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Colei che non si deve amare
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E-book510 pagine7 ore

Colei che non si deve amare

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Scritto fra il 1908 e il 1909, il romanzo Colei che non si deve amare rappresenta nella produzione di Guido Da Verona un vero e proprio “caso” per la tematica scabrosa dell’incesto proposto, sì, come sperimentazione di un erotismo più problematico ma, inevitabilmente, destinato a suscitare reazioni di rigetto morale e letterario. Certo è che alle condanne della critica corrispose uno straordinario successo di pubblico tale da garantire al romanzo un record di vendite che lo poneva fra i best-seller delle opere dello scrittore, avvicinandolo ai livelli di Mimì Bluette, fiore del mio giardino, indubbiamente l’opera più amata dai lettori. Narrato in maniera abile e coinvolgente tanto da mescolare letterarietà e tensione drammatica, sensualità, trasgressioni morali e tecnica della suspense, il romanzo pone al suo centro la vicenda di Arrigo del Ferrante, figura camaleontica di arrampicatore sociale animato dal desiderio smodato di uscire dall’ambiente piccolo-borghese della famiglia per entrare, con i mezzi più spregiudicati, nel mondo aristocratico. Una carriera erotico-mondana quella di Arrigo che non risparmia colpi fino a quando s’imbatte nel fascino irresistibile e peccaminoso della sorella Loretta che considera l’amore superiore a qualsiasi norma morale e condurrà l’inetto Arrigo alla perdizione. Insaziabile, perversa , lussuriosa Loretta smembra Arrigo in un gioco ineluttabile che si risolve nell’amplificazione delle pagine, fino ad arrivare alla duplice catastrofe della nobilitazione sociale e della trasgressione morale con il protagonista che si spara un colpo di pistola alla tempia schernito dagli amici aristocratici e respinto dalla sorella divenuta amante di un altro perché Loretta è appunto colei che non si deve amare.
LinguaItaliano
Data di uscita2 mar 2013
ISBN9788868220143
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    Anteprima del libro

    Colei che non si deve amare - Giudo Da Verona

    Paesi.

    INTRODUZIONE

    «Venne poi Colei che non si deve amare, scritto quasi per intero fra l’Inghilterra e la Francia. È questa l’opera che segnò la fortuna di romanziere di Guido Da Verona. Crediamo che nessun altro libro di letteratura, fra quelli che non furon adottati come testi scolastici, neppure si avvicini alla tiratura di questo romanzo» (Icilio Bianchi, Guido Da Verona, Milano 1919, p. 19). In questa prospettiva di clamoroso successo di vendite si presenta il terzo romanzo di Guido Da Verona, pubblicato nel 1910 presso la casa editrice milanese Baldini e Castoldi, che tra le sue firme annoverava illustri scrittori italiani e stranieri (Fogazzaro, Dostoewskij, Gorkij, Anatole France ecc.). È lo stesso autore a indicare date e luoghi della composizione del libro, scritto fra il 1908 e il 1909, in occasione di viaggi in quei centri della mondanità internazionale che Guido si vantava di frequentare e che contribuivano ad accreditarne l’immagine del viveur nomade e raffinato, mentre alcuni critici ne mettevano in dubbio l’autenticità e li collegavano a ben orchestrati battages pubblicitari.

    Il romanzo è preceduto da una varia produzione in versi e in prosa, passata quasi inosservata nel panorama letterario del tempo, ma in cui si delinea una poetica già definita negli orientamenti essenziali, anche se destinata a diventare sempre più consapevole e smaliziata. Guido esordisce, nel 1902, con I frammenti d’un poema. Canto civile, in cui l’utilizzazione di variegati modelli si congiunge al motivo ideologico della condanna dei moti operai e della esaltazione della repressione di Bava Beccaris («un uomo / fermo di polso a la masnada uscita / diede il rigor de la sua ferrea legge»). La stroncatura di Gian Pietro Lucini minacciò di risolversi in un duello, ma la vena poetica continuò in raccolte (Bianco amore del 1907, Con tutte le vele del 1910) che, al di là dei modesti risultati, consentono all’autore di impadronirsi di ritmi e cadenze presto trasferiti nel più congeniale ambito narrativo.

    Oltre ai vantaggi del genere aperto e disponibile alle più varie soluzioni, l’approdo al romanzo corrisponde alla richiesta di un pubblico sempre più numeroso, capace di alimentare un mercato librario in continuo sviluppo e, di conseguenza, di solleticare le ambizioni di uno scrittore giovane e smanioso di successo. Gli esordi non sono felici: ignorato da critici e lettori e in seguito rifiutato dallo stesso Guido, Immortaliamo la vita (1904) contamina il motivo ottocentesco della sedotta e abbandonata con quello dannunziano del pittore-superuomo Jacopo Prassitèle, il cui tragico amore si svolge sullo sfondo delle lotte operaie di fine ‘800, in una studiata alternanza di vagheggiamenti e separazioni, suicidi e violenze carnali. Con L’amore che torna (1908) si precisa la tematica erotico-estetizzante, risolta nella vicenda di Germano Guelfo di Materdomini, aristocratico minacciato di rovina economica e diviso tra la passione per una bella avventuriera ungherese e il progetto del matrimonio con la ricca Edoarda. Sono storie di amori inquieti e contrastati, in cui si rivela una tendenza alla drammatizzazione della tematica erotica che sarà tra le note più rilevanti della produzione daveroniana. Ma, per il momento, si rimane all’interno di norme etiche comunemente accettate, e l’eccezionalità dei personaggi mira a proiettarli in una dimensione eroica, senza mettere in discussione il sistema dei valori borghesi. Le conclusioni dei due romanzi, con la morte di Jacopo durante una manifestazione operaia e il matrimonio di Germano con Edoarda, dimostrano che Guido non ha ancora imboccato la strada maestra dello scandalo perseguito a fini di successo e si accontenta di riproporre, in racconti non privi di solidità strutturale, motivi estetizzanti e superumani già da tempo circolanti nella cultura dell’epoca.

