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Patire fino alla sete
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E-book298 pagine4 ore

Patire fino alla sete

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Scritto in un periodo in cui campagne denigratorie e cambiamento del gusto segnavano la fine dell’età daveroniana, Patire fino alla sete ha dovuto aspettare più di settanta anni prima di vedere la luce. Tema centrale del romanzo è l’inquietudine del sesso, l’ansia della ventenne Barbara di fare un’esperienza avvertita come “necessaria” e liberatoria, anche se contraria alle norme del perbenismo borghese. Sfruttando i moduli e le tipologie che avevano fatto la fortuna della sua narrativa, Da Verona capovolge lo schema canonico del rapporto erotico e al topos del maschio conquistatore sostituisce l’intraprendenza della donna affamata di sesso e pronta a offrire il proprio corpo senza pretendere dall’uomo altro impegno se non la disponibilità ad accettare la generosa offerta. Sullo sfondo di ambienti mondani e salottieri, alternati a scene di inquieta vita familiare, la vicenda si conclude con una sorta di ritorno all’ordine che sembra attenuare la dimensione “scandalosa” : quasi un programmatico gioco tra conformismo e anticonformismo, finalizzato allo scopo di stimolare il senso del proibito e, insieme, di offrire al lettore la consolante certezza della validità del proprio sistema di valori. A prevalere, comunque, è la componente trasgressiva, il vagheggiamento di voluttà e avventure che accomuna Barbara e il protagonista maschile, delineato con connotati funzionali a suggerirne l’identificazione con l’autore. Motivi romantici e dannunziani si mescolano con altri di ascendenza fogazzariana, futurista, feuilletonistica, a creare un’atmosfera di tensione liricizzante che, oltre ad agevolare il coinvolgimento del lettore, mira a nobilitare le passioni di eroi sprezzatori della mediocrità della morale comune. Alle cadenze retoricizzate e quasi musicali del racconto sono affiancate soluzioni ironiche e disincantate, in uno studiato contemperamento di registri stilistici che sembra rivelare, in Da Verona, la lucida consapevolezza delle proprie amplificazioni.
LinguaItaliano
Data di uscita24 apr 2013
ISBN9788868220372
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    Anteprima del libro

    Patire fino alla sete - Giudo Da Verona

    Collana

    Modelli di Narrativa di Consumo

    diretta da Tommaso Scappaticci

    condirettori: Antonio D’Elia - Alberico Guarnieri

    GUIDO DA VERONA

    Patire fino alla sete

    Introduzione e nota al testo di

    Tommaso Scappaticci

    Proprietà letteraria riservata

    © by Pellegrini Editore - Cosenza - Italy

    Edizione Ebook 2013

    ISBN: 978-88-6822-037-2

    Via Camposano, 41 (ex via De Rada) - 87100 Cosenza

    Tel. 0984 795065 - Fax 0984 792672

    Sito internet: www.pellegrinieditore.com - www.pellegrinilibri.it

    E-mail: info@pellegrinieditore.it

    I diritti di traduzione, memorizzazione elettronica, riproduzione e adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi.

