Arlington!», gridò un uomo in frac nero quando Josie raggiunse il bar. La sala si strinse attorno a lei, tutti gli uomini erano ansiosi di arrivare vicino alla madame, che per alcuni era famosa, per altri addirittura leggendaria.

    Josie cominciò la sua solita recita: sbatté le ciglia, fece correre le dita lungo una fila di bottoni di madreperla su una camicia, pizzicò una guancia. Poggiò le mani curate su quelle di un uomo, facendo timidamente scivolare la fede nuziale da un dito irsuto e infilandola nella tasca del gilet. «Solo per stanotte», tubò con quel suo tono di voce caldo e sensuale. Tra risa e ammiccamenti, molti altri seguirono l’esempio, facendo sparire gli anelli.

    Josie era volutamente molto parsimoniosa di parole con i suoi clienti. Le parole potevano solo complicare le cose, soprattutto se venivano da una donna. Le parole potevano riscuotere un uomo dai sogni con cui era entrato in quella sala. Ed era l’ultima cosa che madame Josie Arlington voleva. Dopo tutto, vendeva sogni. I pochi minuti di sesso erano solo la parte meccanica: gli uomini dovevano portare via con sé un sogno forte abbastanza da continuare a vivere per giorni, persino settimane, costringendolo a derubare la sua famiglia, inventare una bugia credibile, una qualche ragione per visitare Basin Street.

    Josie sapeva andare dritta al punto, chiedeva ai clienti da dove venivano, quale fosse il loro passatempo preferito, se avessero già visitato l’Arlington prima. Faceva del suo meglio per ricordare nomi, volti e curiosità, tipo: «Bentornato al mio bel gentiluomo del Mississippi, il cui colore preferito sono le rosse». Gli uomini cadevano ai suoi piedi come ragazzini.

    Sapeva anche che quelle piccole recite andavano fatte nei momenti giusti della serata, prima che l’alcol prendesse il sopravvento e sciogliesse lingue e inibizioni. E anche così, c’erano quelli che non riuscivano a resistere alla tentazione di toccarla, di palpeggiarla o darle pizzicotti da sotto il bustino, e persino afferrarle i seni. C’era stato un tempo in cui apprezzava tali avances, apprezzava ogni gesto che la facesse sentire desiderata. Ma quei giorni di miseria erano ormai lontani e adesso, non appena qualcuno la toccava, doveva resistere alla tentazione di sobbalzare o, peggio ancora, di schiaffeggiare il colpevole. Si scostava pazientemente la mano da dove era finita e rispondeva «No, no, no, non rovinarti l’appetito. C’è un bocconcino prelibato che ti aspetta».

    Josie aveva addestrato le ragazze a fare attenzione a quel tipo di comportamenti. Sapevano esattamente quando intervenire con un diversivo che permettesse a Josie di allontanarsi dalla sala e, una volta fuori dalla visuale, precipitarsi sulla scala di servizio su, su, su, fino alla solitudine dell’ultimo piano, proibito a chiunque.

    Ma adesso, mentre percorreva la sala con gli occhi per catturare lo sguardo di una delle ragazze e farle cenno di intervenire per liberarla, non vide nessuno, solo un mare di tessuto di lana pregiata. Nessun pizzo, nessun bustino, nessun cappello di piume o fiocco per capelli. Era strano, fino a un istante prima le ragazze erano state lì intorno a pavoneggiarsi. Josie spostò lo sguardo verso l’ingresso per vedere se le ragazze si fossero attardate a dare il benvenuto a qualche ospite. Ma l’ingresso era vuoto, e Josie all’improvviso fu colpita dalla sensazione che c’era qualcosa che non andava. Forse una delle ragazze si era sentita male e le altre erano salite ad assisterla? E perché nessuno era venuto a informarla? Non riusciva a pensare a nessun’altra spiegazione e, senza nessuno pronto a salvarla, il cerchio di uomini che le stava intorno sembrava farsi ogni istante più stretto. Ogni volta che si muovevano, quei corpi la sfioravano. Quando ridevano, sentiva il loro respiro sulla pelle.