    È con Colei che non si deve amare che esplode il caso Da Verona, in connessione con la scelta di una tematica scabrosa, quella dell’incesto, proposto come sperimentazione di un erotismo più problematico, ma ovviamente destinato a suscitare irritate reazioni di rigetto morale e letterario. Si delinea adesso l’immagine del «facile propinatore di pagine lascive e stuzzicanti» (Piccola Enciclopedia Garzanti, vol. I, Milano 1952, p. 539), che contrassegnerà l’intera carriera letteraria di Guido e ne farà il principale obiettivo polemico di una critica impegnata a denunciare l’immoralità e la carenza artistica della moderna narrativa pornografica. Il successo si avvia in un’atmosfera di scandalo, tra squalifiche e silenzi che provocano risentite repliche dell’autore, pronto a difendere i suoi scritti in nome dell’adesione al gusto contemporaneo e all’ideale di un’arte non convenzionale, ma anche abile nello sfruttare il vantaggio commerciale derivante da tali polemiche e, quindi, ancor più deciso a insistere sulla scelta trasgressiva.

    Il primo esempio dell’ostilità della critica ufficiale si ha in occasione del Rovetta del 1911, un concorso che si proponeva di premiare il migliore romanzo pubblicato in Italia nell’ultimo biennio. La giuria, formata da Giuseppe Antonio Borgese, Domenico Oliva ed Ettore Janni, escluse Colei che non si deve amare per ragioni moralistiche, ma formulò un giudizio in cui le riserve si affiancavano ad ammissioni sulle qualità artistiche dell’autore: «un felicissimo ingegno di romanziere impacciato da un certo dannunzianesimo tutto superficiale che culmina nello stracco argomento letterario dell’incesto; il che non toglie che la protagonista del romanzo sia disegnata con freschezza, con vivacità di psicologia eccellenti e che il libro, troppo lungo e troppo carico, affermi pienamente lo scrittore che sa l’arte di farsi leggere» (E. Janni, Il risultato del concorso Rovetta, in «Il Corriere della Sera», 26 settembre 1912). Non mancò qualche giudizio più benevolo, che non si limitava a squalificare la licenziosità dell’opera. Su «Il Marzocco» del 4 giugno 1911, pur sottolineando gli eccessi «d’una perversità raffinata e di una lussuria crudele», Giuseppe Lipparini riconosce a Guido «una valentia singolare per cui riesce a farci accettare ciò che ci pare non voglio dire immorale, ma almeno un poco assurdo». Paul Hazard invita a una analisi che sappia cogliere pregi e difetti della narrazione, dichiarandosi contrario a eccessi ingiustificati di «garçonnières» e di «déshabillés», ma anche rigettando letture ispirate a criteri prevalentemente moralistici: «L’insistance est plus déplaisante lorqu’il s’agit de passages licencieux. […] Je suis tout à fait convaincu que M. Guido Da Verona n’insiste pas plus qu’il ne le croit strictement nécessaire à son sujet; [...] parfois, c’est le ton qui est criard; parfois, ce son les ressorts de l’action qui sont plutôt que dramatiques, mélodramatiques; parfois, c’est l’esprit qui manque d’atticisme. L’exagération du procédé: voilà le défaut. Et puis, lorqu’on a fait toutes ces réserves, insisté sur toutes ces critiques, reste toujours un incontestable don d’observer et de rendre un aspect de la vie» (Un romancier italien. M. Guido Da Verona, in «Revue des deux mondes», Paris 1918, p. 211).

    A prevalere fra gli addetti ai lavori, comunque, è la convinzione che Colei che non si deve amare sia il frutto di una astuta operazione commerciale, con la tematica scabrosa finalizzata a solleticare i gusti più bassi dei lettori. Oppure si avanza l’ipotesi, ancora più squalificante, di una ispirazione naturalmente malsana, propensa a frequentare le plaghe congeniali del vizio e della depravazione. Certo è che alle condanne e alle perplessità della critica corrispose uno straordinario consenso di pubblico, tale da garantire al romanzo un record di vendite che non solo sopravanzava le opere di scrittori famosi, ma lo poneva fra i best seller dell’intera produzione daveroniana. Nel 1922, quando Guido passa alla casa editrice Bemporad, si è già alla decima edizione, e nel ‘32 le vendite arrivano al 250° migliaio, avvicinandosi ai livelli di Mimi Bluette, fiore del mio giardino, indubbiamente la sua opera più fortunata. È con Colei che non si deve amare che si delinea la situazione editoriale descritta da Carlo Linati (Il bel Guido e altri ritratti, Milano 1982, pp. 33-34) e destinata a prolungarsi per oltre un ventennio, tra critiche sempre più astiose e l’entusiasmo di masse di fedeli lettori: «Egli piaceva, piaceva immensamente, voracemente; […] le pile dei suoi volumi scemavano e si annullavano nelle librerie come i panettoni a Natale. La produzione daveroniana allagò le bancarelle, invase le provincie, i tavolini da notte dei commendatori, degl’industriali, delle mantenute, degli agenti di cambio: fece la fortuna di languenti librerie e per anni legioni di linotipisti continuarono a lavorare giorno e notte per buttar fuori in tempo i sedicesime necessari a sfamare tanta voracità di popolo. Non solo il bel Guido batteva ogni record precedente ma creava un successo fantastico che pure i più venduti romanzieri francesi potevano invidiargli».