    Introduzione

    Per quanto il suo esordio risalga agli inizi del secolo, è nel periodo intorno al conflitto mondiale che Guido Da Verona diventa uno dei più noti e discussi esponenti della narrativa di consumo, conseguendo un successo destinato a diventare travolgente negli anni dell’immediato dopoguerra e a configurarsi nella duplice dimensione del caso letterario e del fenomeno di costume di cui era difficile non tenere conto. Da Mimi Bluette fiore del mio giardino (1917) a Il libro del mio sogno errante (1919), da Sciogli la treccia, Maria Maddalena (1920) a Mata Hari. La danza davanti alla ghigliottina (1926-1927), è un susseguirsi di opere che registrano tirature inusuali nel mercato librario italiano e confermano la rapida espansione di una letteratura di intrattenimento capace di sfruttare i meccanismi dell’industria culturale. Pur non ignorandoli, la critica ufficiale mantiene un atteggiamento di insofferente distacco nei confronti dei romanzi di Da Verona, con squalifiche che, a volte ispirate anche a sentimenti di invidia per i suoi mirabolanti successi editoriali, colpiscono le sonorità, le amplificazioni, la scarsa verosimiglianza degli intrecci, l’immoralità dell’«iniquo mercante d’afrodisiaci». Se non mancano giudizi più benevoli (Borgese, Giusso, Ravegnani), a prevalere sono le accuse alla «cucina grossolana, sfacciata e pepata» (Bacchelli) del «romanzatore da coltre», che «ha masticato e sputato un po’ di tutto» (Baldini) e «insaccato ogni cosa senza voler badare come andasse a finire» (Ambrosini): una narrativa, insomma, confinante con la pornografia e protesa ad appagare esigenze meramente ricreative, che la rendevano indegna di indagini più accurate e adatta solo al palato grossolano di lettori culturalmente poco smaliziati.

    Ma a questa condanna, motivata da ragioni formali o moralistiche, si contrapponeva il consenso di un vasto pubblico medio e piccolo borghese, che in Da Verona ritrovava la possibilità di realizzare il desiderio di evasione dalla vita quotidiana e di esorcizzare le inquietudini di un’epoca contrassegnata da conflitti sociali e crisi economiche. Nell’immaginario romanzesco si realizzavano i sogni di una vita avventurosa e aristocratica, densa di lusso e voluttà, di esotismi e forti emozioni, che affiancava il gusto della trasgressione alla ricerca di un piacere assunto a parametro dell’esistenza. E a rendere più appetibile la lettura erano la liricità melodrammatica e una formalizzazione attenta a coniugare dimensione letteraria e agevole fruibilità, con prodotti intrisi di reminiscenze culturali e di rimandi all’attualità, che soddisfacevano il desiderio di nobilitazione estetica del pubblico, senza disorientarlo con problematiche e soluzioni stilistiche troppo complesse. È un successo che si affianca all’affermarsi di nuovi generi letterari destinati a un largo consumo (come la narrativa rosa e il romanzo giallo), ma che presto è incrinato da un complesso di ragioni connesse al mutato clima politico-culturale, più che al progressivo esaurirsi di una tematica già ampiamente sfruttata.

    All’insofferenza del regime per lo scrittore «decadente» (anche se fascista), e alla crescente avversione di una critica restia a riconoscergli cittadinanza letteraria, si affiancano il concordato con la Chiesa e l’accusa di lesa maestà manzoniana per il parodistico rifacimento de I promessi sposi (1930). Sequestrato e mandato al macero, il romanzo provocò un autentico linciaggio dell’autore «scandaloso», dell’«imbratta-carte ad alta tiratura», che corrompeva i giovani e offendeva le glorie nazionali, oltre a creare imbarazzo al programma fascista di collaborazione con le gerarchie ecclesiastiche. La condanna, destinata ad aggravarsi con l’insorgenza di un antisemitismo riscontrabile già nei primi interventi (ne parla Bacchelli nel 1920), procurò non poche difficoltà a Da Verona, anche se non comportò un’interruzione dell’attività letteraria e tanto meno la rinuncia al modello narrativo che, per oltre venti anni, aveva fatto la sua fortuna. In un’epoca in cui anche il gusto del pubblico incominciava a cambiare, Guido rimase fedele ai temi della belle époque, alla figura dell’intellettuale impegnato a offrire piccanti manicaretti di lirismo e passionalità, con una coerenza che, aggiungendosi alla condanna dell’establishment politico-culturale, fu scontata con una emarginazione destinata a risolversi nel suicidio.