    Pensò a Ferdinand – lui l’avrebbe aiutata. Ma scartò subito l’idea di chiamarlo, sapeva che se il pianista di colore avesse provato a farsi largo in quel cerchio d’avorio probabilmente sarebbe stato picchiato. Già era considerato un atto di generosità che alcuni di quegli aristocratici tollerassero la presenza di Ferdinand nella sala, anche se a Storyville era risaputo che da Miss Arlington non si badava a quel genere di cose. Josie si sforzò di guardare oltre quello che sembrava un branco di lupi. Socchiuse gli occhi nella speranza di incrociare quelli di almeno una delle ragazze.

    Proprio in quel momento le lampadine crepitarono e, di colpo, si spensero. Josie venne attraversata da un’ondata di panico, e le sembrò che le ginocchia stessero per cederle. E alla fine vide delle luci scintillanti danzare sul soffitto.

    Le ragazze di Josie entrarono nella sala sfilando, lanciando stelle filanti e coriandoli. La folla si fece da parte per far passare quattro ragazze che portavano in equilibrio precario una enorme torta a strati coperta da rose di zucchero. Provarono a intonare all’unisono: «Perché è una brava ragazza».

    Josie serrò le mascelle e strinse i pugni. Spinse via gli uomini che le stavano di fronte.

    «Basta!», ordinò. Ma la sua voce venne sovrastata dall’intera sala che si era unita al coro. Sbatté i piedi con disprezzo e urlò ancora più forte. «Basta! Basta! Basta!».

    Stavolta la canzone si interruppe. Le ragazze si scambiarono sguardi preoccupati, mentre la chiassosa sala piombava in un silenzio imbarazzato. Gli occhi di Josie si indirizzarono verso il pianoforte. In altre circostanze Ferdinand avrebbe capito al volo e sarebbe partito con un motivetto orecchiabile, o addirittura con un irriverente "Ba-dum dum", come quando qualcuno faceva una battuta particolarmente volgare o noiosa. Ma quella volta Ferdinand fece di testa sua e si alzò dallo sgabello nella speranza di catturare l’attenzione di Josie.

    Non era certo l’unico intento a fissare Josie. La sala era piena di bocche aperte e occhi spalancati, e di colpo Josie capì che si stavano chiedendo se avrebbero assistito a una delle famose sfuriate di Miss Arlington, l’ultima delle quali era finita sui giornali.

    Gli occhi di Josie incontrarono quelli di Ferdinand; lui scosse gentilmente la testa come a ricordarle di tenere certe cose per sé. Josie riusciva a sentirne la voce nella testa: Oh, santo cielo, che non le salti in testa di fare una scenata. Fra un po’ sarà molto più difficile fermarsi.

    Lei inspirò profondamente, aprendo i pugni. Con una risata nervosa disse: «Ci deve essere un errore». Si costrinse a sorridere, ostentando un’assoluta tranquillità. «Non è il mio compleanno». Si guardò intorno nella sala. «È forse il compleanno di qualcuno?».

    Tra la folla si fece avanti un uomo, che indicò l’amico. «Il suo è domani».

    «Perfetto!», gridò Josie. «Allora questa è la tua festa. E a mezzanotte sono sicura che ci sarà una fortunata signorina che troverà il modo di festeggiarti come si deve».

    E a questo punto Ferdinand iniziò di nuovo a suonare «Perché è un bravo ragazzo», e la sala riprese, perplessa, a cantare. Con un guizzo di stivaletti di pelle, le ragazze imbarazzate avvicinarono la torta al cliente, che stava diventando paonazzo.

    Josie ne approfittò per allontanarsi.

    Tirò fuori un portachiavi dallo stivaletto, aprì un lucchetto, poi girò un’altra chiave nella toppa. Dopo aver spinto la porta pesante, sparì in un baleno all’interno dell’appartamento, affrettandosi a richiudere le serrature alle sue spalle. Si guardò attorno e poi diede inizio al rituale notturno: controllare l’armadio, spostare le pesanti tende di raso per ispezionare il balcone, sollevare le trapunte di pizzo per controllare sotto il letto. In città c’erano persone che volevano vendicarsi di lei – o almeno ne era fermamente convinta – e lei non poteva lasciare nulla al caso. Non era mai sicura di cosa stesse cercando, ma era stato così sin dalla nascita dell’Arlington su Basin Street; ora che il bordello era diventato uno dei locali più importanti, lei si era fatta ancora più cauta. I vicini – quelle che dovevano essere le sue sorelle all’interno dei confini di Storyville – non apprezzavano il suo successo.