    E dal successo nasce l’esigenza di rispondere alle accuse di una critica in contrasto con il gusto dei lettori e di difendere il romanzo anche dal punto di vista morale. In un passo de Il libro del mio sogno errante (Milano 1919, pp. 9-10), Guido sostiene la matrice letteraria del tema dell’incesto e suggerisce una chiave di lettura incentrata sull’analisi di un aspetto della «complicata sensualità moderna» e sulla giustificazione psicologica dei protagonisti, presi da una passione che, del resto, costituisce solo «un episodio nella vicenda e nell’indagine di questo libro amaro»: «In Colei che non si deve amare l’argomento si aggira intorno a un incesto. La cosa non dovrebbe spaventare nessuno, poiché, dai romanzi della Bibbia sino a quelli dell’Accademia di Francia, tutte le letterature della terra si sono impadronite senza rossore di questo argomento meditabile e capzioso. Anzi, per dire la verità, fra i numerosi libri dell’incesto, mi sembra che il mio debba ritenersi, oserei dire, morale. Morale in primo luogo perché, lungi dall’essere questa colpa lodata, cantata, o resa efferatamente bella traverso una luce di sopranaturale fatalità, essa vi è umanamente studiata – (e credo anzi per la prima volta) – con caratteri di schietto realismo, con segni di assoluta evidenza, come un fenomeno doloroso e terribile della complicata sensualità moderna». Il fatto è che Da Verona soffre per l’ostilità della critica e cerca di scalzarne l’accusa principale, attenuando quella dimensione trasgressiva che pure era stata lo strumento privilegiato della sua scalata al successo: Colei che non si deve amare diventa, per lui, un libro morale e quasi uno studio scientifico, per di più su un problema affrontato in ambienti non certo imputabili di indegnità etica o artistica.

    In effetti esisteva una ricca tradizione letteraria sull’incesto, anche se i modelli utilizzati da Guido non coincidono con quelli indicati nella sua oratio defensoria e rimandano piuttosto all’atmosfera culturale fin de siècle e alle sue letture preferite. Dopo avere acquistato rilevanza nel romanzo libertino del ’700, il motivo dell’incesto era ricomparso sia nella narrativa gotica che nel romanzo storico (da Il monaco di Lewis a Guerrazzi e allo stesso Garibaldi). Ma è soprattutto in età decadente che, sulla scia di estenuate sperimentazioni romantiche, si afferma l’interesse per l’orrore inteso come fonte di ispirazione e di diletto, con la conseguente ricerca di temi edonistici e trasgressivi, da contrapporre alla seriosità della morale borghese. A cominciare da Gautier e Baudelaire, l’idoleggiamento delle più sottili perversioni aveva comportato una crescente attenzione alla lussuria complicata da depravazione, alla carnalità degli impulsi più sfrenati, e nelle opere si erano moltiplicati i casi di ambiguità sessuali, di amori lesbici, di passioni incestuose. Il tema era particolarmente presente nella letteratura francese, ben nota a Da Verona, e in Italia era stato ripreso dallo scrittore a cui, fin dagli esordi, egli aveva guardato come al suo più ammirato modello.

    Formatosi in un’età in cui l’influenza dannunziana si manifesta non solo nel sistema letterario ma anche nel costume e nel modo di vivere, Guido trova nella produzione dell’Immaginifico ampi spunti per il suo romanzo sull’incesto: dalla celebrazione di un’esistenza ispirata all’ideale del piacere alla proposta di un modello superumano non condizionato da norme morali, dall’immagine della donna affascinante e nemica per la sua carica di insaziabile lussuria al motivo della morte intesa come purificazione e riscatto dalle meschinità della vita. Se ne Il trionfo della morte la relazione tra Giorgio Aurispa e Ippolita Sanzio si svolge in una ambigua dimensione di amore-odio e culmina nella tragica conclusione, Fedra e La città morta offrono esempi di vagheggiamenti incestuosi antichi e moderni: con il personaggio classico che proclama le ragioni dei sensi nella sua passione per il figliastro, e l’archeologo superuomo Leonardo che uccide la sorella per liberarsi dall’attrazione morbosa e sottrarla al pericolo della contaminazione. In Forse che sì forse che no (pubblicato lo stesso anno di Colei che non si deve amare) l’incesto diventa una sorta di idealizzata iniziazione al sesso, e lo stesso versante dostoewskijano della produzione di D’Annunzio presenta motivi funzionali quali la connessione fra la morbosa psicologia dei protagonisti e la problematica morale di chi avverte l’orrore delle proprie azioni (con l’aggiunta, ne L’innocente, di contaminazioni tra amore coniugale e rapporto sororale con la moglie).

    Con D’Annunzio, del resto, Da Verona condivide l’attitudine a servirsi delle tipologie decadenti per realizzare una narrativa di consumo. Non vuole rinunciare alla ricerca della qualità artistica, per cui ricorre a soluzioni tecnico-espressive che gli consentano di nobilitare la scabrosa materia e di distinguersi dalla letteratura di stampo popolare, ma mira anche a garantire una maggiore divulgazione alle tematiche dannunziane e a coinvolgere lettori della piccola e media borghesia non raggiunti da eccessi di preziosismi e sublimità. Il suo intento è di allestire una macchina romanzesca che contemperi dignità artistica e fruizione di massa, e ciò induce a privilegiare situazioni di sicura appetibilità, che corrispondano al gusto del pubblico della belle époque, attratto dal piacere di emozioni forti e di passioni proibite. Perciò concede uno spazio inusitato alle scene licenziose e crea atmosfere dense di sensualità, accumulando capitoli in cui i due protagonisti, travolti dall’insana passione, si eccitano con maliziosi giochi erotici e sembrano vicini al possesso carnale. Si susseguono pagine e pagine di seduzioni, di vestizioni femminili sotto gli occhi ingordi dell’uomo, di preannunci di rapporti sessuali che il lettore è invitato a seguire nei minimi particolari fisici e ambientali, senza lasciargli altra opportunità di immaginazione che non sia l’attesa della ormai prossima consumazione del peccato.