    Scritto fra il 1932 e il 1933, il romanzo Patire fino alla sete si colloca in quest’ultima fase dell’itinerario artistico daveroniano, quando sono ancora pubblicate alcune opere (La canzone di sempre e di mai, La canzone di ieri e di domani, L’assassinio dell’albero antico), ma gli editori si mostrano sempre meno disponibili nei confronti di un autore tanto compromesso da non garantire più le vendite di un tempo. Nello stesso manoscritto si trovano tracce dei tentativi compiuti da Da Verona per far accettare il romanzo e delle correzioni che gli furono imposte per eliminarne i presunti difetti: Guido si mostra disposto a introdurre varianti o a sopprimere frasi e intere scene, ma spesso aggiunge annotazioni che rivelano la sua contrarietà alle richieste e, insieme, l’irritazione nel vedere messo in discussione un modello narrativo fino ad allora dimostratosi di sicuro successo. Per difendere le sue scelte si appella a ragioni di «equilibrio», di stile, di coerenza psicologica dei personaggi, ma comunque finisce sempre con il piegarsi alle imposizioni, dichiarandosi pronto a sacrifici che, evidentemente, ritiene necessari per garantire la pubblicazione dell’opera. In una nota dice di non vedere «che cosa possa urtare, ed è certamente peccato sopprimere questa pagina, psicologicamente necessaria», mentre in un’altra, entrando in aperta polemica con la richiesta di tagli, ironizza sull’incapacità di capire che «noi andiamo privando a poco a poco il romanzo, non di parole, ma di fatti e di caratteristiche indispensabili, che, soppresse, cancellano, con il carattere della protagonista, il colore del romanzo». Varianti e annotazioni dimostrano che le richieste di intervento si ispiravano tutte a un criterio di lettura rigidamente moralistico e riguardavano la dimensione erotica della vicenda, ma è indubbio che la mancata pubblicazione dell’opera dipese soprattutto dalla crescente intolleranza nei confronti di un autore ormai soggetto a censure non solo di carattere etico-letterario. Guido aveva pubblicato, e con largo successo, opere non meno scandalose di Patire fino alla sete e, per di più, le correzioni imposte non erano certo tali da annullare, e nemmeno da attenuare, la carica trasgressiva del romanzo. Il fatto è che l’età daveroniana era finita, lo scrittore non era più presentabile, e Patire fino alla sete ha dovuto aspettare settanta anni prima di vedere la luce.

    È la storia della ventenne Barbara, che, dopo un’adolescenza resa difficile dall’abbandono del padre e dalla fragilità della madre malata, frequenta gli ambienti mondani fiorentini, indifferente alle attenzioni dei suoi tanti spasimanti e ansiosa di fare esperienze nuove, eccitanti, al di fuori della monotona normalità quotidiana. Ad angustiarla è soprattutto il desiderio di amare, il senso «d’imperfezione e d’incompletezza» derivante dalla coscienza di una bellezza che, per quanto non indegna di confrontarsi con quella delle dive del cinema, non ha ancora sperimentato i piaceri del sesso. I libri di uno scrittore famoso, iniziati a leggere negli anni trascorsi in convento, le hanno rivelato un mondo di avventure e di passioni non comuni, ingenerando una «sete di vivere» e una volontà di rompere le costrizioni che ritiene di poter soddisfare solo offrendo la propria verginità all’«uomo del destino» («Ma quando lessi quel libro, che fu il mio paradiso e la mia sciagura, tutto quanto non sapevo che esistesse al mondo mi si rivelò con una specie di evidenza nuda e crudele; fece del mio corpo e del mio spirito un rogo bruciante»). Perciò gli scrive una lettera in cui chiede di incontrarlo, dichiarandosi disposta a donargli il suo «corpo intatto» e ad abbandonare tutto per una relazione anche breve («Fate di me tutto quello che volete; io dirò sempre che vi amo, che vi amo»). L’incontro avviene a Bologna, ma la totale disponibilità di Barbara si scontra con il rifiuto dello scrittore a concedere un amplesso di cui lei, dopo l’esaltazione del momento, si sarebbe presto pentita. La delusione non impedisce alla donna di continuare a vagheggiare il suo sogno di pienezza vitale, ma, per quanto speri in un prossimo incontro, è distolta dalle inopinate vicende che sconvolgono la sua vita in famiglia. Nonostante la sua opposizione, la madre accoglie in casa il marito, riapparso povero e malridotto dopo anni di assenza, ma pronto a riprendere le sue abitudini di sfruttatore e alcolizzato, che provocano la morte della moglie e contribuiscono ad avvicinare Barbara a Paolo, un avvocato vedovo e concreto, incontrato sul treno in occasione del viaggio bolognese. Sarà quest’ultimo, con la sua pacata e sincera devozione, a compensare la rinuncia al sogno di vita avventurosa e a fare dimenticare la fascinosa figura dell’«amante».