    Una volta appurato che il suo regno privato era perfettamente al sicuro, Josie iniziò a spogliarsi, aggredendo i bottoni e i nastri come se non riuscisse a togliersi i vestiti abbastanza in fretta. Via quel corsetto soffocante, via le calze pesanti, il gonnellino cadde appallottolato sul pavimento. Si avvolse in una vestaglia di seta giapponese che era un regalo di un cliente cosmopolita – ai tempi in cui dilettava ancora i suoi prediletti – e si preparò il bagno.

    Mentre la vasca con i piedi a zampa di leone si riempiva, prese con gesti lenti una scatola dorata incartata con un grande fiocco blu che per tutto il giorno era rimasta sopra lo scrittoio. Sapeva chi le aveva mandato il regalo e lo scartò pigramente; vi trovò una cornice d’argento, con una scritta incisa sul retro: Alla donna che ha tutto, per il suo trentesimo compleanno. Per sempre tuo, Tom. Mise il regalo da parte, facendo cadere a terra la carta, che la cameriera avrebbe raccolto il giorno successivo.

    A eccezione di quando era molto piccola e la mamma era ancora lì a colmarla di affetto, aveva sempre detestato il giorno del suo compleanno. A dieci anni aveva smesso di ricordarlo agli altri, lasciandolo scivolare via senza dire niente. Ma nella sua testa, quello non sarebbe mai potuto essere un giorno come tutti gli altri. All’inizio aveva rinserrato dentro di sé il dolore quasi insopportabile che le causava l’assenza della mamma. E quando, infine, il passare del tempo aveva reso quel dolore più lieve, il pensiero del suo compleanno si trasformò in un fastidioso prurito sotto la pelle, un promemoria annuale di quanto il mondo possa essere un luogo solitario.

    Passando in rassegna l’armadietto delle medicine pieno di intrugli, pasticche e bottiglie da farmacista, decise per una sorsata di liquore di coca. La cocaina la fece sentire rilassata e, ben presto, le tolse la fatica dalla mente e dal corpo. Si spogliò della vestaglia e si infilò nella vasca, immergendosi fin quando l’acqua non le arrivò al mento.

    Non conosceva nessun parente che fosse arrivato a trent’anni. E del resto, sin da quando aveva memoria, si era sempre sentita oppressa dal tempo, come se fosse stata molto più vecchia. Ma ora, a trent’anni, quella sensazione la sovrastava, come se la sua vita dovesse procedere veloce, perché presto anche lei sarebbe andata incontro a una fine tragica, come tutti quelli che aveva avuto la sfortuna di amare. Quel compleanno, un compleanno che avrebbe potuto essere tra i più importanti, era troppo pesante da sopportare. Appoggiò la testa sul bordo della vasca e chiuse gli occhi.

    «No, Tom», disse a voce alta. «Non ho niente». Trattenne il respiro e lasciò che l’acqua la sommergesse.

    Dieci anni prima

    New Orleans, 1897

    Capitolo 1

    «Diglielo».

    Il volto dell’uomo era sudato e la sua espressione sofferente mentre fissava Mary con intensità. Notò allora che aveva gli occhi color smeraldo. Di solito non faceva caso a quel genere di cose. Non aveva senso, pensava, prestare attenzione ai loro tratti. Non c’era motivo di perdere tempo a osservare le spalle di un cliente, o la forma della mascella, o il colore degli occhi. Un cliente era un cliente – belli o brutti, non erano che clienti, e si confondevano tutti l’uno con l’altro alla fine della giornata, quando l’unica cosa che contava era il peso della borsa di iuta di Mary.