    A garantire il successo del romanzo non fu la semplice scelta del tema dell’incesto, ma le modalità di una narrazione particolarmente abile e coinvolgente, protesa a mescolare letterarietà e tensione drammatica, sensualità e tecnica della suspense, trasgressioni morali e crisi di identità. E, per raggiungere il suo scopo, Da Verona contamina tematiche e impostazioni di diversa matrice culturale, connettendo il motivo dell’ascesa sociale di un personaggio di umili condizioni, desunto dalla narrativa naturalistica, con quello decadente della sperimentazione di sensazioni squisite. La prima parte del romanzo, infatti, propone la figura di un arrampicatore sociale, animato dalla ferma volontà di uscire dall’ambiente piccolo-borghese della famiglia e di entrare, con i mezzi più spregiudicati, nel mondo aristocratico. È solo nella seconda parte che irrompe il motivo dell’incesto, con la relazione tra il protagonista e la sorella, dibattuti tra l’abbandono alla forza dei sensi e tentativi di resistenza al peccato. Fino ad arrivare, nell’ultima sezione, alla duplice catastrofe della nobilitazione sociale e della trasgressione morale, con il protagonista che si suicida dopo essere stato schernito dagli amici aristocratici e respinto dalla sorella ormai divenuta amante di un altro.

    La strutturazione della vicenda sembra confermare quanto Guido, in polemica con i critici, sosteneva sulla non esclusività del tema dell’incesto, tanto più che anche Loretta è animata da una smania di affermazione sociale e nutre, nei confronti della famiglia, un disprezzo analogo a quello del fratello. In questa prospettiva la reciproca attrazione tende a configurarsi come momento culminante, e punitivo, di una trasgressione che, partendo dal rifiuto dei valori familiari, arriva alla infrazione delle norme della morale comune. Ma è il motivo dell’incesto a costituire il nucleo centrale della vicenda, intorno a cui gli altri elementi narrativi ruotano con funzioni propedeutiche o variantistiche, comunque privi di dimensione autonoma. Non solo la passione dei protagonisti domina incontrastata nella seconda e nella terza parte del romanzo, ma anche il feroce arrivismo di Arrigo, descritto nella prima sezione, si ispira a una ricerca di eccezionalità che lo rende disponibile a qualsiasi avventura, non esclusa la rottura dei più radicati principi morali. E il titolo stesso del libro ne suggerisce il criterio di lettura, ponendo l’accento esclusivamente sulla problematica erotica del protagonista e sul dovere di resistere alla passione incestuosa.

    Il titolo è indicativo anche dell’ottica assunta nel delineare la storia di Arrigo del Ferrante. La narrazione è condotta in terza persona, da una voce estranea alla vicenda, ma esperta delle innovazioni introdotte dal romanzo di fine ’800. Al racconto in prima persona de L’amore che torna si sostituisce adesso una soluzione che sembra garantire un maggiore distacco e quasi una doverosa presa di distanze dalla scabrosità dell’argomento, come se Guido non voglia farsi coinvolgere nelle torbide passioni dei suoi personaggi e intenda dare alla vicenda addirittura il carattere di un’indagine scientifico-documentaria. Ma, in realtà, si tratta di una operazione studiosamente giocata sull’ambiguità e sulla contaminazione di prospettive diverse, come dimostrano due elementi destinati a divenire canonici nella successiva produzione daveroniana. Da un lato c’è la tendenza dell’autore a fare del personaggio una sorta di specchio della sua vita mondana, attribuendogli esperienze di conquiste femminili, di estetismo, di frequentazione di salotti e caffè alla moda, ben note a chi conosce il versante mondano della biografia di Da Verona. È la tecnica, cara alla sensibilità decadente, della identificazione arte-vita, che diveniva un ulteriore motivo di attrazione per lettori ansiosi di cogliere corrispondenze più o meno piccanti e di congiungere, così, il gusto del pettegolezzo al piacere della lettura. La vicenda di Arrigo è la proiezione delle relazioni e degli ambienti frequentati da Guido, con l’ovvia aggiunta di modifiche e travestimenti necessari a un’opera di finzione romanzesca: a cominciare dal tema centrale dell’incesto, che, comunque, dall’accostamento autore-personaggio acquistava una valenza ancora più pruriginosa. Persino nel ritratto di Arrigo si riscontrano lineamenti che rimandano a quelli di Da Verona: «i baffi leggeri, sul labbro ben disegnato, accentuavano la bianchezza della sua bella dentatura; gli occhi nerissimi, splendenti, con quello sguardo che poteva essere freddo come una lama o dolce come una carezza, la capigliatura compatta, morbida, per cui solcava un’onda lucentissima, il colorito sano, quell’espressione ch’egli aveva insieme di virilità e di baldanza».