    Tema centrale del romanzo è l’inquietudine del sesso, l’ansia di Barbara di fare un’esperienza avvertita come necessaria e liberatoria, anche se contraria alle norme morali. Convinto dell’efficacia incantatoria delle sue scelte, Guido imbocca decisamente la via del possibile scandalo letterario, impostando la vicenda su un motivo, quello della contrapposizione tra perbenismo e sessualità, che, come nel caso dell’incesto in Colei che non si deve amare, aveva dimostrato di incontrare il consenso di un pubblico ghiotto di sensazioni forti. Nella ferma decisione di fare coincidere la fine dell’adolescenza con l’appagamento della sua fremente carica sessuale, Barbara ripropone i topoi daveroniani della vita come inesausta ricerca di esperienze e della asocialità di individui eccezionali, protesi a soddisfare una passione da cui ci si sente insieme sublimati e travolti. È una sorta di eroina dell’eros, che, attratta dal gusto del proibito, agisce sotto lo stimolo dei sensi e concepisce la vita come un invito e un inno al piacere, contrapponendosi alla mentalità utilitaristica imposta dal codice di comportamento borghese.

    A evidenziare la necessità della trasgressione è la dimensione di fatalità in cui la donna, come tutti i protagonisti dei romanzi di Da Verona, vede la sua esperienza, soggetta a un destino cui è inutile tentare di sottrarsi. Barbara giustifica tutte le sue scelte appellandosi a una forza superiore: si tratti del proposito di concedersi allo scrittore («il mio destino è uno solo: ubbidirvi»), della preoccupazione di non angustiare la madre malata («Posso io non andare dove il destino mi porta»), del rifiuto all’invito del console francese di accompagnarlo a Parigi. In modo non diverso si comporta l’amante, anch’egli propenso a seguire l’istinto e a lasciare «che le ruote dell’automobile prendano da sé la direzione voluta forse dal destino». È uno degli espedienti cui ricorre Da Verona per innalzare le figure dei protagonisti al di sopra della comune umanità, farne degli eroi nobilitati da una dimensione di ineluttabilità che giustifichi i loro comportamenti irregolari.

    Ma al motivo della fatalità si accompagna uno scavo psicologico imposto dall’esigenza di motivare l’insorgere di una passione proibita. Le pulsioni vitalistiche di Barbara sono collegate a un malessere esistenziale che deriva dalle frustrazioni dell’adolescenza e dalle difficili condizioni familiari, ricostruite attraverso una serie di flashback in cui l’esaltazione sentimentale cede il posto a una più lucida analisi di moti interiori. Si ripercorrono le vicende (la casualità della sua nascita da un matrimonio infelice, l’abbandono della casa da parte del padre, un tentativo di violenza subito durante l’infanzia, le difficoltà finanziarie) che hanno determinato in lei un complesso di inferiorità da superare a ogni costo, una tensione passionale che a volte è avvertita anche come una colpa, ma soprattutto come un risarcimento dovuto alla carenza di affetti. Come accade quasi sempre in Da Verona, l’amore è, a un tempo, travolgente e sofferto, percorso da inquietudini e da un senso del peccato che lo rendono ancora più intenso e morboso, accentuando lo spasimo di unicità e di appagamento. «Vado a perdermi», dice Barbara pensando alla madre, ma si tratta di un momento di consapevolezza subito sopravanzato dalla convinzione di dover percorrere la «strada piena di sole».