    Ma lo sguardo di quest’uomo, gli occhi verdi che scrutavano dentro i suoi, l’aveva colpita. Quasi tutti gli uomini, per la maggior parte del tempo, fissavano un punto alle sue spalle. Non erano particolarmente interessati al suo viso – non gli interessava quanto fossero carnose le sue labbra o quanto fosse giovane e liscia la sua pelle. O che, sotto le macchie di sporco e oltre la dura corazza che indossava, quella puttana da quattro soldi era piuttosto bella. Certo, un aspetto gradevole aiutava, ma in fondo non era un bel visino quello che loro stavano cercando.

    Era il quinto cliente della giornata per Mary. Non era particolarmente bello, il mento era troppo grande su quella faccia e la testa era troppo grande su quel corpo. Ma gli occhi erano delle luci calde che continuavano ad attrarla. Odorava di tabacco – come quasi tutti i clienti – ma Mary notò che se non altro aveva fatto un bagno di recente. Lui inspirò profondamente e appoggiò la schiena alla parete della baracca di Mary.

    Era solo uno sgabuzzino, non diverso da tutte le altre baracche che popolavano Venus Alley come tanti pollai. C’era abbastanza spazio per un sottile materassino, e Mary era riuscita a farci entrare anche un comodino su cui i clienti potevano lasciare i loro oggetti di valore in modo che fossero sempre bene in vista. Sapeva che era un tocco di classe. Allo stesso modo, Mary si faceva vanto di tenere pulita la sua stanza. Lavava a terra regolarmente, e ogni sera si portava a casa il materasso, per togliere le pulci rimaste nell’imbottitura. L’ultima cosa che voleva era che un cliente se ne andasse grattandosi: di sicuro non sarebbe mai tornato. A Mary piaceva pensare che quella fosse davvero la sua stanza, e la chiamava così anche se non lo era. Ma presto lo sarebbe stata, o perlomeno era ciò che sperava.

    «Diglielo», mormorò di nuovo il cliente. Era la prima volta che andava da lei, e Mary sospettò che non fosse di New Orleans – lo aveva visto togliersi il portafogli da una tasca dei pantaloni e appoggiarlo sul comodino, e aveva ipotizzato che solo uno di fuori poteva andare in giro con così tanti soldi. Le interessava capire da dove veniva solo per sapere se l’avrebbe rivisto: con chi andava da lei solo una volta non si dava troppo da fare. Perché sforzarsi tanto con qualcuno che probabilmente non incontrerai mai più? E, tuttavia, per qualche ragione, sentiva il desiderio di compiacere quell’uomo non solo con il suo corpo. A differenza degli altri, non evitava i suoi occhi, non guardava alle sue spalle, o attraverso di lei. I suoi occhi restavano incollati ai suoi, desiderosi, alla ricerca di un contatto.

    «Diglielo», ripeté. «Digli che è bravo».

    Mary gli si avvicinò all’orecchio e sussurrò: «Sei bravo».

    Ma lui all’improvviso la respinse. «Non a me, brutta puttana!», urlò. «A lui!».

    E si indicò l’inguine.

    All’istante Mary sentì scivolare via dal suo corpo ogni calore. Certo, pensò, …lui. Si chinò leggermente, sospirando fra sé e sé. Avrebbe dovuto sapere che non si poteva mai fidare degli uomini. Non importava quanto profondamente la fissavano negli occhi.

    «Allora?», domandò il cliente.

    Mary si rimproverò in silenzio per aver pensato che quell’uomo fosse diverso da tutti gli altri, che non fosse l’ennesimo uomo in trappola. Perché era così che li vedeva: in trappola, venivano da lei per scappare dalle loro mogli, dalle loro famiglie, dalle loro vite. Anche se sembravano uomini a tutti gli effetti non significava che non fossero ancora dei ragazzi. Quanti di loro erano ancora affascinati dal giocattolo che avevano tra le gambe? E quanti di loro cercavano ancora l’approvazione della mamma? Per un quarto d’ora, avrebbe giocato con il loro giocattolo, l’avrebbe intrattenuto, soddisfatto. Per un quarto d’ora, sarebbe stata anche la loro mamma. Avrebbe sorriso come se gli fosse piaciuto. Li avrebbe fatti sentire al centro del mondo, anche

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