    A questa parziale assimilazione di autore e personaggio si congiunge la tendenza a dare al racconto una prevalente dimensione soggettiva, per cui scene e sensazioni sono in genere proposte secondo l’ottica di Arrigo, con una focalizzazione interna che giustifica la profusione di forme liricheggianti ed effusive, adeguate agli stati d’animo dell’uomo innamorato, angosciato e infine deluso. Si ha l’impressione che il narratore, in sintonia con il personaggio, ne riproponga il punto di vista, riproducendo ciò che vede lui e il modo in cui lo vede, ma contemporaneamente ne prende le distanze e mostra di condannarne idee e sistema di vita, con una conseguente ambiguità di squalifica e di complicità, ma anche con una decisa prevalenza dei toni di vitalismo e di voluttà sulla sofferenza connessa al senso di colpa. Il racconto diventa, così, ancora più coinvolgente e si presta a diversi livelli di ricezione: se il protagonista è oggetto di condanna morale e, insieme, modello di trasgressività, d’altra parte lo stesso autore apre al lettore ammiccanti spiragli su una possibile compartecipazione a una vicenda di cui pure mostra di volere condannare l’abiezione. E, ancora una volta, il modello è D’Annunzio, soprattutto l’ambivalente rappresentazione di Andrea Sperelli ne Il Piacere, in cui il ruolo attribuito al personaggio, di strumento di denuncia della moderna crisi dei valori, convive con la simpatia dell’autore per quella vita estetizzante da cui apparentemente intende dissociarsi.

    Prendendo le mosse dagli anni dell’infanzia, il romanzo ripercorre l’intero arco della vita di Arrigo, con l’intento non tanto di delinearne un completo profilo biografico, quanto di chiarire le ragioni, ambientali e caratteriali, che lo porteranno all’esperienza culminante della passione incestuosa per la sorella. Nella convenzionale rappresentazione della condizione piccolo-borghese della famiglia, con lo scontato corredo di meschinità e frustrazioni, si inseriscono i motivi naturalistici del fattore ereditario e della influenza condizionante del milieu, che alimentano il desiderio di evasione del ragazzo. Sulla sua futura ribellione incidono sia le scelte errate del padre che il modello esistenziale proposto dalla madre. Il primo, Stefano, è un uomo laborioso, umile, paziente, debole, ridottosi a fare l’occhialaio in una bottega di periferia dopo una serie di rovesci finanziari, ma convinto che al primogenito siano riserbati «miracolosi destini»: «A scuola, per esempio, – una scuola privata e diretta da un sacerdote – egli non trattava se non con bimbi di famiglie aristocratiche, e tornato alla retrobottega paterna li nominava per i loro titoli di conti e di marchesi con una certa compiacenza nel parerne l’amico. […] Era stato il primo errore nella sua educazione, quello di fargli frequentare una scuola gentilizia piuttosto che mandarlo con altri discoli ai corsi pubblici». La madre, invece, è una donna bellissima e frivola, amante del lusso e dei piaceri, che non si era certo distinta per fedeltà coniugale, tanto da indurre non pochi dubbi sulla paternità dei quattro figli, e si mostra condiscendente con il piccolo Arrigo che, del resto, nel fisico e nel modo di comportarsi, le «somigliava singolarmente».

    I ruoli familiari sono distribuiti secondo il criterio della bipartizione fra quanti appaiono votati a una vita di avventure e altri che, invece, si adeguano alla mediocrità della condizione piccolo-borghese. Alla coppia Arrigo-Loretta si contrappone, così, quella costituita da Laura e Paolo, l’una destinata a diventare una buona massaia e a sposare un droghiere, l’altro che, concreto e solerte, continuerà il mestiere paterno e diventerà il più accanito censore del comportamento dei protagonisti. A completare il quadro ambivalente dell’ambiente di origine è l’altro gruppo familiare che ruota intorno a casa Ferrante e ne ripropone ambizioni e meschinità: l’invadente farmacista Riotti e la pigra e bonaria figlia Eugenia sono entrambi conquistati dal fascino di Arrigo e ne diventano le vittime, cedendo alle sue richieste di denaro con la speranza di una futura parentela o facendosi travolgere dalla sensualità del giovane attratto anche da una femminilità quieta e casalinga, disposta ad abortire e a rassegnarsi all’abbandono.

    Sono personaggi secondari, connotati da un’unica nota e privi di approfondimenti psicologici, la cui presenza, dopo la prima parte del romanzo, diventerà sempre più marginale. Ma svolgono il ruolo essenziale di simboleggiare una condizione di vita alternativa a quella a cui aspira l’ambizioso Arrigo e consentono a Guido di giocare anche la carta dell’accostamento-contrasto fra la mondanità di ambienti nobiliari e la modestia di interni piccolo-borghesi. È un mondo, comunque, sempre presentato dal punto di vista del protagonista, che dapprima ne coglie la grettezza e la chiusura ai grandi sogni, quasi una soffocante prigione da cui occorre fuggire, se si vuole vivere intensamente («Non avrebbe sposata l’Eugenia; non voleva certo una farmacia per dote né per eredità una bottega di occhialaio; non in quel suburbio fuligginoso d’officine avrebbe consumato una vita oscura. Ben altro lo tentava, ben altre visioni accendevano le sue speranze giovanili. Vivere voleva, vivere con tutto il prestigio, con tutto lo splendore, con tutto il gaudio che può essere in questa parola»). In seguito, invece, quando entra in crisi per l’attrazione sessuale della sorella, Arrigo guarda alla casa paterna come al luogo ideale della serenità interiore, in cui concedersi qualche momento di riposo «in mezzo alla sua vita piena d’infingimenti e di scaltrezze». E la definitiva espulsione dalla casa farà da preambolo allo scontro conclusivo con Loretta e al suicidio, come a sottolineare la perdita dell’ultima possibilità di salvezza. Il bifrontismo simbolico dell’ambiente domestico, insieme oggetto di odio e speranza di rifugio, non serve solo alla drammatizzazione della vicenda, ma viene incontro anche alle attese del pubblico piccolo-borghese, compiaciuto di ritrovarvi sia la proiezione dei suoi desideri di emancipazione, fino al sogno di un inserimento nella società aristocratica, sia una rivalutazione, anche se parziale, del proprio modello di vita.