    A prevalere nel romanzo, infatti, è il ribellismo della donna impegnata ad affermare la legittimità del suo desiderio sessuale e, per di più, disposta, per raggiungere lo scopo, a diventare un puro oggetto di piacere, senza pretendere dall’uomo altro impegno se non la disponibilità ad accettare la generosa offerta del proprio corpo («Egli è il mio solo padrone. Egli è il mio vero amante. Se mi chiedesse tutto il mio sangue, gli tenderei le due mani dicendogli: ‘Ecco i miei due polsi; aprili e fanne uscire il sangue’»). Per quanto insolito e provocatorio, il comportamento di Barbara non mette in discussione la gerarchia dei sessi e non si iscrive nel progetto femminista di una rivalutazione del ruolo della donna, anche se le si riconosce il diritto di decidere della propria vita sessuale («Il mio corpo era mio; dovevo esser libera di farne quel che volevo»): è sempre all’uomo che è riservata la decisione finale, di avviare il rapporto, di dare sfogo all’istintività femminile, di assolvere la funzione di guida e maestro di vita.

    Il risvolto scandalistico del romanzo, consapevolmente perseguito da Da Verona, non consiste solo nel rifiuto dell’immagine borghese della donna angelo del focolare domestico, ma, ancor più, nel capovolgimento dello schema canonico del rapporto erotico e nel risalto dato alle brame sessuali del personaggio femminile. Da un lato, l’intraprendenza della donna affamata di sesso si sostituisce al topos del maschio conquistatore e impegnato in tentativi di deflorazione di fanciulle più o meno riottose. Per quanto quest’ultimo aspetto non sia escluso, come confermano i riferimenti all’intensa vita sessuale dello scrittore vagheggiato da Barbara, è indubbio che la casistica erotica daveroniana prospetta qui una situazione particolarmente pruriginosa, destinata a eccitare la curiosità del lettore. È l’affermazione di una concezione edonistica della vita, per di più calata nella vicenda di una ragazza della buona società, che sembra non avere altra aspirazione che quella di perdere la propria verginità: un modo per uscire dall’adolescenza, ma anche per affermare un modello di esistenza sganciato dalle coercizioni e dalle ipocrisie della morale borghese.

    D’altra parte l’attribuzione del ruolo di narratore a Barbara, se garantisce al racconto la struttura centripeta derivante dall’assunzione di una prospettiva univoca (per cui tutto è visto nell’ottica della protagonista), comporta anche uno sbilanciamento verso forme enfatiche ed effusive, finalizzate a rendere lo stato d’animo dell’adolescente smaniosa di provare il gusto del proibito. Il criterio autodiegetico era stato sperimentato da Da Verona fin dai tempi de L’amore che torna (1908), ma era prevalso nei romanzi degli anni Venti (da Sciogli la treccia, Maria Maddalena a La mia vita in un raggio di sole, a Yvelise ecc.), in coincidenza con una nuova impostazione della tecnica narrativa. La trama tradizionale era sempre più diventata un’occasione per effusioni liriche (oltre che per gli sfoghi polemici dell’autore), con la conseguenza di attribuire una indiscussa centralità a protagoniste femminili e a inquietudini psicologiche, che il lettore era invitato a seguire più nella loro statica morbosità che nella prospettiva di uno svolgimento dinamico dell’azione.

    In Patire fino alla sete le vicende sono narrate in forma di memoriale scritto da Barbara quando decide di rivelare i suoi più riposti sentimenti al futuro marito. Ma, invece di essere improntato al distacco di chi rievoca esperienze ormai lontane, il racconto ha la fremente passionalità del momento in cui furono vissute. Di qui deriva la prevalenza dei sogni sessuali della protagonista, analizzati nella loro dimensione essenzialmente corporea, di una fisicità ansiosa di provare piacere, ed espresse con immagini esplicite e volutamente choccanti. Barbara si rappresenta «malata di desiderio», «tormentata giorno e notte dal demone dei sensi», vibrante della «gioia che mi trema nel grembo»; dice di non poter «guardare il mio seno scoperto, né toccare il mio corpo, senza che un cerchio di dolore mi cinga e mi stringa la fronte», oppure che «il solo pensiero di poter essere vicino al mio amante, faceva sì che tutto il mio grembo si sciogliesse, in un dolore di gioia martellante». Le immagini del «corpo giovine e caldo», dei seni, del grembo «pieno di attese impazienti» ritornano continuamente a connotare un erotismo adolescenziale che, non a caso, diventa il principale oggetto di attenzione (e di preoccupazione moralistica) da parte del mancato editore del romanzo: «Quando i miei occhi entravan ne’ suoi, quando la mia bocca sentiva, pur lontana, la forma ed il calore della sua bocca, il mio desiderio di stringermi a lui fino a perderne il respiro, perché mi spezzasse, diveniva così irresistibile che sentivo tutto il sangue cadermi dal volto, ed i seni dolermi». Gli stilemi romantici sono piegati a esprimere un erotismo assunto a parametro della vita e risolto in forme dirette, senza l’allusività e i pudori linguistici imposti dalla morale borghese.

    Il protagonista maschile è il tipico eroe daveroniano, avvolto da un alone leggendario di fascino e di mistero, che ha fatto ogni tipo di esperienze e si propone come maestro di vita vissuta in prima persona. Brillante, scettico, «gaudente senza scrupoli», porta sul volto «i segni della sua vita tempestosa» e ha la struttura «elastica» e «nervosa» di chi è fatto «per curvare gli uomini, per affrontare i pericoli, per genuflettere la vita». Dall’«amore stragrande alla bellezza e al piacere di vivere» scaturisce il connotato fondamentale della sua personalità, quel nomadismo che lo distacca dalla mediocre normalità borghese e lo fa sentire «straniero fra tutte le genti», incline a scrivere solo «libri di terra lontana» e sempre pronto a «battere migliaia di strade» e a subordinare le relazioni erotiche al desiderio di fuga e di avventura: «Io non posso e non voglio legarmi a nessuna donna. Ti ho già detto, e scritto, che una sola è la mia vera amante: la strada. A lei rimarrò fedele, fin quando avrò forza per amare il sole e la polvere». L’immagine più congeniale alla sua tensione vitale è la rombante automobile sportiva, quasi ansiosa di percorrere lunghe distanze («pareva, sebbene ferma, che il suo cuore di metallo ancora pulsasse»), mentre l’angoscia del morire è identificata solo nella rinuncia ai piaceri di una vita fatta di amori e di viaggi in terre lontane: «Credi tu che m’interessi di lasciare un libro alla posterità, o di essere catalogato fra quelli che non vollero disturbarsi a fare dell’arte vera, cioè ridicola?...no, la mia tristezza è un’altra. È il pensiero che a quel tempo io non vedrò più il sole, non mi sentirò più cantare nell’anima le sirene dei navigli partenti, non potrò più sentirmi staffilare dall’urto del vento, per i lunghi rettilinei delle strade maestre, non potrò più far l’amore, Barbara, con le belle ragazze come te».

    La convinzione della superiorità della vita sull’arte rimanda alla polemica condotta da Da Verona contro la letteratura contemporanea, ritenuta incapace di cogliere il ritmo dinamico del mondo moderno. Il protagonista del romanzo non vuole essere apprezzato dalle donne per la validità artistica dei suoi scritti, ma per il modello di vita che essi propongono, per la ribellione ai costumi borghesi, attuata nella pratica quotidiana prima di essere riversata nelle opere («Tutta la mia vita l’ho raccontata ne’ miei libri, ove non c’è nulla, o quasi nulla, che non sia fedelmente vero»). Ed è proprio questa dimensione esistenziale a convincerlo della sua superiore dignità artistica e a suscitare il fremente interesse di Barbara («Avevo già letto molti libri, anche di amore e di colpa. Nessuno mi aveva turbata, se non superficialmente. I nove decimi degli scrittori fanno troppa letteratura. Ciò che scrivono con tanta sapienza è litografico e disinteressante»). La polemica è probabilmente indirizzata soprattutto contro il formalismo dei rondisti, del resto concordi nello squalificare la produzione daveroniana, ma ancora più evidente è l’intento di suggerire al lettore una identificazione fra autore e personaggio, fondata su motivi come il culto estetizzante del bello, la visione edonistica, l’antintellettualismo, la coincidenza arte-vita.