    Arrigo, dunque, vuole entrare nel dorato mondo nobiliare, e si getta nell’impresa con volontà ferma e risoluta: «non s’apparecchiava a vivere da mediocre né da bottegaio; era vicino a compiere i vent’anni, andava incontro alla vita con imperiosi desiderii, una grande ambizione gli si era da qualche tempo accesa nell’animo: quella di volersi ad ogni modo arrampicare, con le mani, co’ piedi e co’ denti, per il dirupo scabroso della vita, finché gli paresse d’esser giunto in un luogo ameno e dilettevole dove piantar le sue tende. […] Purificarsi di quella borghesia che portava indosso come una veste non sua, mescersi tra quelli che invidiava, tra que’ giovini signori, arbitri d’eleganze, scialacquatori di ricchezze, amici di belle donne, frequentatori di saloni, di teatri, d’ippodromi». In lui si ripropone la figura dell’arrampicatore sociale, ampiamente presente nella narrativa ottocentesca e adesso ammodernata dall’aspirazione al piacere e non all’accumulo del denaro (quando lo ha, spende con signorile noncuranza). E in questa scalata è agevolato dalla «sua borghese abitudine del calcolare» e dal carattere prudente e riflessivo, oltre che dalla completa mancanza di scrupoli e dal «barbaro coraggio di rompere i vincoli che potessero impedirgli la sua libera via».

    Il ricorso alle armi congeniali del gioco e, soprattutto, della seduzione di donne ricche, capaci di introdurlo nella buona società, comporta il ripudio del criterio verista del successo perseguito con fatiche e sacrifici e il conseguente approdo a una figura, quella del viveur, cara all’ispirazione (e alla pratica di vita) di Da Verona e indubbiamente più fruibile della sublimità dei superuomini dannunziani. L’ascesa del personaggio è scandita da una lunga serie di relazioni erotiche, e i suoi progressi corrispondono al crescente livello sociale ed economico delle amanti e alla loro capacità di mantenerlo e imporlo all’attenzione. La modesta «mantenuta di un industriale» è presto sostituita da una famosa «canterina di caffè-concerto», per poi passare a una danzatrice tunisina e a una cantante russa, che gli offrirà l’opportunità di un duello e di una elegante «ferita cavalleresca», destinata a trasformarsi in «corona d’alloro del suo torneo mondano». Fino ad arrivare a una anziana ma autorevole nobildonna e, infine, alla «protezione più sicura» di una ricca vedova, Clara Michelis, di cui si mormorava che «avesse consunto il marito in pochi mesi di matrimonio per soverchio amore».

    È una carriera erotico-mondana delineata con pennellate rapide e sbrigative, senza troppo preoccuparsi di caratterizzare le singole conquiste femminili e concedendo uno spazio maggiore alla sola Clara, l’unica presente anche nelle ultime due parti del romanzo e connotata da una devozione tenace e sofferta, capace di resistere anche alla rivelazione della passione incestuosa per Loretta. A prevalere è l’attenzione all’egocentrismo del seduttore privo di valori morali e abile nel collezionare donne ridotte al ruolo di prede da sfruttare, più strumenti funzionali alla sua ascesa sociale che oggetti di attrazione sessuale. L’estetizzante sperimentazione erotica di Andrea Sperelli, proteso alle più squisite sensazioni, è adesso sostituita con un vitalismo finalizzato al successo da conquistare passando attraverso le camere da letto. E non è un caso se in questa prima parte lo svolgimento diegetico prevale sulla descrizione e le atmosfere sensuali si limitano a poche battute: l’unica eccezione è costituita dalla scena della seduzione di Eugenia, in quanto determinata da un infrenabile impulso carnale e non dalla consueta strategia della conquista di donne utili a progetti di affermazione sociale.

    La situazione cambia radicalmente con l’entrata in scena di Loretta, finora relegata in un ruolo del tutto marginale e presente solo in una pagina che ne delineava il carattere aggressivo e malizioso, facendo presagire un destino non diverso da quello del fratello: «Anna Laura invece comandava in casa con una prepotenza da tirannella; era bellina, tanto bellina, che già, quando usciva per istrada, uno sciame di moscardini le ronzava intorno, e, per certe occhiate che lanciava loro, il padre e la madre avevan giudicato che fosse pericoloso lasciarla correr sola. Per istrada ella non faceva che fermarsi davanti a sarte, modiste, profumieri; si vestiva bene, si pettinava con ricercatezza, leggeva di nascosto romanzi proibiti, era un poco pettegola e molto birichina. Ma poiché era bella e poiché aveva quello stesso far signorile di suo fratello Arrigo, né il padre né la madre osavano essere troppo severi con lei; la madre sopra tutto, che forse ricordava in quell’ultima figlia il suo più recente fallo d’amore». Con Loretta, all’inizio della seconda parte del romanzo, si introduce immediatamente il tema del possibile incesto e si complica la fisionomia psicologica del protagonista: da freddo e spregiudicato progettista della propria scalata sociale, Arrigo si trasforma dapprima in pigmalione impegnato a istruire la sorella per agevolarne l’ingresso nella vita mondana e, subito dopo, diventa vittima dell’amore finora praticato a fini opportunistici e tormentato discettatore sulla legittimità morale della nuova relazione.