    Non è da escludere che in questa prospettiva rientri anche il diverso criterio adottato nella denominazione dei due protagonisti. Mentre a Barbara viene assegnato un nome allusivo della sua tendenza alla trasgressione, a conferma della dimensione fatale in cui si vuole collocarne la vicenda («è il nome che meglio mi si conviene», in quanto fa subito «intendere quale sarà il destino»), il protagonista maschile, invece, non ha nome e dalla donna è indicato solo con gli appellativi generici di «artista», «amante», «signore», «padrone». Una soluzione forse funzionale al proposito di farne la metafora delle represse aspirazioni sessuali di donne bramose di avventura, quasi l’incarnazione dell’ideale uomo del destino che condensa gli aspetti più eccitanti della vita e si contrappone alla monotona meschinità dell’esistenza borghese. Ma all’eventualità della significazione simbolica si affianca l’intento di attribuire all’«amante» un complesso di idee e comportamenti che, collegandolo all’autore del romanzo, era destinato a renderne più pruriginosa la lettura. Da Verona suggerisce spesso l’identificazione di sé con i suoi personaggi, sulla linea della simbiosi decadente tra arte e vita, ma anche per la convinzione che si trattava di una componente gradita in un’epoca di divismo letterario, in cui il pubblico era attratto dalla vita inimitabile di autori disposti a riversarla negli scritti.

    Il modello era, ovviamente, il D’Annunzio superuomo ed esteta delle sensazioni, che aveva sublimato in arte la categoria del piacere, proponendo miti artistici ed esistenziali di grande suggestione. Miti a cui il viveur di Da Verona mira a garantire una maggiore accessibilità, con il suo vitalismo intriso di virilità, di potere seduttivo, di nomadismo, oltre che di una spruzzatina di scetticismo e di «mortale malinconia» («Da qualche tempo egli ha incominciato a parlare del suo dolore; il dolore è la sua musica»). Ma, accanto a quelli dannunziani, nel romanzo si riscontrano spunti letterari di origine diversa: a ostentare atteggiamenti di polemico antintellettualismo è un autore imbevuto di letteratura, che identifica la sua modernità nel rifiuto della cultura tradizionale e nell’esaltazione di una vita fatta di istinto e godimento, ma che riprende i più svariati modelli letterari per finalizzarli all’espressione di una nuova concezione della vita e dell’arte.

    Motivi romantici (i fremiti erotici delle adolescenti in convento, il topos del ritratto, quello della fanciulla che si innamora per fama ecc.) convivono con altri di ascendenza fogazzariana (la connessione dolore-felicità, quella tra piacere e senso di colpa) o futurista (il vitalismo, l’atteggiamento antitradizionalista, il culto della velocità simboleggiata dall’auto sportiva), mentre non manca nemmeno qualche ripresa di elementi pirandelliani, connessi all’intento di complicare la psicologia dei personaggi (per Barbara, l’amante tende a «portare una maschera e nascondere se stesso agli occhi degli estranei», e lui, a sua volta, proclama che «la vita è ormai divenuta, se pure non è sempre stata, una tale commedia, che ognuno si assegna una parte, e cerca di essere un dato personaggio. Quasi sempre sceglie il personaggio che non è il suo»). Nella sua disinvolta manipolazione di disparati stilemi letterari, Da Verona mescola motivi desunti da opere antiche e recenti, di intrattenimento o di

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