    Il fascino di Loretta e la sua esplicita volontà di concedersi turbano la sicurezza dell’uomo, ormai dubbioso e perplesso: da un lato l’attrazione per la sorella è avvertita come una forza ineluttabile, esaltante, quasi il godimento supremo a cui abbandonarsi con una ebbrezza senza remore; dall’altro insorge il senso di colpa e si cerca di respingere un sentimento «mostruoso» e «sacrilego», appellandosi agli obblighi morali, alla considerazione dell’incoscienza della giovane sorella, al danno per la sua immagine faticosamente conquistata nella buona società. Di qui il continuo oscillare di Arrigo fra dichiarazioni d’amore e riflessioni sull’enormità del peccato, fra momenti di abbandono e di disponibilità al rapporto completo e brusche fughe, imposte da un rifiuto interiore che assume le sembianze spettrali del padre, volto corrucciato e ammonitore della nefandezza dell’atto incestuoso. Con la conseguenza che la necessità morale della rinuncia contribuisce a rendere ancora più voluttuosa l’eventualità del peccato, a fare apparire come più desiderabile ciò che deve essere rigettato: «Egli aveva nel medesimo tempo un immenso orrore, un orrore inconsapevole, di se stesso, e in ciò trovava nondimeno la sua più forte voluttà. […] Ch’ella dicesse di amarlo, ch’ella osasse dirgli che lo amava, che il suo desiderio gli fosse così palese, così pronto a lasciarsi cogliere, ch’ell’avesse un bisogno quasi malato di fasciarsi intorno alla sua persona e fargli sentire la trepidazione delle sue morbide membra ancor intatte, ch’ella parlasse a lui come al suo primo innamorato … tutto questo lo stordiva, lo tentava, lo inebbriava, metteva nel suo cuor forte una pulsazione veemente, nelle sue vene concitate un brivido quasi di terrore, ne’ suoi nervi rudi una specie di tormento, del quale assaporava con lentezza tutta la perversità. In lei veramente era il possesso vietato, era la gioia che non doveva conoscersi, era il delitto e la somma voluttà».

    Da Verona dispiega tutta la sua abilità di descrittore di complicazioni sessuali nel tentativo di fare di Arrigo un personaggio problematico e di spostare la tensione drammatica del racconto dalla rappresentazione della «gara della vita», affrontata da un piccolo borghese insoddisfatto, all’analisi della crisi di coscienza del viveur combattuto tra carnalità e remore morali. E, in questa decisiva correzione di rotta, attinge a un altro motivo che, preannunciato dall’incapacità dei superuomini dannunziani di pervenire a una completa pienezza vitale, si andava affermando nella narrativa a cavallo fra i due secoli. Da irresistibile e spregiudicato conquistatore di donne, Arrigo si trasforma in un uomo debole e irresoluto, vittima della sensualità che finora aveva costituito l’arma infallibile del suo successo: non sa condurre il gioco amoroso e non riesce a possedere chi gli si offre, trovando solo nel sogno e nell’immaginazione la possibilità di realizzare quanto non è in grado di fare nella realtà. Anche le sue fantasie, del resto, si risolvono in un ulteriore elemento di complicazione, in quanto, offrendogli un’immagine vivida di quanto potrebbe accadere, finiscono per accentuarne la frustrazione e le smanie sessuali. Nel rapporto di coppia Arrigo incarna la figura dell’inetto, incapace di imporsi e di dominare la situazione, proiettato nella duplice prospettiva della versione erotica di una inquieta condizione esistenziale, portata più ad osservarsi e interrogarsi che ad agire, e della consapevolezza maschile contrapposta al disfrenarsi quasi ferino della sessualità femminile: «L’uomo, che ne’ suoi atti è sovente un impulsivo, ama nondimeno interrogarsi, discutere le sue proprie passioni; la donna, che invece ha per natura uno spirito riflessivo, quando una forte passione l’avvince non discute più e lascia che il proprio desiderio vi si abbandoni senza ombra di paura».

    Il contrasto fra i due protagonisti si fonda sulla premessa, largamente condivisa dalla letteratura del tempo, della dimensione esclusivamente erotico-sentimentale della natura femminile. Spavalda e aggressiva, Loretta non impersona soltanto il versante muliebre dell’ambizione sociale di Arrigo, animata com’è anche lei da una connaturata avversione per la «mediocre vita plebea» della famiglia. Incarna anche il topos della femminilità naturale e istintiva, che si abbandona senza pudore alle passioni e non ha i dubbi e le esitazioni del fratello: «Ella, questi fantasmi, non li vedeva; ella fissava il peccato più grande con la più piccola paura. Non aveva in sé che una forza: quella del proprio desiderio; una sola incoscienza: quella della propria femminilità. Nel suo turbato cuore di vergine il senso della tragedia si disperdeva in un sottile piacere». In Arrigo, anzi, non vede nemmeno il fratello, ma un amante a cui concedersi, con l’«incoscienza» di chi non avverte la colpa dell’incesto e considera l’amore superiore a qualsiasi norma morale. Perciò è più coraggiosa e decisa, pronta a servirsi delle armi della bellezza e della seduzione per raggiungere il suo scopo, offrendosi senza ritegno e ostentando la fermezza della donna che «non ha paura dell’amore»: alle obiezioni di Arrigo sulla sua incapacità di distinguere il bene dal male, Loretta ribatte con una equazione bene-felicità («Il male troppo grande è non avere il coraggio d’essere felici») che pone la ricerca del piacere a unico parametro della vita.

    Nella sua figura convergono l’immagine biblica della femmina tentatrice del peccato originale e quella decadente della donna fatale che, con la sua prepotente carnalità, irretisce l’uomo e lo porta alla perdizione e alla follia. Impulsiva e provocante, Loretta rappresenta l’irrazionalità dei sensi, la lussuria insaziabile e perversa, alla cui forza non ci si può sottrarre, ma destinata a divenire nemica dell’uomo, in quanto minaccia di travolgerne equilibri e progetti di vita (progetti, comunque, ispirati alla mondanità e non ai vagheggiamenti eroico-ideali dei superuomini dannunziani). Di conseguenza, il rapporto fra i due si proietta in una dimensione agonistica, di attrazione-contrasto, a conferma della tendenza daveroniana a concepire l’amore come sofferenza, rinuncia, da vivere in una eccitante altalena di tentazioni e cedimenti.

    Gli incontri tra i due protagonisti avvengono in una atmosfera di crescente sensualità, fra struggimenti sentimentali e desideri sempre più ribollenti, che mirano a evidenziare la forza della reciproca attrazione, ma anche a intensificare, nel lettore, l’attesa del congiungimento carnale. Da Verona ricorre alla tecnica della procrastinazione e dell’iterazione, proponendo una lunga serie di scene e situazioni che scandiscono il crescendo della tensione fisica ed emotiva per l’approssimarsi dell’amplesso che appare inevitabile. E la pagina si sofferma sulla descrizione minuziosa di carezze, spasimi, voluttà, a contrassegnare il progressivo disfrenarsi dei sensi. Nella stanza di Arrigo, subito proposto in atteggiamenti di invitante intimità (disteso sul letto o in accappatoio), si svolgono colloqui e liti scherzose, che fanno «urtare l’un contro l’altra, quasi con un senso di sottilissimo piacere», con Loretta che «si curva sopra di lui premendolo con tutto il suo corpo» o chiede una goccia di profumo alla gola e sul petto («Dalla giacchetta sbottonata il petto le fioriva rotondo, come dal gonfio involucro la rosa muscosa che si apre nel mese di maggio»). L’incesto sembra ormai sul punto di essere consumato nella scena della dichiarazione d’amore di Loretta, in cui si pone l’accento sulla voluttuosa carnalità della situazione: «– Che hai? Cosa ti ho fatto, Rigo? – disse con una voce perfida appoggiandosi contro di lui, come per fargli sentire quanto il suo corpo fosse morbido e pieno di tentazione. Ritta sui piedini cercava di giungere alla sua bocca, gli molestava la faccia con la piuma d’oro de’ suoi capelli. – Io so bene cos’hai… – disse, inarcandosi ancor più, ancor più. Egli la guardò ambiguamente, fra il sorriso e l’ira. – Senti … – ella fece. E colle mani congiunte gli piegò il collo per parlargli all’orecchio. Disse, in un bisbiglio, in un bacio: – Mio amore … mio amore … anch’io vorrei … come te … - Con le labbra calde, aride, egli la baciò sul collo nudo. Ella dette un piccolissimo grido, si scoperse con furia la gola, si torse, tremò. – Sì, baciami! … tutta … tutta … – Gli offriva la sua gola turgida, calda, che ansava, ed il collo, il petto, le spalle: tutta la sua nudità odorosa, cercandolo con la bocca convulsa, velando gli occhi appassiti come due viole mammole. Era scapigliata, piena di vampe, bellissima. […] – Lora … Loretta … – mormorò egli più volte, poiché pareva ella non udisse. Quel desiderio veemente aveva sopraffatto il suo, l’aveva quasi annientato. Allora la portò sopra un divano, si mise a carezzarla piano piano, a toccarla paurosamente».

    I giochi sembrano ormai fatti, e invece abbiamo solo da poco superato la metà del romanzo e ci aspettano numerose scene analoghe, variate dall’intensificarsi della «vertigine» e dall’ambientazione nei luoghi più diversi: in vettura mentre ci si reca a pranzo in periferia, nella campagna antistante un’osteria, in albergo durante una villeggiatura sulle rive di un lago. È nel soggiorno in albergo che si raggiunge il momento di massima tensione, quando Arrigo decide di fuggire per sottrarsi alla tentazione dell’amplesso, ma dopo essere stato più di altre volte «infinitamente vicino al peccato», in una profluvie di frenetici abbracci, vestiti strappati, gole avidamente baciate, seni esibiti e offerti «come due bei grappoli maturi». Con Loretta che si offre e Arrigo che rifiuta, ma proprio nel momento in cui sembra che stia per accettare, si capisce il clima di scandalo che accompagna la pubblicazione di Colei che non si deve amare, subito divenuto il più proibito fra i libri di Da Verona e, appunto per questo, appassionatamente letto da quelle signorine a cui era rigorosamente vietato.

    Tutta risolta nella dimensione erotico-passionale, la relazione tra i due protagonisti è seguita senza alcuna concessione alla precisione topografica degli ambienti o alla ricerca di complessi impianti strutturali. La vicenda si svolge sullo sfondo di una città di cui non viene mai indicato il nome, in quanto presentata più come emblema dell’edonismo e della perversione dei tempi moderni che come luogo geografico da caratterizzare con puntuali indicazioni di strade e quartieri. Numerosi, però, sono gli elementi che, per quanto accennati come di passaggio, ne consentono l’identificazione con Milano, quasi a suggerire una ulteriore possibilità di immedesimazione del protagonista con gli ambienti normalmente frequentati dall’autore. Si parla, infatti, di una città «per solito fredda e nebbiosa», piena del «fumo de’ suoi laboriosi opifici», che è situata in una

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